sabato 31 gennaio 2009

Marco Revelli: Spettacolo indecoroso

«Spettacolo indecoroso» Sinistre alla guerra civile, fermatevi un giro
Data di pubblicazione: 30.01.2009

Autore: Revelli, Marco

Un’intervista di Daniela Preziosi, il manifesto, 30 gennaio 2009. Con postilla

«Fermatevi, saltate un giro. Un segno di maturità. Senza preoccuparsi se questo comporta un regalo a Veltroni. Perché se non vi fermate voi, comunque io, come elettore, mi fermerò». Il sociologo Marco Revelli, da sempre impegnato nell'analisi del campo della sinistra, fa suo l'editoriale del manifesto alle sinistre: alle europee meglio saltare un giro, tanto più che lo sbarramento costringerebbe a rimettere insieme chi finora si è dato duramente battaglia. «Distinguerei i destini della sinistra dalla questione dello sbarramento. Il destino della sinistra si era già giocato in questo ultimo anno. Sbarramento o no. Un anno fa erano stimati al 12 per cento. Con i comportamenti tenuti dalle loro rappresentanze politiche si sono ridotti a una condizioni in cui anche una soglia del 4 per cento diventa mortale. Il segno di un fallimento storico, di lì non si ricomincia nulla.
C'è un momento di svolta, da quel 12 per cento ai voti di oggi ?
Se vogliamo fissare una data entro la quale qualcosa era ancora possibile, direi il corteo del 20 ottobre 2007. Lanciava un segnale forte da parte di un aggregato di gente di sinistra alle proprie dirigenze politiche. Di quel messaggio non hanno raccolto nulla, di lì è iniziato il lungo suicidio.
In questo «loro» ci sono tante diverse identità e entità, a sinistra.
Tutte viziate dalla stessa tara, la mancanza di responsabilità politica, l'autoreferenzialità assoluta. Microformazioni che praticano la scissione dell'atomo in totale assenza di confronto con il reale. Dal giorno dopo la sconfitta elettorale non sono stati un'ora a riflettere su quello che era successo, e hanno subito cominciato a scagliarsi l'un l'altro i mattoni della casa crollata. Uno spettacolo inguardabile.
Dall'altra parte, però, c'è la scelta di Pd e Pdl di introdurre una soglia alla vigilia del voto.
Un pactum sceleris, il segno dell'immeschinimento della politica. L'uso orribilmente tattico della legge elettorale non per decidere le sorti di un paese, ma le sorti di Veltroni, che si gioca la sopravvivenza su due-tre punti in più, e di Berlusconi, che non può prendere un decimo in meno delle politiche: due capetti di bassa statura, divorati dall'immagine. L'uno col problema di sopravvivere, l'altro di stravincere.
Il Pd rischia di cancellare la sinistra.
Veltroni conferma manu militari la linea dissennata dell'autosufficienza che l'ha già portato alla catastrofe elettorale e politica. Brucia le navi, rende impossibile un ritorno a una politica di alleanze con quello che cerca di sopravvivere a sinistra. È l'idea che lo porterà all'estinzione. E ha due elementi: primo, ciò che conta è il governo e il potere. Secondo, si può perseguire questo obiettivo da soli. Le due cose sono incompatibili. È una forma di delirio politico non giustificabile se non con una lettura di tipo personalistico, un groviglio di rancori, odi, ambizioni tali da offuscare l'intelligenza.
Quindi Veltroni sta costruendo le condizioni per la sua sconfitta?
Per la sua fine storica. Il Pd da solo non raggiungerà mai la maggioranza in questo paese, ma intanto distrugge qualsiasi alleato. La sua esigenza tattica di non perdere troppo lo costringerà a perdere sempre.
Torniamo a sinistra. Vendola, dopo la scissione dal Prc, propone a tutti un cartello elettorale.
Leggo tutto questo con un senso di frustrazione. Siamo ostaggi di professionisti della politica che fanno e disfano sulla base del controllo di microapparati. Di per sé sembra una proposta ragionevole. In realtà no. Gli economisti, parlando della borsa, parlano di 'rimbalzo del gatto morto': lo sbatti e sembra che reagisca, ma è un'illusione. L'unità è proposta da figure che hanno nella loro pratica costante quella della divisione. Chiunque può immaginare che, supposto che riescano a fare un cartello elettorale, un minuto dopo ricominceranno dare il triste spettacolo di questi mesi.
Non salva nessuno?
Nel momento in cui salta per aria l'equilibrio socio-economico globale, da nessuno ho sentito un brandello di discorso politico. Il cartello su cosa lo fanno? Di nuovo per mettere in palio la propria sopravvivenza? Da quest'area, in un momento di straordinario rimescolamento anche politico, con quello che è avvenuto con il cambiamento della leadership degli Usa, ci si aspetterebbe un dibattito straordinario. E invece l'unico che ha detto qualcosa è Mario Tronti, che non appartiene a queste formazioni. Da quel paesaggio di macerie non è venuto un vagito. E se non arriva, le ragioni storiche di quella entità sono venute meno. Ne sentiamo un lacerante bisogno perché soffochiamo in questo universo berlusconian-veltroniano. E tuttavia la finestra su quel lato non si apre. Forse quell'esperienza si è consumata in modo irreversibile, e bisogna ricominciare a ricostruire altrove, con altro linguaggio, altri modelli organizzativi.
Servono altri uomini, altre donne?
Dal punto di vista personale continuo ad avere stima di loro. Politicamente non li sopporto più. L'immagine che offrono è quella di chi sta regolando i rapporti interni e lavorando alla propria sopravvivenza. Che valori hanno? La stella polare della politica di domani è la capacità di coniugare le diversità. Il pianeta finisce, se non siamo in grado di ammettere diversità anche radicali e di farle contaminare a vicenda: israeliani e palestinesi compresi quelli di Hamas, migranti e i locali, atei e credenti. Se non siamo in grado di ridefinire il rapporto fra le identità e la capacità di convivere andiamo alla rovina. Questa è la sfida della politica. Invece cosa mi propongono costoro? La guerra civile in una microarea. La contrapposizione fra vicini. L'incapacità di convivere persino fra i simili.

Postilla

Lo “sbarramento” elettorale è stato motivato, quando è stato applicato alle elezioni politiche, con l’esigenza della “governabilità”: se non si riduce il numero dei gruppi e gruppuscoli presenti nel Parlamento, questo non è in grado di formmare un governo che duri, e che quindi possa effettivamente governare. Molti hanno osservato che la governabilità è entrata in conflitto con la democrazia, e ve ne sono mille prove in tutte le assemblee elettive che hanno perso molto del loro potere nei confronti degli esecutivi, senza che i cittadini sentissero un qualche beneficio per la maggiore “governabilità”. Ma comunque, dietro la tesi dello “sbarramento per la governabilità” c’era un ragionamento che si riferiva a un interesse generale. Ma il parlamento europeo non elegge nessun governo. Quindi non c’è alcun ragionamento dietro la proposta veltrusconiana, se non la sopraffazione degli altri, il mero interesse delle liste più forti al loro ulteriore rafforzamento simmetrico, a spese di tutte le altre opinioni.
C’è da inorridire sul modo in cui il regime bipartisan sta distruggendo la democrazia rappresentativa in Italia. E c’è da disperarsi per l’assenza di qualsiasi capacità di proposta politica da parte dei brandelli della sinistra. Con amarezza temo che l’unica reazione possibile sia quella di protestare. Forse un segnale forte in occasione delle elezioni europee può provocare qualche ripensamento nells successive elezioni politiche nazionali.

Roberto Biscardini: Riccardo Lombardi

Da Facebook

La grande forza di Riccardo Lombardo oggi, non è il pensiero legato all'alternativa di sinistra, che ha caratterizzato peraltro un periodo importante del dibattito interno al PSI degli anni '70, ma il suo essere contemporaneamente riformista e rivoluzionario. Come diceva lui profondamente "riformatore".
Uomo di governo, che conosceva da riformista il valore della cultura di governo anche stando all'opposizione. Uomo di lotta e capace di indicare la rotta verso grandi obiettivi. Quindi grandi speranze. Non era un politico delle piccole cose. E questo motivava e formava soprattutto i giovani. Non era settario, e ci insegnò che la politica si vive dal di dentro ed è movimento. Continuo movimento in trasformazione.
La politica dei grandi ideali e dei grandi obiettivi, l'esatto contrario di ciò che passa oggi il convento.
Ma, anche se il convento è quello che è, mai Lombardi si sarebbe sottratto o ritirato.
Avrebbe alzato nuovamente l'obiettivo e indicato nuove battaglie.

Roberto Biscardini

nencini sullo sbarramento "brasiliano"

l bipolarismo imposto dall'alto richiama una legge dei militari brasiliani



''Per battere i fautori dello sbarramento elettorale alle Europee servono coesione dei partiti che siedono nel Comitato per la Democrazia ed un progetto politico da contrapporre ad un bipolarismo imposto dall'alto che richiama una 'bella' legge imposta dai militari brasiliani nell'ultima fase del loro regime. I militari stabilirono con decreto che ci fossero due soli partiti: Arena e Mdb. Decisero anche di indire le elezioni ma il partito di maggioranza – Arena – sarebbe comunque rimasto tale. Per legge''. Lo afferma il segretario nazionale del Partito Riccardo Nencini.
Se l' ipotesi del C.L.N. non trovasse tutti d' accordo-aggiunge Nencini- sarà necessario promuovere una alleanza che vada dai Radicali al movimento di Vendola, dai Verdi a Sinistra Democratica. Una alleanza fra riformisti- sottolinea Nencini- da riproporre nelle elezioni amministrative del prossimo giugno. Un 'Patto per il futuro'-conclude il leader- del Partito Socialista-che si opponga alle violenze fatte alla Costituzione ed alla democrazia italiana e che dia voce alla sinistra delle libertà''.

Andrea Romano: sbarramento, una legge ad duas personas

andrearomano
Ieri 30 gennaio 2009, 12.46.50

Sbarramento, una legge ad (duas) personas
Ieri 30 gennaio 2009, 11.53.00
È una vocazione irresponsabile quella che spinge Veltroni e Berlusconi a blindare il voto europeo con una soglia di sbarramento tagliata su misura di reciproca convenienza, appena pochi mesi prima delle urne. Perché questa leggina ad personam (ma più esattamente “ad duas tantum personas”) confermerà nell’elettorato la convinzione che le regole del voto siano determinate solo e unicamente dalle mutevoli convenienze del momento. Oggi quelle convenienze impongono la soglia del quattro per cento, prima delle elezioni del 2006 l’orrido Porcellum fu varato per altre esigenze ma con lo stesso metodo frettoloso e opportunistico, domani saranno forse altri i bisogni da soddisfare per portare un altro colpo alla dignità del voto popolare.

A fare le spese di questa disinvolta gestione delle regole del gioco non saranno solo i piccoli partiti, spinti definitivamente fuori dalla rappresentanza parlamentare anche a Strasburgo dove pure non esiste alcun imperativo di governabilità, ma la stessa possibilità di una qualsiasi innovazione dell’offerta politica. Che da domani dovrà percorrere una via non elettorale per provare ad imporsi all’attenzione del pubblico, diversamente da quanto è stato concesso ormai molti anni fa persino alla Lega dell’allora senatore unico e rivoluzionario Umberto Bossi.

È un’irresponsabilità condivisa dai due poli, con Berlusconi che fa un altro passo verso il traguardo del partito unitario del centrodestra, ma che appare particolarmente utile al Partito Democratico. O meglio, utile all’equilibrio di potere che mantiene in vita il Partito Democratico così come esso è concretamente percepito dagli italiani. E dunque alla leadership traballante di Veltroni, con la sua corte di colonnelli e generali tutti mugugnanti ma tutti privi di autentiche alternative. Perché possiamo anche apprezzare il gesto retorico di Dario Franceschini (che intervistato da Stefano Cappellini ha sostenuto che “la riforma serve al paese e ai nostri figli”) ma è evidente anche ai suoi più tenaci sostenitori che la toppa dello sbarramento europeo non porterà alcun giovamento né al paese né tantomeno ai nostri figli.

Rimane da vedere se il Veltronellum sarà utile almeno a Veltroni, che accantona una volta per tutte l’ambizione di qualificare politicamente la propria leadership per abbracciare la strategia degli espedienti come metodo di sopravvivenza. In questo caso l’espediente è una nuova scommessa sul voto utile, che lo scorso aprile non bastò a garantirgli la vittoria e che il prossimo giugno confida di vedere resuscitato in condizioni generali assai meno favorevoli. Perché nel frattempo la sinistra radicale non ha smesso di frantumarsi ma l’effetto novità del PD ha fatto la fine che conosciamo, con il rischio che alle europee una parte decisiva dell’elettorato faccia scattare una sorta di operazione “salviamo il panda”. Con tanti saluti alla soglia del trenta per cento, che pure rappresenterebbe una ben misera linea di galleggiamento per questo PD.

È dunque una scommessa avventurosa quella di Veltroni. Avventurosa e senza neanche la nobiltà residua della “vocazione maggioritaria”, che tale non è mai stata perché fin dall’inizio sostenuta dall’alleanza con Di Pietro. Oggi questo sbarramento artificioso non sarà compreso dal paese e verrà letto come un tentativo di uccidere nella culla qualsiasi tentativo di discutere alla luce del sole la missione del PD. Ma il surreale spirito bipartisan da cui è animato produrrà qualche ricompensa per entrambi i contraenti. Certamente non saranno quelle riforme condivise che l’incedere della crisi rende sempre più urgenti, ma forse qualcosa di più vicino alle sensibilità di Veltroni. Ad esempio la Rai, dove c’è da scommettere che il pantano nel quale il suo PD si è cacciato con i propri piedi sarà magicamente dissolto nel giro di pochi giorni.

Franco Astengo: il cuore di sinistra oltre l'ostacolo del 4%

Da Aprile on line
Il cuore di sinistra oltre l'ostacolo del 4%
Franco Astengo, 30 gennaio 2009, 12:46

Dibattito La sfida, sia pure impari, va accettata con l'ambizione di vincerla. Anche se il partito unico è ancora lontano, deve nascere una lista per le europee e alle amministrative deve accadare lo stesso, in autonomia rispetto al PD con cui non si deve trattare accordi


La decisione assunta quasi all'unanimità dalle forze parlamentari, di governo e di opposizione, di modificare la legge elettorale per le elezioni europee introducendo una soglia di sbarramento del 4%, modifica radicalmente le prospettive delle forze di sinistra escluse dalla Camera e dal Senato nell'occasione delle elezioni politiche del 2008, ancora alle prese con il difficile travaglio del post-sconfitta e alla ricerca, alquanto confusa, di un riallineamento e di una ridefinizione delle posizioni.
E' indubitabile che siamo di fronte ad un "vulnus" sul piano della correttezza nell'esercizio della democrazia, un "vulnus" grave.
Pur tuttavia è necessario cogliere un elemento propositivo che in questa brutta decisione è pur possibile riscontrare: è necessario, quindi, non rivolgersi tanto e solo alla protesta per questa decisione, ma interloquire con gli autori di questo negativo atto di forza mostrando grande decisione, combattività, coraggio, pur nella consapevolezza della difficoltà dell'ora.

Ho trovato francamente sbagliato l'editoriale del "Manifesto" del 29 Gennaio: una posizione, appunto, meramente protestataria con l'idea del "saltare un giro", non partecipando alle prossime elezioni europee, che francamente appare alquanto bizzarra.
Salvo non si volesse lanciare una pura e semplice provocazione!

La sfida, sia pure in impari condizioni di partenza va accettata con l'intento di vincerla: attenzione, non voglio misurarmi con la realtà, esitante ed incerta delle forze politiche esistenti più o meno scissioniste e con le loro beghe interne.
Sto reclamando, invece, la formazione di una lista di sinistra, chiaramente identificabile nei suoi simboli e nei suoi riferimenti storici, culturali, nell'attualità sociale cui partecipi il meglio, anche dal punto di vista della struttura di lista, di cui dispone, soprattutto sul piano dell'esperienza politica, quella ampia parte della sinistra italiana che non si è riconosciuta nella spregiudicata operazione di costruzione (sic!) del PD.

E' necessario il massimo di coinvolgimento di una vera e propria "comunità militante" e tale dobbiamo dimostrarci, da subito: le esitazioni e le incertezze accumulate in questi mesi impediscono, a questo punto, la formazione di una nuova, compiuta, soggettività politica, un partito, ma in questo frangente è - appunto - necessario dimostrarsi ancora una volta "comunità militante" dalla quale far scaturire, per il futuro, una nuova, diversa, organica, presenza politica.

Accanto alla presentazione, in questo modo, alle elezioni europee sarà altresì necessaria una analoga, adeguata, autonomia di presenza elettorale nelle elezioni amministrative: senza aprire trattativa alcuna con il PD, che tra l'altro nella maggior parte delle situazioni locali si trova in imbarazzanti situazioni di subalternità con i poteri economici "forti" che dettano la linea dell'assalto al territorio.

Il PD, in questa situazione, deve essere considerato un concorrente cui sottrarre i voti portati via con l'inganno del cosiddetto "voto utile": niente di più, niente di meno.

Tornando alla campagna elettorale per le elezioni europee, sono tre i punti di attacco possibili sul piano della dinamica politica:

1) La denuncia che l'accordo sullo sbarramento del 4% è frutto dell'accordo diretto tra PDL e PD, alla faccia delle dinamiche democratiche di relazione tra maggioranza ed opposizione;

2) L'inesistenza, appunto, della necessità del cosiddetto "voto utile", in quanto il Parlamento Europeo non è chiamato ad esprimere alcuna forma di governabilità (anzi l'impegno dovrebbe essere quello di reclamare maggiori poteri all'Assemblea, andando in controtendenza con la linea di privilegio di ruolo degli esecutivi;

3) Il richiamo "forte", in senso inverso, all'elettorato, reclamando un suffragio ampio che certifichi l'esistenza di uno spazio a sinistra concretamente rivolto verso al trasformazione della società e della politica e non misurato, semplicisticamente, sull'antico richiamo identitario.

Sul terreno dei contenuti mi permetto , invece, di fornire soltanto due semplici indicazioni:

1) L'utilizzo dello spazio politico europeo, nel senso dell'affermazione di un ruolo dell'Europa nel fronteggiamento della crisi finanziaria ed economica, rivedendo Maastricht e portando avanti un ruolo "politico" delle istituzioni europee che, partendo proprio dall'intervento pubblico, sovverta il rapporto esistente tra politica ed economia. In questo senso sarà necessario far fronte ad un elemento di indirizzo unitario come quello dell'adesione al gruppo del PSE, superando remore che pure ci possono essere in questo senso, ma individuando in quella direzione un luogo di esercizio di quel tipo di iniziativa politica al riguardo delle quale altri troveranno divisioni e difficoltà;

2) Sul piano più propriamente interno la priorità del tema del lavoro e della condizione particolare del lavoro dipendente, sia pubblico, sia privato e del sindacato. E' necessario offrire alla CGIL il massimo possibile di rapporto politico concreto, nella distinzione e reciproca autonomia tra politica e rappresentanza sociale, ma comprendendo appieno che in questo momento non è in gioco il vecchio tema dell'unità sindacale, ma quello - nuovo e ben più pericoloso - della cancellazione della CGIL dal panorama contrattuale.

Si tratta, ne sono consapevole, di una strada molto difficile da percorrere, con risorse organizzative ed umane assolutamente inadeguate, ma mai come in questa occasione è il caso di affermarlo: la politica oltre l'ostacolo.

Matano: dal PD un riparo ai riformisti

da aprile on line

Europee, dal Pd un riparo ai "riformisti"
Jacopo Matano, 30 gennaio 2009, 19:00

Politica Veltroni contestato da una cinquantina di militanti di Rifondazione e Pdci a Torino, ribadisce l'auspicio che la sinistra radicale si unisca in vista delle elezioni perché così facendo "supererà ampiamente il 4 per cento" mentre Bettini e Sereni aprono ai Socialisti e a Sinistra democratica. Acque agitate nella sinistra. Il Nazareno è assediato dall'esterno e dall'interno, con le faglie che stanno emergendo nei settori dalemiani e prodiani



La giornata si è aperta con la bagarre nel Consiglio regionale dell'Umbria, dopo che i gruppi di Rifondazione comunista e dei Verdi hanno esposto in aula cartelli contro l'accordo raggiunto a Roma tra il Partito democratico e il Popolo della libertà sulla soglia di sbarramento del 4 per cento per le elezioni europee. Ed è solo l'antipasto, nonostante sia il segretario di Rifondazione Paolo Ferrero che il leader "scissionista" Vendola (a capo di un governo di coalizione in Puglia) si sono spesi per tenere ben distinti la diatriba nazionale dalle giunte locali difendendo le amministrazioni nate dall'intesa col Pd.
Ma le proteste montano, fino ad arrivare al faccia a faccia tra Veltroni e una cinquantina di militanti di Rifondazione e Pdci a Torino, dove il segretario democratico si è recato ad inaugurare la nuova sede del Partito democratico piemontese. Un'occasione che serve a Veltroni per ribadire l'auspicio che la sinistra radicale si unisca in vista delle elezioni perché così facendo "supererà ampiamente il 4 per cento", e
spiegare la linea scelta dal Nazareno: che la legge italiana deve essere come quella degli altri paesi europei. Se in Francia e in Germania c'è una soglia al 5 per cento, se in Inghilterra lo sbarramento reale è al 9 per cento, l'Italia non può arrivare, a Strasburgo, con decine di gruppi politici. Quanto alle contestazioni, il segretario Pd minimizza: "Abbiamo avuto uno scambio sincero e amichevole".

La pace è lontana dall'essere raggiunta. Il Pd è assediato dall'esterno - e non solo metaforicamente, come dimostra la conferenza stampa tenuta mercoledì scorso dal segretario del Prc sulla soglia del Nazareno - e dall'interno. Più destabilizzanti, per lo stato maggiore dei democrat, sono le faglie che stanno emergendo all'interno del partito, nei settori dalemiani e prodiani.
Se l'ex ministro degli Esteri non si è finora pronunciato sull'argomento, un suo fedelissimo come il senatore Nicola Latorre ha parlato a caldo di "compromesso accettabile", ma ieri ha rilevato che "la soglia del 3 per cento sarebbe stata più giusta". Riserve emerse con più nettezza in una riunione dell'associazione Red svoltasi mercoledì scorso, quando il presidente di Red, Paolo De Castro, ha addebitato a Veltroni un "errore grave che non aiuterà il Pd a prendere più voti", avvertendo il leader che deve smetterla di "dire che, quando le cose vanno male, è sempre colpa degli altri".

Quanto alle file uliviste - sostenitrici di un centrosinistra di governo che l'imposizione dello sbarramento metterebbe a rischio per il futuro -, oggi Franco Monaco torna alla carica diffidando da "un'operazione tutta in perdita per il Partito democratico" e lamentando che "la prepotenza sulla legge elettorale, da parte del Pd, è figlia della paura e della debolezza del partito e della sua leadership". Monaco trae acidamente le somme: "La legge serve a Veltroni e dunque a Berlusconi". Meno astiosa ma non priva di riserve Rosy Bindi: "Non sono così sicura che uno sbarramento così alto, nel momento in cui c'è, e nel momento in cui si muove qualcosa di significativo a sinistra, finisca per premiare il Pd".

Lo stato maggiore del Pd risponde ai critici - interni ed esterni - anche attraverso la ricerca di mediazioni politiche a riprova che dietro a quel 4 percento non si cela nessun istinto omicida verso la sinistra. Così il coordinatore Goffredo Bettini smentisce "inciuci" col centrodestra ("tutto si è svolto alla luce del sole", assicura), difende le ragioni della scelta e lancia un segnale ai contestatori spiegando: "Il Pd deve mettere in campo un tentativo per dare rappresentanza ad altre forze della sinistra riformista, come i socialisti, o che comunque hanno fatto la scelta di combattere per un governo alternativo del paese, come la Sinistra democratica". Insomma, per Bettini "la vocazione maggioritaria in nessun momento deve significare solitudine o pretesa di annessione o di prepotente egemonia".

Un messaggio reso più esplicito da Marina Sereni, vicecapogruppo del Pd alla Camera che manda segni di pace - e di propensione all'ospitalità verso forze compatibili col Pd che non possono farcela a superare l'asticella del 4 per cento: "Anziché attaccarci, le forze alla sinistra del Pd dovrebbero costruire le condizioni di un'aggregazione che possa dare voce al loro elettorato. Per parte nostra, se sarà introdotto lo sbarramento, credo dovremo essere disponibili - sottolinea - ad aprire le nostre liste ad altre forze riformiste".

Dalle parti del Partito socialista e di Sd, fischiano le orecchie, tanto più che il collante, a sinistra, è un bene sempre più raro, ma è presto per scoprire le carte: Riccardo Nencini, segretario dei Socialisti, avanza l'ipotesi di una "alleanza che vada dai Radicali al movimento di Vendola, dai Verdi a Sinistra Democratica", ma intanto non chiude al Partito democratico col quale da tempo si discute la road map del riavvicinamento. Claudio Fava, coordinatore nazionale di Sinistra democratica continua a ribadire "l'errore politico" dell'accordo sancito tra Pd e Pdl e denuncia "il baratto" con merci di scambio che va dal federalismo alla "lotta alla mafia". Accuse pesanti, che ampliano le distanze tra gli ex compagni diessini.
La verde Grazia Francescato si smarca da Rifondazione e dai vendoliani e invita a mettere il Partito democratico "di fronte alle conseguenze di questo accordo innaturale con Berlusconi" chiedendo "ai nostri rappresentanti sui territori di sospendere i tavoli per le prossime elezioni amministrative".
Oliviero Diliberto sottolinea che "sono in corso intensissimi colloqui con i dirigenti di altri partiti (l'area grassiana del Prc, ndr)" e si dice "ottimista" riguardo all'ipotesi di correre sotto un unico simbolo alle prossime elezioni europee. Il verde Paolo Cento fa sapere che il Sole che ride non starà mai all'interno di una colazione che abbia come simbolo la falce e il martello e boccia come "vetusta" la proposta di Diliberto, fa arrabbiare i comunisti (tanto più che il Sole che Ride non aveva disdegnato l'alleanza con il Pdci quando si è trattato di eleggere 11 senatori tre anni fa) e viene da quest'ultimi liquidato con un secco "nessuno ti ha chiamato".
Insomma, la confusione è grande sotto i cieli e in queste condizioni, la proposta lanciata da Il Manifesto di "saltare un giro elettorale" potrebbe tramutarsi nell'unica soluzione onorevole.

Segnalazione: incontro FIAP 7 febbraio

30/1/2009

L'allarmante caso Di Pietro





FABRIZIO RONDOLINO

L’uragano che si è scatenato su Di Pietro induce ad una riflessione sullo stato della libertà nel nostro Paese. Non c’è giornale, gruppo politico, sito Internet o commentatore che non si sia scagliato con furia contro l’ex Pm più famoso d’Italia: e non per controbattere l’opinione sul presunto «silenzio» del Quirinale, ma per negarne la legittimità, la possibilità stessa di esistere. Mezzo Pd ha chiesto di rompere ogni rapporto con l’Italia dei Valori, tutti i senatori della Repubblica sono scattati in piedi per applaudire la loro «convinta solidarietà» a Napolitano, il presidente emerito Scalfaro ha segnalato l’esistenza di un reato. E lo stesso Quirinale, con un comunicato che ha pochi precedenti, ha giudicato «pretestuose» e «offensive» le parole di Di Pietro. Quelle parole sono probabilmente sbagliate, ma non sono né arbitrarie né insultanti: appartengono al dibattito politico. Ci sono molto buoni argomenti e una notevole documentazione per sostenere che il presidente Napolitano sulle questioni della giustizia non è venuto meno al suo ruolo costituzionale di arbitro, e che il suo presunto «silenzio» non è affatto assimilabile a un comportamento mafioso. Le opinioni sollecitano controargomentazioni: non comunicati di solidarietà, ritorsioni politiche o denunce alla magistratura.

Il caso Di Pietro è tanto più allarmante, in quanto non è isolato. Il capitano della Nazionale, Fabio Cannavaro, per aver detto che Gomorra (il film) «non gioverà all’immagine dell’Italia nel mondo, abbiamo già tante etichette negative», è stato accusato di colludere con la camorra, e più d’uno ha chiesto che gli sia tolta la fascia di capitano. Su Facebook, il network sociale più popolare di Internet, è in corso una campagna per cancellare quei gruppi di discussione che si proclamano fan dei mafiosi e, più recentemente, quelli che inneggiano allo stupro di gruppo. Sono opinioni abominevoli, ma sono opinioni. Questo confine non va mai cancellato. Un conto è sostenere cha la Shoah non è mai esistita, e un conto è bruciare una sinagoga. Un conto è chiedere che i rom siano cacciati, e un conto è assaltare i loro campi. È evidente che c’è un nesso fra le parole e le azioni: altrimenti, perché mai dovremmo parlare o scrivere? Il concetto stesso di educazione si basa sulla convinzione che le parole producano risultati. Ma spetta singolarmente a ciascuno di noi compiere o meno un’azione, e assumersene la responsabilità. Alle parole si può rispondere soltanto con altre parole.

Se ci pensiamo, l’unica vera libertà che ci appartiene come diritto naturale, e che definisce il nostro orizzonte nel mondo, è la libertà di esprimerci: è cioè la libertà di pensiero, di stampa, di coscienza, di religione, di ricerca scientifica... Tutte le nostre attività, che sia scrivere una canzone o andare in chiesa, votare alle elezioni o comprare un giornale, trovare un rimedio all’Alzheimer o scegliere una compagnia telefonica, hanno a che fare in un modo o nell’altro con la libertà di espressione. Poter dire la nostra, senza costrizioni né vincoli, è dunque il bene più prezioso. Se introduciamo un qualsiasi criterio per giudicare quali opinioni si possono esprimere e quali no, in quello stesso momento deleghiamo ad altri, fosse pure una maggioranza democraticamente eletta, la nostra personale libertà di espressione, che è invece inalienabile perché è soltanto nostra, come la vita. Chi può decidere che cosa è lecito dire e che cosa non lo è? Mentre è evidente che ammazzare un uomo per strada è un reato, è molto meno evidente la linea che separa un fan club dei Soprano da un fan club di Riina: in realtà, se ci pensiamo bene, questa differenza non c’è. Sta alla responsabilità di ciascuno capire che una cosa è un telefilm, una cosa è scrivere corbellerie su un capomafia pluriomicida, e un’altra cosa ancora è sparare.

La libertà di espressione è indivisibile. Tutti dovrebbero poter esprimere liberamente le loro opinioni. Soprattutto le più ributtanti. Mentre infatti la censura nasconde il problema e in questo modo sceglie di non risolverlo, un dibattito libero e aperto non esclude la possibilità di convincere chi non la pensa come noi.

Fabrizio Rondolino: l'allarmante caso Di Pietro

Da La Stampa

30/1/2009

L'allarmante caso Di Pietro





FABRIZIO RONDOLINO

L’uragano che si è scatenato su Di Pietro induce ad una riflessione sullo stato della libertà nel nostro Paese. Non c’è giornale, gruppo politico, sito Internet o commentatore che non si sia scagliato con furia contro l’ex Pm più famoso d’Italia: e non per controbattere l’opinione sul presunto «silenzio» del Quirinale, ma per negarne la legittimità, la possibilità stessa di esistere. Mezzo Pd ha chiesto di rompere ogni rapporto con l’Italia dei Valori, tutti i senatori della Repubblica sono scattati in piedi per applaudire la loro «convinta solidarietà» a Napolitano, il presidente emerito Scalfaro ha segnalato l’esistenza di un reato. E lo stesso Quirinale, con un comunicato che ha pochi precedenti, ha giudicato «pretestuose» e «offensive» le parole di Di Pietro. Quelle parole sono probabilmente sbagliate, ma non sono né arbitrarie né insultanti: appartengono al dibattito politico. Ci sono molto buoni argomenti e una notevole documentazione per sostenere che il presidente Napolitano sulle questioni della giustizia non è venuto meno al suo ruolo costituzionale di arbitro, e che il suo presunto «silenzio» non è affatto assimilabile a un comportamento mafioso. Le opinioni sollecitano controargomentazioni: non comunicati di solidarietà, ritorsioni politiche o denunce alla magistratura.

Il caso Di Pietro è tanto più allarmante, in quanto non è isolato. Il capitano della Nazionale, Fabio Cannavaro, per aver detto che Gomorra (il film) «non gioverà all’immagine dell’Italia nel mondo, abbiamo già tante etichette negative», è stato accusato di colludere con la camorra, e più d’uno ha chiesto che gli sia tolta la fascia di capitano. Su Facebook, il network sociale più popolare di Internet, è in corso una campagna per cancellare quei gruppi di discussione che si proclamano fan dei mafiosi e, più recentemente, quelli che inneggiano allo stupro di gruppo. Sono opinioni abominevoli, ma sono opinioni. Questo confine non va mai cancellato. Un conto è sostenere cha la Shoah non è mai esistita, e un conto è bruciare una sinagoga. Un conto è chiedere che i rom siano cacciati, e un conto è assaltare i loro campi. È evidente che c’è un nesso fra le parole e le azioni: altrimenti, perché mai dovremmo parlare o scrivere? Il concetto stesso di educazione si basa sulla convinzione che le parole producano risultati. Ma spetta singolarmente a ciascuno di noi compiere o meno un’azione, e assumersene la responsabilità. Alle parole si può rispondere soltanto con altre parole.

Se ci pensiamo, l’unica vera libertà che ci appartiene come diritto naturale, e che definisce il nostro orizzonte nel mondo, è la libertà di esprimerci: è cioè la libertà di pensiero, di stampa, di coscienza, di religione, di ricerca scientifica... Tutte le nostre attività, che sia scrivere una canzone o andare in chiesa, votare alle elezioni o comprare un giornale, trovare un rimedio all’Alzheimer o scegliere una compagnia telefonica, hanno a che fare in un modo o nell’altro con la libertà di espressione. Poter dire la nostra, senza costrizioni né vincoli, è dunque il bene più prezioso. Se introduciamo un qualsiasi criterio per giudicare quali opinioni si possono esprimere e quali no, in quello stesso momento deleghiamo ad altri, fosse pure una maggioranza democraticamente eletta, la nostra personale libertà di espressione, che è invece inalienabile perché è soltanto nostra, come la vita. Chi può decidere che cosa è lecito dire e che cosa non lo è? Mentre è evidente che ammazzare un uomo per strada è un reato, è molto meno evidente la linea che separa un fan club dei Soprano da un fan club di Riina: in realtà, se ci pensiamo bene, questa differenza non c’è. Sta alla responsabilità di ciascuno capire che una cosa è un telefilm, una cosa è scrivere corbellerie su un capomafia pluriomicida, e un’altra cosa ancora è sparare.

La libertà di espressione è indivisibile. Tutti dovrebbero poter esprimere liberamente le loro opinioni. Soprattutto le più ributtanti. Mentre infatti la censura nasconde il problema e in questo modo sceglie di non risolverlo, un dibattito libero e aperto non esclude la possibilità di convincere chi non la pensa come noi.

Fulvia Bandoli: Quel 4% che non salverà il PD

Da Aprile on line

Rss/Atom Lettere Redazione Archivio Links
Quel 4% che non salverà il Pd
Fulvia Bandoli*, 29 gennaio 2009, 12:30

L'intervento Lo sbarramento serve al Pd per ottenere consenso con il voto utile che, nelle elezioni politiche, è arrivato da sinistra. Un escamotage per ridurre le perdite che si preannunciano alle europee. L'obiettivo è quello di creare due poli: i democratici da un parte e i comunisti (Prc e PdCI) dall'altro. Cancellata una Sinistra nuova competitiva. Ma si tratta di un piano miope


Proviamo a ragionare pacatamente, anche se l'accordo sulla legge elettorale europea tra Berlusconi e Veltroni non si può mandar giù. Ma la rabbia obnubila il cervello e dunque la metto per un attimo da parte.
Il Pd è in crisi profonda (l'ipotesi sulla quale è nato è praticamente fallita) e pensa di correre ai ripari, come tante altre volte molti hanno fatto, cambiando le regole del gioco e la legge elettorale. Berlusconi lo permette, non per dare una mano al Pd ma perché poi chiederà il conto su altre questioni in campo (Rai tv, giustizia, federalismo).

Le piccole sinistre disperse fuori dal Pd sono anch'esse in gravi difficoltà (incapaci fino ad ora di mettere in campo un disegno credibile di Sinistra popolare, democratica, che rimetta al centro i problemi del paese e della qualità dello sviluppo, la giustizia sociale, i diritti) ma negli ultimi mesi alcuni piccoli fatti erano accaduti: è partito, pur con fatica, un percorso costituente, si sono chiarite le cose dentro Rifondazione (tra coloro che puntano ancora e solo sull'identità e coloro che sono disponibili a mettere in gioco la loro cultura con quella di altre e altri in una Sinistra più ampia e non solo di testimonianza), sta nascendo in decine di città l'associazione Per la Sinistra ( rimo passo verso la costituzione di un nuovo soggetto unitario della Sinistra).

Oltre a questo spopola la Lega nei suoi territori e non solo, e il partito di Di Pietro (un mix di populismo e di personalismo esasperato) lucra sulle difficoltà del Pd e sull'assenza di una opposizione concreta ed efficace.

Tutto ciò mentre la crisi economica morde sempre più forte mettendo in pericolo posti di lavoro (centinaia di migliaia) e la Confindustria con l'aiuto del Governo e la complicità silente dei democratici spacca i sindacati e isola la Cgil sui contratti.

La sintesi è estrema ma non lontana dalla realtà. In questo quadro matura il proposito pervicace del gruppo dirigente del Pd di sbarrare la strada in Europa a tutte le formazioni minori. Il Parlamento europeo è sede di rappresentanza di tutte le culture politiche, anche piccole, non ha problemi di governabilità da risolvere, e in questi decenni molte battaglie civili ,democratiche, ecologiche, hanno visto protagoniste proprio le piccole forze politiche rispetto alla paralisi che spesso attanagliava i due più grandi schieramenti (PPE e PSE). Ma il segretario del Pd non pensa all'Europa in questo momento, pensa alla sopravvivenza politica e l'errore è proprio questo.

Quando manca la politica, quando il profilo di un partito non è chiaro, quando le differenze interne sono in componibili, non è una nuova legge elettorale che può risolvere questi nodi. Lo si è pensato anche in passato (sia a destra che a sinistra): quante volte infatti si è cambiata la legge elettorale sperando desse una vittoria che la politica non dava?

Lo sbarramento, secondo coloro che lo propongono, dovrebbe servire a "mantenere" al Pd quel famoso voto utile che gli era arrivato da sinistra. A ridurre le perdite. E dovrebbe stroncare sul nascere qualsiasi tentativo (pur difficile e travagliato) di dar vita ad una Sinistra nuova. Il Pd non vuole essere un partito di sinistra ma non vuole che nasca nessun soggetto politico alla sua sinistra. Insomma lo schema sarebbe questo: il Pd da un lato, i Comunisti (Rifondazione e Comunisti Italiani) dall'altra. Che nasca una Sinistra che vuole competere con il Pd non può essere tollerato. I dirigenti del Pd non accettano che qualche milione di elettori adesso, forse di più domani, non si riconoscano il quel partito e preferiscano l'astensione, il voto alla Lega o all'IDV (in ordine di grandezza).

Ma il disegno è miope anche per un'altra sostanziale ragione: alle elezioni politiche si è presentato un Partito Democratico appena fatto, fresco della mobilitazione che aveva dato vita alle "primarie", pieno di belle speranze e unico grande partito che poteva essere presentato come una alternativa a Berlusconi. Oggi il Pd è un partito non nato (non solo un amalgama mal riuscito), che non riesce a prendere posizione su nessuna delle questioni in campo per via delle sue incomponibili divisioni, travagliato da una questione morale o per meglio dire da estesi "comportamenti" politici e amministrativi poco trasparenti e da una concezione del potere assai poco democratica. E' altamente improbabile, per tutte queste ragioni, che gli elettori che lo votarono pensando di dare un voto utile stavolta ripetano quel voto. E' più probabile che si indirizzino, per protesta, verso Di Pietro o verso la Lega.

E se così fosse, ancora una volta, assisteremmo a quella eterogenesi dei fini (che per dirla in parole povere significa che si persegue un obiettivo e se ne ottiene uno contrario) che tante vittime ha mietuto in questi decenni. Non si rafforzerebbe alcun bipolarismo (come si va pomposamente dicendo) ma si rafforzerebbero due partiti (Lega e Idv) che assai difficilmente potrebbero essere in futuro alleati del Pd in una eventuale alleanza contro il centro destra. La scelta del Pd è isolazionista, inutilmente autosufficiente e miope.

Io non so se questa sciagurata modifica della legge elettorale andrà in porto, noi ci batteremo con le nostre forze perché non sia così. Ma se dovesse accadere allora dovremo pensare a come mettere in campo una risposta politica, che non sia caratterizzata dalla improvvisazione e dalla ossessione di arrivare al quorum, ma che sia la partenza di un percorso lungo ma serio. Questo penso oggi, disponibile come sempre al confronto con ipotesi diverse dalla mia.

*Sinistra democratica

Monica Maro: crisi, governo al buio

da Aprile on line

19:15
Rss/Atom Lettere Redazione Archivio Links
Crisi, governo "al buio"
Monica Maro, 29 gennaio 2009, 19:52

Guglielmo Epifani, ha ribadito l'allarme per l'esiguità di risorse: "La crisi dilagherà - ha detto - e il governo non sta facendo nulla". Parere condiviso dalla presidente della Regione Piemonte, Mercedes Bresso, delusa dal tavolo tra esecutivo e Regioni: "Le cifre dicono che ovunque ormai è allarme rosso". Nubi anche nel settore auto: voci insistenti danno come probabile un bonus di 1.500 euro per la sostituzione delle vecchie vetture con le meno inquinanti euro 4 ed euro 5 o con auto elettriche ed ibride. Il problema resta però quello dei costi dell'operazione. Le stime degli esperti infatti non coincidono affatto


Un vero e proprio bollettino di guerra: le notizie sugli effetti della crisi, che continuano ad arrivare da tutto il mondo, parlano di "giganti" ormai in ginocchio e di perdite di migliaia di posti di lavoro. I bilanci delle maggiori aziende sono infatti in rosso: per ultima, stamane, la Shell ha annunciato una perdita netta di 2,8 miliardi di dollari nel quarto trimestre, a fronte di un utile di 8,47 miliardi di dollari nello stesso periodo dello scorso anno. Il calo dei profitti del colosso petrolifero anglo-olandese è legato alla discesa del prezzo del petrolio.
Nel 2008, gli utili sono così calati del 16% a 26,28 miliardi di dollari. E in Giappone, sempre oggi, Toshiba ha preannunciato il taglio di 4.500 posti di lavoro nel settore dei semiconduttori nonché la riduzione del 60% della spesa in conto capitale per l'esercizio 2009.
In caduta libera anche l'utile della Sony (-95%): la perdita netta è stata di 18 milioni di yen (200 mln di dollari), con un calo delle vendite del 24,6%. Anche gli utili della Nintendo sono in discesa del 18%, ma le vendite sono aumentate del 16,7%: nel paese del Sol Levante, la crisi è dovuta in primo luogo al forte apprezzamento della divisa nipponica nei confronti di euro e dollaro. E perfino la metropolitana di Londra, "The Tube", corre ai ripari e annuncia tagli al personale per 1.000 unità. Un piano che i sindacati hanno definito "lacrime e sangue", soprattutto in considerazione delle olimpiadi del 2012.
Negli Stati Uniti, Time Warner ha fatto sapere che taglierà 700 posti di lavoro dalla sua unità Aol Internet a causa del crollo delle inserzioni pubblicitarie. Sempre dagli Usa, è di oggi la notizia che Kodak intende tagliare fino a 4.500 posti di lavoro e così pure la caffetteria più famosa del mondo Starbucks i cui profitti sono precipitati di quasi il 70%. Come conseguenza, verranno tagliati 6.700 posti di lavoro.
Unico segno positivo viene dalla Svezia. Il gigante dell'abbigliamento "cheap" H&M - secondo nel mondo solo a Gap - ha visto i suoi profitti salire del 12,5% e le sue vendite del 13%. Non solo, ma ha annunciato la volontà di assumere 7.000 lavoratori e l'apertura di 225 nuovi store.
In Italia il governo ha chiesto oggi un contributo alle Regioni per gli ammortizzatori sociali, di 2,650 miliardi di euro. "Complessivamente - è il ragionamento dell'esecutivo - possono essere mobilizzate risorse nazionali per 5,350 miliardi di euro". Ma il leader della Cgil, Guglielmo Epifani, ha ribadito l'allarme per l'esiguità di risorse: "La crisi dilagherà - ha detto - e il governo non sta facendo nulla".
Parere condiviso dalla presidente della Regione Piemonte, Mercedes Presso: "Le cifre sulla crisi dicono che ovunque ormai è allarme rosso, ma il governo brancola nel buio".
In Piemonte per la cassa in deroga nel 2009 serviranno circa 120 milioni, ai quali ne vanno aggiunti almeno altri 50 per il sostegno dei precari. Il governo chiede alle Regioni di collaborare ma di suo non mette un euro. "L'incontro di oggi tra governo e regioni (alla quale è andato il presidente della Conferenza delle Regioni Errani, ndr) - afferma la Bresso - è stata un disastro. In un nuovo documento il governo chiede alle Regioni di collaborare sulla crisi stanziando due miliardi e 650 milioni sugli otto previsti. Il documento però non spiega dove questi soldi vadano presi. Sembra che il governo stia pensando al Fondo Sociale Europeo, ma l'Unione Europea ha detto con chiarezza che con questi fondi non si possono finanziare politiche passive del lavoro, cioè proprio la cassa in deroga della quale (avendo esaurito quella ordinaria e straordinaria, ndr) c'è ora bisogno".
"Ma soprattutto - aggiunge la presidente della regione Piemonte - non sapendo in realtà che cosa gli otto miliardi anticrisi dovrebbero finanziare, non si può dire in che modo le Regioni possano collaborare. Noi abbiamo dato comunque la nostra disponibilità, anche se cifra è molto elevata. Per il Piemonte si tratterebbe di trovare circa 250 milioni in due anni, che anche nel Fondo Sociale Europeo non ci sono. Il governo stanzia somme per le quali non c'è cassa, dice di volere attingere dai fondi europei, ma quelli del Piemonte sono già tutti impegnati. Se ce li bloccano, bloccano una serie di politiche anticrisi che abbiamo già messo in campo usando quei fondi. Vogliamo - conclude - che il governo metta soldi veri, non scritture contabili".

Intanto, il governo lavora sul pacchetto di misure per il settore auto che il ministro Scajola ha promesso di presentare la prossima settimana. Le ipotesi allo studio dei tecnici dei ministeri interessati (Sviluppo economico, Economia, Ambiente, Infrastrutture, Politiche europee) restano ancora da definire con certezza anche se l'orientamento ormai scontato sembra quello degli incentivi.
Voci insistenti, che però il governo non conferma, danno come probabile un bonus di 1.500 euro per la sostituzione delle vecchie vetture euro 0, euro 1 e euro 2 (anche se non è ancora certo se inserire o meno questo ultimo segmento) con le meno inquinanti euro 4 ed euro 5 o con auto elettriche ed ibride. Il problema resta però quello dei costi dell'operazione.
Le stime degli esperti infatti non coincidono affatto. Per il Centro studi Promotor, "con l'erogazione di incentivi di 1.500 euro, l'erario incasserebbe un maggior gettito di 750 milioni, che equivale alla stessa somma erogata per gli incentivi. Quindi l'operazione sarebbe per le casse dello Stato a costo zero pur portando una crescita del pil dello 0,4%". Secondo la Cgil invece per mettere in campo incentivi della stessa cifra servono "almeno due miliardi".
Potrebbe invece tramontare l'idea di un malus sui suv di nuova immatricolazione, più inquinanti e per questo finora considerati non in linea con le misure tutte ecologiche a cui punta l'esecutivo. L'idea di penalizzarli con una tassa di 500 euro non è piaciuta affatto ai costruttori presenti al tavolo di ieri a Palazzo Chigi ed anche all'interno dell'esecutivo sembra essere sorto qualche dubbio.

Accanto agli incentivi ai consumatori non sarebbe inoltre escluso un sostegno anche alle imprese che investono in ricerca e sviluppo. Il ministero dello Sviluppo economico potrebbe in questo senso rinnovare il bando in proposito già inserito in Industria 2015 (il pacchetto di misure di sviluppo varato dal governo Prodi). Il valore era in quel caso di 200 milioni di euro.
Stando alla tempistica dettata da Scajola, il pacchetto di misure potrebbe arrivare sotto forma di decreto al consiglio dei ministri della prossima settimana. Nel frattempo proseguiranno i tavoli tecnici e sarà con ogni probabilità convocato anche un nuovo tavolo con le parti sociali e le imprese di categoria.
Per sindacati e aziende l'importante è però agire in fretta. Anche oggi è arrivato infatti l'ennesimo allarme sullo stato di salute, tutt'altro che invidiabile, del settore. Secondo la Fiat, la crisi economica e l'attesa degli incentivi, annunciati ma non ancora varati, provocherà a gennaio un calo delle immatricolazioni tra il 35 e il 40%.

Critica liberale: Libro blu sulla libertà di stampa

flc fondazione critica liberale




LIBRO BLU
SULLO STATO DELLA LIBERTÀ
DEI MEDIA
°°°
I
Proposte Per Una Politica Riformatrice

a cura di enzo marzo
prima bozza provvisoria e riservata
19 gennaio 2009



PROPOSTE PER UNA POLITICA RIFORMATRICE
INDICE:

1 ESSERE CONSAPEVOLI CHE I MEDIA NON SONO LIBERI
2 NON C’E’ DEMOCRAZIA SENZA INFORMAZIONE INDIPENEDENTE
3 OPINIONE PUBBLICA E PROPAGANDA
4 LA RILEVANZA E LA RIVOLUZIONE DEI NUOVI MEDIA
5 CITTADINI, LETTORI, CONSUMATORI
6 LA PALUDE CONFORMISTA
7 CINQUE CRITERI PER LA RIFORMA DEI MEDIA
8 DAI TRE POTERI DELLO STATO AI TRE POTERI DELLA “SFERA PUBBLICA”: UN NUOVO SEPARATISMO
9 I COMPITI DI GARANZIA DI UNO STATO NEUTRALE
10 UN MODELLO PER LA LIBERTA’ D’INFORMAZIONE. PREMESSA
11 LA RILEVANZA PUBBLICA DELL’INFORMAZIONE
12 LE DIFFICOLTA’ CHE INCONTRA IL MODELLO, POSSIBILI SOLUZIONI
13 LA SOLUZIONE B. IL MOTU PROPRIO
14 I DIRITTI DEI LETTORI E LA CORPORAZIONE DEI GIORNALISTI
15 CONCLUSIONI. LA NASCITA DI ****, COMITATO PER LA LIBERTA’ D’INFORMAZIONE


1 ESSERE CONSAPEVOLI CHE I MEDIA NON SONO LIBERI

La libertà di informazione è garantita da Costituzioni e da Emendamenti. I media che avvolgono il globo con le loro reti si dichiarano liberi ma sono ovunque in catene. I vincoli, beninteso, sono sempre più virtuali, invisibili, legano le menti e le indirizzano. Una lunghissima lotta ha assicurato la libertà formale d’informare: oggi nei paesi industrializzati si può stampare, trasmettere, emettere segnali, suoni, messaggi. Tutto (quasi) liberamente. La libertà dell’impresa mediale è (quasi) assicurata giuridicamente, spesso foraggiata. E così il mondo simbolico s’è adagiato sul mondo reale, coprendolo, rimodellandolo se non sostituendolo.
La nuova èra è sotto il segno dell’informazione. Il cumulo degli strumenti informativi è impressionante. Persino eccessivo, temono alcuni. Però, se ciascuno dei segmenti di questo cumulo è inquinato perché non libero, il Tutto si tramuta in un incubo di conformismo e di illibertà. L’opinione pubblica viene blandita come dominatrice e onnipotente, ma in effetti è manipolata, eterodiretta, svigorita. Gli strumenti del comunicare sono inesorabilmente e progressivamente concentrati. Dappertutto regnano, se non il monopolio, l’oligopolio e strutture elefantiache, costosissime, irraggiungibili dalle minoranze ideologiche. Il lettore, lo spettatore e l’ascoltatore, che appaiono ovunque protagonisti, in realtà sono ridotti a oggetti inconsapevoli. Non sono titolari di alcun diritto. I risultati della conquistata libertà d’impresa mediatica sono deprimenti. Il pubblico-lettore si difende come può e arretra: abbandona progressivamente gli strumenti più “difficili” e soggiace a quelli più “facili”. Va sempre meno in edicola ad acquistare i quotidiani e giace di fronte alla Tv assimilando le improbabili notizie televisive che gli si accavallano nella mente in un guazzabuglio di fiction e di news.
Oggi, in Italia, nell’era berlusconiana la condizione dei media televisivi ha subìto un vero tracollo: si è passati da una situazione oligopolistica a un monopolio quasi perfetto. Il controllo diretto della quasi totalità della Tv privata, quello indiretto della Tv pubblica, la proprietà di produzioni di format, il dominio del mercato pubblicitario, una posizione dominante nell’editoria e tra gli istituti di sondaggio, si aggiungono al potere pubblico, lo puntellano, inquinano la formazione della volontà politica e manomettono i requisiti di base d’ogni democrazia. Al tavolo del gioco politico Berlusconi bara apertamente e, distorcendo la lotta politica in tutte le sue fasi fino al momento elettorale, riduce la democrazia a poco o nulla. Quasi tutti i suoi avversari o hanno una cultura democratica talmente scarsa che non avvertono il pericolo o con la loro ignavia se ne fanno complici.
Il cancro sopravvenuto non può farci dimenticare, però, che ovunque l’informazione – anche in condizioni di cosiddetta “normalità” – rappresenta il primo e più grave problema delle nostre democrazie.

2. NON C’E’ DEMOCRAZIA SENZA INFORMAZIONE INDIPENDENTE

Secondo Robert A. Dahl dei cinque criteri che contraddistinguono una democrazia compiuta ben tre riguardano i media: 1) partecipazione effettiva («prima che una strategia venga adottata […], tutti i membri devono avere pari ed effettive opportunità per comunicare agli altri le loro opinioni a riguardo»); 2) diritto all’informazione («entro ragionevoli limiti di tempo, ciascun membro deve avere pari ed effettive opportunità di conoscere le principali alternative strategiche e le loro probabili conseguenze»); 3) controllo dell’Ordine del giorno. Altri hanno sostenuto che «offrire opportunità di crearsi una conoscenza chiara delle questioni pubbliche non è solo parte della definizione della democrazia, ne è un requisito fondamentale» . Se si intende la democrazia non solo come forma di governo i requisiti minimi sono la “Libertà d’espressione” e la possibilità di “Accesso a fonti alternative d’informazione”).
Certo, prosperano moltissimi stati totalitari, ma le cosiddette democrazie occidentali possono dichiararsi tali senza continuare a perseguire almeno quei requisiti minimi che noi stessi consideriamo necessari? Possiamo ancora dirci democratici se non riprendiamo in mano le analisi e le ricette del liberalismo, e accreditiamo ancora un sistema politico diventato sempre più un guscio vuoto? Siamo ben lontani dalla “democrazia della società civile”. Se le masse non hanno strumenti corretti e plurimi per farsi un’idea appropriata dell’agenda politica corrente, sarà sempre più illusoria la loro trasformazione in “società civile” in grado di svolgere costantemente una verifica e una valutazione dell’operato del governo e delle forze politiche che si candidano alla sua sostituzione.
Viviamo il fallimento della democrazia costituzionale, ovvero della democrazia delle regole. Ora il gioco è visibilmente truccato sia dalla manipolazione dell’opinione pubblica sia dall’esiguità e dalla predeterminazione delle scelte del singolo elettore. L’attuale cittadino-elettore, che sempre più si è convinto che per esprimere con maggiore vigore la propria scelta politica debba non recarsi alle urne, deve rendersi conto che ancor prima di elettore egli è (e deve diventare) un lettore consapevole, con diritti riconosciuti sul controllo e sulla trasparenza, e non un consumatore di media facile preda di propaganda e di manipolazione. Abbiamo tanto combattuto affinché le elezioni politiche fossero libere, bisogna cominciare a lottare – come sostiene Sartori – affinché anche le opinioni siano libere «cioè liberamente formate» .
Ora invece i media si identificano con i loro padroni. E nessuno più crede ai giornali come portavoce dell’opinione pubblica quando ne sono soltanto uno strumento di deformazione.

3. OPINIONE PUBBLICA E PROPAGANDA

Se tutta la Propaganda è Persuasione (in qualche modo forzata), non tutta la Persuasione è Propaganda. Se a queste due affianchiamo la Testimonianza, che è l’unico modus operandi dell’autentico giornalismo, abbiamo tre concetti contigui, spesso con vaste aree in comune, e con la predisposizione a fagocitarsi l’un l’altro. Lo sbaglio più colossale è quello di definire positiva o negativa la Persuasione e la Propaganda dal loro contenuto o dal loro fine. O dalle loro caratteristiche principali come l’intenzionalità manipolatrice del propagandista, o la semplicità, anzi il semplicismo, o la ripetitività.
La propaganda non si distingue dalla persuasione né per il contenuto “veicolato” né per le “intenzioni” del comunicatore, né per le tecniche usate, bensì per la quantità informativa con cui sommerge le menti senza che queste abbiano sufficienti alternative. La Propaganda non ammette d’essere contraddetta. L’unico antidoto è il pluralismo delle fonti. Si ritorna così all’importanza primaria del frazionamento del potere mediatico in un’epoca in cui è persino impossibile avere dati attendibili sul processo di fusione dei media tanto è frenetico il ritmo delle concentrazioni.
Quando l’informazione è nelle mani di un unico soggetto, si arriva alla propaganda perfetta, ma questa posizione monopolistica non è prerogativa esclusiva degli Stati totalitari. Anche gli Stati democratici, in alcuni momenti della loro storia, hanno costruito una loro condizione monopolistica per affermare temi propagandistici che stavano particolarmente a cuore agli esecutivi. Anche in periodi di cosiddetta “normalità” non è necessario che la condizione di monopolio sia stabilita ufficialmente dal governo, ma piuttosto è tutto l’apparato informativo che sovente autonomamente si adegua e si uniforma.
In più c’è anche il diverso “peso” dei differenti vettori informativi: purtroppo non esiste soltanto la tendenza monopolistica all’interno d’ogni vettore, ma anche lo strapotere d’un vettore come la televisione su tutti gli altri, col risultato che l’attenzione dell’individuo è fagocitata pressoché interamente e senza alternative critiche.


4. LA RILEVANZA E LA RIVOLUZIONE DEI NUOVI MEDIA

Il “numerico” fa convergere i tre sistemi di segni che compongono la comunicazione: la parola scritta, il suono e l’immagine. Poiché tutti e tre i segni sono diffusi da un unico mezzo (i bit), è inevitabile la concentrazione tra i vettori. Finora nulla si è fatto per governare questo processo. Contemporaneamente come non notare e non fare i conti con la stessa mutazione del concetto di merce? «Passiamo dai mercati alle reti», scrive Jeremy Rifkin . In quel nuovo tipo di mercato che è la rete si frantumano la proprietà e le merci. Soprattutto i “nuovi padroni” dei media non vendono beni materiali ma principalmente “flussi d’esperienza”. Esperienza di testi, suoni e immagini. Diventando il “bene” immateriale, anche il termine “proprietà” che rimanda a un passaggio fisico da un soggetto a un altro, diventa improvvisamente obsoleto e destinato a regolare soltanto rapporti “residui”.
Ma in questo caso qual è la più efficace politica anti-concentrazione? Ammesso che esista un’autorità in grado di deciderla e di farla rispettare. Forse è anti-storica e anti-scientifica un’attività antitrust che aggredisca l’integrazione di tipo verticale, cioè tendente a separare le varie forme che compongono l’esperienza. E’ impossibile tenere separata la diffusione del suono da quella dell’immagine. E’ impossibile frazionare i “flussi d’esperienza” o anche solo resistere al processo d’integrazione. Tutti gli sforzi dovrebbero essere indirizzati invece verso politiche antitrust di tipo orizzontale, cioè quelle che, pur ammettendo l’unità dell’esperienza informativa, la limitino in termini quantitativi fino a soglie minime e in modo così rigoroso da attivare un processo di moltiplicazione dei soggetti produttori e quindi delle offerte informative. Creando un mercato in cui la concorrenza sia il più possibile effettiva.
Sia la Sinistra sia la Destra, e non solo nel nostro paese, non hanno una politica coerente sulla libertà di comunicazione. Continuano a ragionare con l’antica logica della contrapposizione tra il pubblico e il privato. La Destra confonde la “libertà”con le “mani assolutamente libere”, anche se queste tendono alla concentrazione e all’opacità, e tendono a usare questa particolare “merce” con scopi sfacciatamente non pertinenti. La Destra confonde il mercato con l’assoluta assenza di regole. Incoerentemente con le idee che professa, mira a un basso, o nullo, livello di concorrenza e, insieme, a cospicui finanziamenti pubblici. La Sinistra ancora macina la stravecchia convinzione, smentita dai fatti, che il pluralismo possa essere gestito dal potere pubblico. Come se il potere pubblico fosse neutro e non “soggetto” di scelte, le più diverse, e portatore di interessi propri. Come se potesse esistere l’obiettività dell’informazione. Come se il problema fosse quello d’assicurare questa obiettività. Come se bastasse svincolare i media dal “privato” per innalzarli a esclusivi portavoce di chissà quale Verità altrimenti distorta da interessi e scelte di parte. Come se la notizia non fosse di “parte” sempre. La Sinistra di origine comunista non sa dare risposte a queste domande e alla fine si riduce a intendere per “pubblico” la grossolana lottizzazione. Quando arriverà questa Sinistra a comprendere che il compito dello Stato non è quello di fornire notizie spacciate per obiettive, ma di garantire l’effettiva pluralità delle fonti informative? Passare dalla lottizzazione al pluralismo significa cambiare la propria filosofia della storia.
L’idea che tutte le comunicazioni siano nelle mani d’un pugno di oligopolisti (basti pensare che non più di dieci portali gestiscono l’80% delle centinaia di milioni di accessi quotidiani a Internet) fa tremare, ma non è neppure consolante che sia lo Stato (dittatoriale o no) a gestire un potere così enorme. La Rete ora è un gigante produttore di libertà, ma ha i piedi d’argilla. Se lo Stato è debole, le scelte pubbliche sono preda facile del potere economico; se lo Stato assume compiti non propri, le conseguenze sulla libertà dei cittadini sono schiaccianti. Non c’è soluzione decente che non passi per un’acquisizione di effettiva autonomia e limitazione del “politico”. Ora la politica, troppo spesso degradata a semplice strumento operativo di poteri privati, appare sempre più come un arbitro corrotto e compiacente.
Lo Stato non può gestire alcun mezzo d’informazione. Lo Stato deve sottolineare la sua neutralità e garantire l’effettivo pluralismo dell’informazione, come unico garante di un processo democratico non inquinato.

5. CITTADINI, LETTORI, CONSUMATORI

La libertà d’informazione e il “diritto a essere informati” sono due valori differenti ma complementari, guai a metterli in concorrenza. Vanno entrambi garantiti.
Prima, abbiamo inserito il “diritto a essere informati” tra le condizioni indispensabili per una democrazia non finta. Ma la libertà d’informare resta pregiudiziale (perché fondatrice) di questo stesso diritto. Esattamente come la libertà comprende in sé l’uguaglianza, e non viceversa. Essa è un bene assoluto (anche se paradossalmente sono molti giornalisti a sostenere il contrario), non può essere vincolata a determinate funzioni. E poi queste “funzioni” da chi dovrebbero essere decise: dallo Stato? Dal Partito? Dalla Chiesa?
Le tre qualifiche che vanno per la maggiore, “obiettività”, “imparzialità” e “completezza”, infestano la normativa sul giornalismo e i codici deontologici, ma non hanno fatto compiere un passo in avanti alla qualità e alla libertà dell’informazione. Il giornalista non svolge, né deve svolgere, alcun’altra funzione se non quella di testimone della realtà, il suo compito è di “riportarla” come la vede e la percepisce, senza illudersi di liberarsi dal soggettivismo e dalle incertezze proprie d’ogni testimone. Nel passato si sono alimentate tesi tanto velleitarie quanto improduttive sulla missione sociale del giornalista. Anche a scapito della notizia. Mentre, più subdolamente, nella mente del giornalista è rimasta ferma la missione della difesa degli interessi della Proprietà. I cittadini-lettori più avvertiti sanno bene che caricare il giornalista di funzioni aggiuntive apre un contrasto col “diritto/dovere di cronaca” e non migliora la leggibilità e la correttezza dei nostri giornali.
Piuttosto che combattersi in una guerra tra straccioni, “il diritto di cronaca” e “la libertà a essere informati” si devono alleare e prendere coscienza che non c’è l’uno senza l’altra. E soprattutto va fondato pressoché ex novo il “diritto dei lettori”, i quali sono assolutamente senza difese sia in quanto cittadini (non viene garantita loro, dell’informazione, né la pluralità né l’indipendenza), sia in quanto consumatori (non vien neppure preso in considerazione che come compratori di un bene essi sono “consumatori” e quindi dovrebbero acquisire, in fatto di trasparenza, di non commistione di interessi, di non inquinamento della notizia, almeno diritti analoghi a quelli che con fatica hanno gli acquirenti di un qualunque bene di consumo).

6. LA PALUDE CONFORMISTA

L’articolo 21 della nostra Costituzione sulla libertà di stampa è un bell’esempio di liberalismo. Assai rigido, e sulla linea cavourriana, suggerisce che in questo campo meno si legifera e meglio è. Ma purtroppo si è legiferato, e sono molte le leggi ordinarie che contraddicono lo spirito del dettato costituzionale. Alcune di queste ne violano apertamente la lettera (come l’obbligo di registrare le testate giornalistiche presso i Tribunali). Altre costituiscono intralci e pleonasmi. Però c’è anche una “libertà positiva” che va assicurata ma che non viene assicurata. La Costituzione non se l’è dimenticata, e l’art. 3, pur nella sua generalità, risponde bene allo scopo. È quello che sancisce il dovere della Repubblica di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della personalità umana. Da qui nasce sicuramente il dovere del legislatore di operare effettivamente per garantire a tutti la possibilità concreta di esprimersi liberamente.
Il “funzionalismo”, ovvero la teoria che assegna d’ufficio al giornalismo una “funzione” ultronea, perduta la battaglia con l’art. 21, si è voluto rifare nei decenni successivi. La normativa ordinaria risulta influenzata dallo spirito sostanzialmente illiberale dei tempi più che dall’art. 21, e ha raggiunto il suo culmine sia con la famosa sentenza della Corte di Cassazione del 1984 sia con tutta la stagione delle grida deontologiche che, non a caso, inaugura il periodo più buio del giornalismo italiano che dura tuttora. Si è così giunti al momento attuale, il peggiore, dove regnano, ammantati di retorica, gli intrecci perversi tra legislazione rinnegante e legislazione caduta in disuso o mai applicata, tra esaltazione acritica del “servizio pubblico” (dove l’inevitabile condizionamento politico e il corrispondente servilismo sono diventati persino sguaiati) e resa incondizionata al monopolio privato, tra precarietà contrattuale e debolezza sindacale.
I giornalisti affogano nella palude dell’irrilevanza e del conformismo. Ma anche gli editori, soprattutto quelli della “carta stampata”, per inconsapevolezza e per ingordigia, operano per la propria fine. La diminuzione inesorabile delle vendite, una funzione sempre più irrisoria di fronte a più moderni strumenti di comunicazione, un’organizzazione interna feudale, sono davanti agli occhi di tutti, ma nessuno sembra vedere e prenderne coscienza. Ci si accontenta di ridursi a veicolo non più di idee proprie e d’informazioni, ma di libri e cianfrusaglie varie. Risultato? La massiccia distorsione del messaggio informativo, la manifesta commistione – se non addirittura sudditanza – tra il testo redazionale e la pubblicità, l’inconsapevolezza del proprio ruolo. Da qui la caduta verticale dell’autorevolezza dei media e dell’attendibilità dei giornalisti.

7. CINQUE CRITERI PER LA RIFORMA DEI MEDIA

Tra le attuali emergenze democratiche va quindi annoverata anche una vera riforma, legislativa e non, che costruisca le condizioni strutturali sia per garantire la libertà d’informazione sia per fondare i diritti dei lettori-consumatori.
Per essere efficace, essa dovrebbe perseguire cinque criteri:
1 sancire la rilevanza di primario interesse pubblico d’una informazione libera, quale componente necessaria per l’esistenza di una democrazia politica.
2 stabilire che la libertà d’informare non può essere garantita da altro se non da un effettivo pluralismo delle fonti.
3 perseguire la massima separazione possibile tra i poteri della “sfera pubblica”, che va al di là dell’ovvia separazione dei poteri dello Stato.
4 riconoscere al bene “informazione” uno status differente da quello di semplice merce, e quindi costruire per le imprese editoriali una forma di governance con una propria esclusiva tipicità.
5 considerare basilare la presenza del lettore-consumatore tra i protagonisti del processo informativo.

8. DAI TRE POTERI DELLO STATO AI TRE POTERI DELLA “SFERA PUBBLICA”: UN NUOVO SEPARATISMO

Il liberalismo ha inventato un principio che è rivoluzionario, perché si fonda sulla constatazione dell’inevitabilità del potere e della necessità del suo frazionamento; ora si tratta di estendere tale teoria a tutta la “sfera pubblica”, di cui il potere statale non è che una parte e forse la sempre meno rilevante. Solo il potere può frenare gli effetti perversi del potere. Se si considera il potere statuale come un insieme comprendente tutte le funzioni classiche più quelle che si sono aggiunte, come quella amministrativa o quella espressa dalla volontà politica dei partiti, si può immaginare nelle società moderne la complessiva “sfera pubblica“ composta appunto dall’apparato statale, dal potere economico e dal potere mediatico.
In questa accezione la “sfera pubblica“ si identifica piuttosto con la polis, come luogo dove si intrecciano le relazioni e gli scambi dell’agire dei cittadini. Il caso vuole che si riproponga ancora una volta una tripartizione di veri e propri poteri che trovano in se stessi la loro forza. Ma il principio liberale del separatismo perlopiù è stravolto: così più che al legittimo e auspicabile conflitto tra poteri assistiamo al continuo tentativo di ciascun potere di limitare l’altrui autonomia e di sterilizzare la reciproca competitività. La principale caratteristica “viziosa” di questa tripartizione è che tutti e tre i poteri sono fuori dai loro binari.
Le società che amano definirsi democratiche devono finalmente prendere atto di come manchi loro – nella sostanza e nella forma – quella “divisione dei poteri” che un tempo stava alla base d’ogni riflessione liberale. Perciò lo scenario per gli aspetti principali è tornato pre-stato moderno.
Il potere mediatico ha una enorme forza, ma non possiede alcun grado di autonomia, è completamente imbrigliato, e le briglie sono nella mani dell’economia e/o della politica.
Il potere politico ha perduto grosse quote di autonomia, perché incapace di risolvere in maniera drastica il problema della propria autonomia finanziaria e dei condizionamenti connessi. Inoltre, il politico è stretto nella morsa dalla stretta connessione tra potere economico e potere mediatico.
Lo stesso potere economico è fortemente condizionato dalle scelte delle politiche pubbliche.
Le reciproche invasioni di campo sono all’ordine del giorno. Il “politico” sconfina nella comunicazione: saccheggia e asserve reti televisive, si impadronisce di agenzie stampa, fino a qualche tempo fa gestiva – come Stato – persino un quotidiano. Esercita continue pressioni e ricatti sui padroni dei giornali. Da parte loro, gli industriali della comunicazione, da sempre, considerano il ricavo economico un sovrappiù rispetto al guadagno che deriva loro dalla forza di pressione propria dei media usati per ben altro che per informare. Anche i soggetti economici che non possiedono direttamente vettori mediatici controllano e si spartiscono quel “sovrappiù” condizionando i bilanci pubblicitari. Qualche volta lo proclamano sfacciatamente.
Se fosse riconosciuto e perseguito nella pratica politica il principio della separazione di questi tre poteri, il salto di qualità democratica sarebbe enorme. Ma prima bisognerebbe che diventassero consapevolezza di massa i guasti provocati dalla terribile distorsione causata dalla dipendenza delle forze politiche dal finanziamento lecito e illecito dell’apparato economico, i guasti generati dalla informazione eterodiretta, i guasti provocati al mercato dalla burocrazia politica e dai finanziamenti pubblici.

9. I COMPITI DI GARANZIA DI UNO STATO NEUTRALE

Anche il liberista più ossessivo sa che la libertà economica non può essere in contrasto con la libertà tout court, e, qualora lo fosse, dovrebbe farsi da parte.
Se fosse quello dell’informazione solo un diritto sociale, non avrebbe la prevalenza sulla libertà economica. Se, invece, viene messa in discussione la libertà dei cittadini – come nel caso dei media distorti da interessi non propri – è costituzionalmente doveroso liberalizzare uno specifico mercato, spogliandolo di molti aspetti schiettamente economici e disegnando uno statuto che garantisca totalmente, e renda autonomo e ben trasparente, proprio quel suo surplus di potere. L’Informazione deve mettere in parentesi il suo status di merce per potenziare il suo status di bene specifico. Un intervento dell’autorità politica è più che legittimo, perché non va contro né la libertà d’impresa né la libertà d’espressione. La dottrina giuridico-economica prevede la legittimità di “norme proibitive”: «I beni, previsti da norme proibitive, sono resi incommerciabili, e come tali, sottratti al negoziare del mercato. La disciplina può presentare sfumature e gradazioni. […] Qui torna utile d’osservare che la commercialità, cioè la destinazione allo scambio, non è un carattere naturale del bene, ma sempre e soltanto un carattere giuridico» . Tutte queste argomentazioni vogliono dimostrare che è possibile intervenire anche drasticamente con proposte che rimangono ugualmente tutte interne alla logica del privato e del mercato libero. Ci è, infatti, completamente estranea quella logica che individua nello Stato il garante o addirittura il gestore, ridicolo in verità, d’una presunta obiettività o neutralità dell’informazione, secondo una logica antisoggettiva che già tanti danni ha inferto.

10. UN MODELLO PER LA LIBERTA’ D’INFORMAZIONE. PREMESSA

Il nostro modello prevede, per le grandi imprese editoriali, il conflitto concorrenziale tra soggetti privati (non inquinati da alcun rappresentante pubblico) all’interno del mercato. Però “soggetti privati” peculiari e sottoposti a vincoli che perseguono il fine di sottrarli all’influenza di entrambi gli altri due poteri.
Come si può affermare un modello di proprietà-gestione delle imprese di comunicazione che sia radicalmente diverso da quello attuale e che sia tutto ispirato alla separazione tra potere economico e potere mediatico?
Alcuni, sopravvalutando l’insopprimibile carattere industriale ed economico che è parte integrante d’ogni impresa comunicazionale, potrebbero ritenere assolutamente utopistico questo progetto di riforma, anche se, in astratto, concordassero sull’obiettivo di fondo. Eppure qui si indica un’utopia possibile. Nessuno mette in dubbio una componente industriale nei mass media, si pone però l’esigenza di sottolineare le peculiarità dell’industria mediatica e di differenziare i suoi modelli societari da quelli delle altre industrie, perché il fine produttivo e di lucro è comunque assolutamente secondario rispetto alle finalità pubbliche complessive d’un tipo d’impresa che per sua natura è unico. Certo che è difficile. Va a scontrarsi con una concentrazione di interessi che non ha uguali, ma il mondo della politica, se vorrà salvare il suo legittimo potere – legato al suo ruolo – e alla fine una qualche funzione, prima o poi, dovrà comprendere che, invece di scendere di volta in volta a patteggiamenti, ricatti e influenze non trasparenti, ha come unica via d’uscita il perseguimento d’una coerente politica di “separazione”, in grado di mettere ordine liberale in tutta la “sfera pubblica”. Non c’è mercato che non conosca una forte propensione al monopolio, ma i paesi capitalistici dimostrano la loro maggiore o minore capacità di svilupparsi proprio nella maggiore o minore resistenza che sanno opporre alle concentrazioni di potere e nell’affermazione di regole che diano ordine alla democrazia industriale.
Siamo convinti che porre all’ordine del giorno la liberalizzazione dei media incontrerebbe un grande favore presso gli elettori-lettori, al punto che le eventuali perdite economiche (che comunque non ci sarebbero) passerebbero in secondo piano, come avviene solitamente quando si realizzano grandi riforme. Tutti i critici dall’interno del sistema capitalistico non hanno mai smesso di predicare contro le concentrazioni economiche; anzi, più aderiscono a teorie liberiste e più si battono per legislazioni antitrust. Soltanto in Italia vegeta una strana specie di economisti e di politici che si proclama liberista ma si schiera dalla parte del monopolio. Se nella patria del capitalismo più maturo, gli Usa, per esempio, si pose e si cercò di risolvere il problema della separazione tra finanza e industria, vuol dire che il principio separatista liberale settecentesco “funziona” ancora come pietra miliare d’ogni politica che si faccia carico della questione del Potere. Oggi purtroppo non sono molte le voci che si innalzano per gridare allo scandalo contro una concentrazione di potere (somma di potere economico e di potere mediatico) che nel mondo ha portato alla morte ogni libera espressione. Eppure siamo ben oltre allo «sterminato potere» denunciato dal New Deal.

11. LA RILEVANZA PUBBLICA DELL’INFORMAZIONE

La rivoluzione della separazione tra potere economico e potere mediatico può essere garantita solo dalla “pubblicizzazione delle imprese mediatiche”, dove “pubblicizzazione” non sta per “statalizzazione”, ma per riconoscimento della rilevanza (non funzione, mi raccomando) pubblica dell’informazione. Il libero contributo alla formazione dell’opinione pubblica deve essere considerato, non solo sui manuali ma nella realtà, fondamentale e clausola necessaria affinché una democrazia possa definirsi tale.
Un’avvertenza è necessaria: certamente perseguiamo una formazione più libera della pubblica opinione, ma ugualmente temiamo, insieme con Tocqueville, “la tirannia dell’opinione”, non essendoci mai passato per la testa che l’opinione dei molti sia di per sé più valida di quella dei pochi. Il nostro obiettivo è di stampo riformatore. Vorremmo che l’opinione pubblica fosse non mitizzata, ma avesse più strumenti critici e fosse meno vittima e condizionata da interessi alieni. Soltanto questo, ma non è poco.
Basta che si prevedano effettivamente la fuoriuscita dell’impresa mediale dall’unica dimensione dello scambio di merci e la sterilizzazione d’ogni controllo economico. Qui si propone un modello che risponde al principio che la proprietà d’un giornale deve essere di chi ci lavora e dei suoi lettori.
La soluzione, più volte avanzata, della formula della public company è assolutamente la peggiore, proprio perché il suo elemento caratterizzante è la contendibilità del controllo. Un giornale (o qualunque altro vettore mediatico) gettato sul mercato e quotato in borsa soffre di tutti i difetti che comporta il padrone unico, in più subisce quelli della maggiore precarietà e della minore trasparenza della proprietà.
La separazione si realizza con la formazione di “pseudo-public companies”, cioè di società prive di azionisti di riferimento e non scalabili dall’azionariato. La pseudo-public company è definita «un modello in cui, come nella public company, il controllo è esercitato da un soggetto che dispone di una quota limitata o nulla del capitale e la proprietà è diffusa, ma che, a differenza della public company, non prevede la possibilità di ricambio del controllo contro la volontà di chi lo esercita» . L’esempio riportato in proposito dalla letteratura specializzata è quello delle tre Grossbanken tedesche (Deutsche Bank, Dresdner Bank e Commerz Bank), nelle quali il controllo è esercitato dal management. Le qualifica, come abbiamo visto, il carattere non contendibile del loro controllo.

12. LE DIFFICOLTA’ CHE INCONTRA IL MODELLO, POSSIBILI SOLUZIONI

Adottando questo modello di liberalizzazione, la volontà politica riformatrice opererebbe contro soggetti (gli attuali proprietari) fortemente contrari e risoluti a non accettare ciò che avrebbero l’interesse di dipingere come una vera e propria espropriazione. Ma che espropriazione non sarebbe, perché la trasformazione in pseudo- public company dovrebbe essere garantista dell’attuale valore economico del bene. La mano pubblica, interessata a un riequilibrio dei poteri e allo stabilimento d’una vera libertà d’espressione, può influire, porre limiti, condizionare in molti modi. Dovrebbe dare inizio gradualmente a un percorso dichiaratamente tutto indirizzato non all’acquisizione in proprio del bene, bensì alla creazione progressiva di società private sempre più autoreferenziali. Lo strumento principale è una legislazione antitrust.
Il primo provvedimento, il più importante, impone il vincolo alle proprietà attuali in tutto il settore mediale (carta stampata, televisione, altre forme di comunicazione) di possedere un solo vettore in ciascuna area produttiva: un solo quotidiano, una sola rete televisiva, un solo portale in Internet, ecc.. Questa misura ha lo scopo di non deprimere le sinergie che obiettivamente si instaurano tra i diversi campi, ma impedisce all’interno di ogni settore la formazione di posizioni dominanti. L’eccedenza andrebbe ceduta in forme e modi indirizzati dalla normativa.
Il secondo provvedimento introduce l’obbligatorietà della quotazione in Borsa. C’è da domandarsi: come sarebbe l’accoglienza, nel più tipico luogo del mercato, di un bene che certamente è orientato verso obiettivi che esulano dallo scambio economico? La conoscenza del punto d’arrivo (la pseudo-public company) non scoraggerebbe, infatti, né la partecipazione dell’azionariato diffuso né l’intervento degli investitori istituzionali (le compagnie di assicurazione, i fondi comuni d’investimento e i fondi pensioni). Il primo, l’azionariato, pur sapendo di non poter che essere “nominativo” e di non poter incidere sul controllo potrebbe sentirsi persino più attratto da un assetto finale che, rendendo l’azienda editoriale davvero “pura” (o meno “impura”), sarebbe maggiormente garantito rispetto alle intemperie politiche e alle avventure più o meno spregiudicate d’un capitano d’industria. Con conseguente, inevitabile, valorizzazione del bene. Per i secondi, la letteratura specializzata è rassicurante, perché sostiene che la presenza (anche solo in prospettiva) d’un controllo intoccabile e predeterminato non sposta le opzioni degli investitori istituzionali, giacché «il profilo dell’esercizio di voto da parte degli investitori istituzionali è stato spesso ritenuto del tutto secondario, poiché, secondo una diffusa convinzione, questi ultimi (proprio perché interessati unicamente alla massima valorizzazione dei titoli detenuti e caratterizzati da un’elevatissima diversificazione del portafoglio) sarebbero interessati non a intervenire nella gestione delle imprese, ma unicamente a valutare dall’esterno l’andamento della gestione, il corso dei titoli ed eventualmente a disinvestire la propria partecipazione».
Terzo provvedimento: immissione di limiti al possesso azionario. Per la privatizzazione in Italia questa norma è stata decisiva, come lo è per ogni politica a favore delle public companies: «Attraverso la determinazione di una soglia massima nella consistenza delle partecipazioni dei singoli azionisti si punta ad impedire una stabile acquisizione del controllo da parte di un singolo soggetto o di un gruppo di azionisti, legati da patti parasociali o comunque dall’esistenza di rapporti di alleanza imprenditoriale (testimoniati dall’esistenza di un patto in società terze), ciascuno dei quali rimane al di sotto del tetto. L’obiettivo è quello di realizzare una polverizzazione dell’azionariato nel presupposto che l’assenza di azionisti di riferimento costituisca elemento propedeutico per lo sviluppo d’una public company» . Ricordiamo che anche il programma governativo di riordino delle partecipazioni pubbliche del 1992 indicava nella formazione d’un azionariato diffuso uno degli obiettivi principali delle procedure di privatizzazione. Un’altra misura limitativa più audace è la proibizione per gli azionisti d’una società mediale, con una quota consistente, di possedere partecipazioni di rilievo in altre società di qualunque tipo. E, ovviamente, qualunque forma di partecipazione incrociata. Questo passo non si pone l’obiettivo di creare la figura dell’editore “puro”, cioè non impegnato in iniziative industriali in altri campi (figura che consideriamo fasulla e che in ogni caso giudichiamo inutile), ma vuole avere un valore dissuasivo, per favorire la fuoriuscita da tutto il settore mediatico di una concezione padronale.
Dopo questi tre provvedimenti, si passa dalla fase “distruttiva” dell’attuale sistema a quella “costruttiva” del nuovo.
Per riassumere: la nuova società mediale tipo può possedere un solo vettore in ciascun canale della comunicazione; la sua struttura societaria è quella di una pseudo public company; della public company ha alcune caratteristiche come la quotazione in Borsa e l’obiettivo d’un azionariato diffuso; è gestita nella parte industriale dal management e nella parte editoriale dai giornalisti, tuttavia fuoriesce dal modello della public company in quanto la gestione è autoreferenziale (nel senso che risponde esclusivamente agli investitori per gli aspetti patrimoniali e ai lettori per gli aspetti giornalistici), non è contendibile e non fa capo ad azionisti di riferimento. Il modello deve salvaguardare anche, nella fase iniziale d’attuazione, quella che è definita “efficienza della dismissione” e, quindi, bisogna tendere alla “massimizzazione dei profitti dell’alienante”, il quale deve essere ricompensato equamente del progressivo abbandono del bene. Probabilmente l’abbassamento di valore normalmente causato da un grado più o meno alto di forzosità nella vendita verrebbe alleviato dalla gradualità di tutta l’operazione. E, poi, come escludere addirittura un effetto molto positivo scaturito dal clima di novità e dall’impreziosimento del bene provocato dal nuovo assetto, che potrebbe trovare nell’azionariato popolare un incremento d’interesse? Operando su questi margini, si può recuperare la possibilità di distribuire al management e ai professionisti della nuova società liberalizzata una quota di azioni, anche minima, in grado di formare un nucleo stabile non contendibile, né cedibile.
Va da sé che, accanto a questo modello valido per la grandi imprese editoriali, dovrebbero coesistere, per la varietà dei vettori informativi e delle loro dimensioni industriali, formule-quadro differenti, tutte ispirate ai cinque criteri generali prima enunciati.
Come avviene per le public companies tradizionali, la nuova impresa mediale deve rispondere ad alcuni requisiti “quadro” e a uno Statuto d’impresa in grado di garantire, di fronte ai lettori e all’azionariato, efficienza e vera autonomia. Il Consiglio d’amministrazione, espressione del nucleo stabile, rappresentativo dunque del management e delle maestranze da un lato, e dei giornalisti dall’altro, è distinto in due parti: una parte manageriale, con i normali compiti amministrativi, e un Consiglio editoriale.
Si potrebbe obiettare che questo modello è troppo statico. La scarsa dinamicità del vettore costituisce un handicap nemmeno lontanamente paragonabile all’assenza di indipendenza, ma comunque è limitativo dell’efficienza. Con un po’ d’immaginazione, però, si può concepire un management non intoccabile. Ugualmente, si possono escogitare alcune clausole per rendere più mobile il corpo redazionale. Per esempio, il contratto giornalistico individuale potrebbe essere a termine (decennale e rinnovabile) e non più a vita come adesso. Oggi, assai giustamente, i giornalisti rifiutano ogni limitazione temporale e ogni mobilità, perché se cedessero su questi due punti, ora che il mercato è oligopolistico e fermo, darebbero alle attuali Proprietà l’ulteriore definitiva arma di ricatto e di asservimento. Al contrario, in un contesto liberalizzato e con la scomparsa della controparte proprietaria, potrebbe essere accettata una mobilità in grado di rendere molto più fluido l’intero settore. D’altronde l’attuale sistema di garanzie è già completamente in demolizione con l’affermarsi di una pratica massiccia di lavoro nero, precario, a tempo determinato.

13. LA SOLUZIONE B. IL MOTU PROPRIO

Ricordiamo che la storia ci insegna che proposte contro interessi costituiti che apparivano assolutamente indistruttibili si sono fatte avanti e hanno raggiunto i loro obiettivi. Si è disgregato lo stato assoluto. Sono state abolite la schiavitù e la tortura. Uguale destino toccherà alla pena di morte. Hanno conquistato i loro diritti le donne. Si è sciolta persino l’IRI... Quindi non si può escludere che la necessità d’essere liberi di comunicare e d’essere informati, pressante e conculcata com’è, non faccia progredire e portare a compimento progetti come quello fin qui disegnato, progetto che ora può essere giudicato chimerico come lo furono tutti quelli citati sopra. Ma ogni politica riformatrice ha il dovere di presentare sempre una sua Soluzione-B, basta che questa faccia fare passi sulla stessa strada e inveri gli stessi princìpi. L’obiettivo rimane sempre il medesimo: separare la proprietà dei media dalla gestione giornalistica.
La soluzione della pseudo-public company è drastica. Ve ne sono altre più tenui che conserverebbero l’attuale sistema proprietario, ma lo subordinerebbero a regole tassative già previste in altri settori.
Se si parte dal presupposto dell’irragionevolezza e della perversità di una commistione tra poteri diversi, la non separazione tra una parte del potere economico e il mondo dell’informazione mette in atto il più classico e il meno denunciato dei conflitti d’interesse.
Con l’eccezione vistosa dell’Italia, sono state inventate delle regole che in taluni casi rispondono (anche se non perfettamente) alla necessità di tenere distinta la proprietà dalla sua gestione. Ugualmente, una rigida politica anti-trusts potrebbe frantumare i colossi informativi e portarli a dimensioni concorrenziali reprimendo accordi di cartello tra editori o stabilendo soglie alle concentrazioni molte più basse delle attuali.
Gli stessi proprietari, se badassero – come sostengono – solo al ricavato economico, potrebbero avviare essi stessi un percorso riformatore delle loro aziende che ridimensionerebbe il loro potere “secondario” ma aumenterebbe molto i proventi economici, perché la nuova impresa sarebbe molto più apprezzata dagli azionisti e dai consumatori. Non avverrebbe in tal caso l’auspicata demercificazione dei media, ma almeno sarebbero ridotti i danni collaterali. Già Luigi Einaudi sostenne che «gli attuali proprietari [dei giornali] hanno interesse a rinunciare a diritti, di cui sono destinati fatalmente ad essere spogliati, se vogliono salvare quel che più dovrebbe ad essi premere, ossia il frutto economico della loro impresa. Aggiungasi che essi si dovrebbero persuadere della convenienza di siffatta abdicazione» . Sono passati quasi cento anni da quando i proprietari del “Times” e dell’“Economist” di Londra abdicarono spontaneamente al loro potere assoluto di scelta dei direttori ed escogitarono lo strumento di un comitato di fiduciari (Board of trustees). Si domandò Einaudi: «Perché dovrebbero i proprietari dei maggiori giornali italiani vedere in questa restrizione un vincolo dannoso, laddove esso sarebbe invece garanzia sicura di prosperità dell’impresa?» . La risposta è semplice: nel nostro paese la classe imprenditoriale è assai arretrata e mediocre, e non si dedica esclusivamente all’interesse aziendale. Addirittura gli attuali editori sono più antiquati dei loro predecessori di alcune generazioni fa, che con il “direttore-gerente” regalarono al giornalismo italiano una breve fase di grande dignità.
Per attuare la Soluzione-B, data la rilevanza pubblica del pluralismo informativo, le politiche pubbliche dovrebbero:
a) prevedere cospicue provvidenze pubbliche condizionate alla scelta autonoma dei possessori di imprese editoriali a sciogliere il loro conflitto d’interessi attraverso il conferimento a un terzo delle quote detenute nelle stesse, mediante un “negozio fiduciario” non revocabile o con un blind trust. Il dibattito politico in Italia su questi istituti di garanzia e di separazione è fuorviante perché condizionato dall’andamento delle paradossali esperienze contingenti, ma non è legittimo spogliare di valore tutti gli istituti e le regole che la dottrina giuridica ha escogitato o potrà escogitare per raggiungere – anche parzialmente – il fine predetto. Comunque, sarebbe un passo rivoluzionario rispetto alla situazione attuale.
b) applicare una severa legislazione anti-trust comprendente regole già previste per la proposta A: ossia, il vincolo alle proprietà attuali in tutto il settore mediale (carta stampata, televisione, altre forme di comunicazione) di possedere un solo vettore in ciascuna area produttiva; l’obbligatorietà della quotazione in Borsa e nominatività delle azioni; limiti al possesso azionario impedendo il possesso di più di una centesima parte del capitale sociale, fino a raggiungere l’obiettivo di un azionariato diffuso, semmai collegando l’acquisizione di azioni a una politica innovativa verso il lettore-consumatore.
c) pretendere il rispetto integrale dell’attuale legislazione sulla stampa, in parte inapplicata, facendo osservare i diritti già acquisiti dai lettori e incrementandoli con norme sulla trasparenza delle proprietà, dei bilanci e dei processi decisionali, nonché sul diritto di rettifica e di difesa della propria onorabilità e della propria versione dei fatti.
d) ridefinire il rapporto tra pubblicità e prodotto redazionale, sanzionando severamente l’attuale commistione generalizzata, che costituisce nello stesso tempo una grave truffa verso il lettore e una delle cause non secondarie dell’attuale degrado e dell’inattendibilità della comunicazione.
Se perseguissero lo scopo di accrescere l’incidenza, l’autorevolezza e il valore materiale delle loro imprese, i proprietari – senza attendere una legislazione costrittiva – dovrebbero avviare autonomamente una riforma indirizzata alla massima trasparenza e alla responsabilizzazione piena dei diversi e distinti ruoli, attraverso:
a) un nuovo Statuto d’impresa, che preveda una separazione netta tra gestione industriale e gestione giornalistica, affidando quest’ultima a un Consiglio editoriale composto
– da membri permanenti come gli ex Direttori del giornale, i più autorevoli e antichi collaboratori e alcuni garanti cooptati dal Consiglio stesso per l’autorevolezza e l’indipendenza che viene loro riconosciuta;
– da membri temporanei come il Garante dei lettori, i rappresentanti del corpo redazionale e – perché no? – personalità scelte nella società civile per il loro momentaneo ruolo di prestigio (per esempio, il Rettore dell’Università locale, ecc.). Il Direttore della testata è nominato dal Consiglio editoriale, riceve un mandato che dura un numero prefissato di anni, non può essere riconfermato ed è rimosso soltanto se una maggioranza qualificata del Consiglio editoriale riconosce il venire meno di standard quantitativi e qualitativi predefiniti già nello Statuto dell’impresa. Il Direttore, per essere all’altezza di questo compito, deve poter decidere le assunzioni (ora può solo proporle), nonché utilizzare effettivamente tutti i poteri che già gli vengono attribuiti, ma solo formalmente, dall’attuale contratto nazionale di lavoro giornalistico (art. 6), come quelli di «fissare e impartire le direttive politiche e tecnico-professionali del lavoro redazionale, stabilire le mansioni di ogni giornalista». Ogni anno il Direttore, per le spese redazionali, è dotato di un budget preventivo adeguato all’andamento economico aziendale. Naturalmente il potere del Direttore è riequilibrato dai diritti ormai acquisiti dalle redazioni. Oggi la gran parte di questi poteri sono completamente svuotati dagli «accordi tra editore e direttore».
b) la nomina di un “Garante dei lettori”, scelto periodicamente dai lettori (per esempio, dagli abbonati) in una rosa di ex-giornalisti della testata, il quale è slegato da vincoli gerarchici con la struttura del giornale e dotato di uno spazio autonomo e non sindacabile, in cui ogni settimana possa scrivere il proprio parere sull’informazione offerta dalla “testata” e sulle osservazioni del pubblico.
c) l’introduzione nel contratto giornalistico di norme deontologiche riguardanti sia i giornalisti sia l’amministrazione.




14. I DIRITTI DEI LETTORI E LA CORPORAZIONE DEI GIORNALISTI

Nessuno mai ha pensato a garantire i diritti dei lettori. Eppure sono consumatori di una merce ben più delicata di altre, perché condiziona la salute mentale e democratica. Il lettore oggi non ha che pochissime guarentigie sul prodotto che acquista e quelle poche sono disattese. Ugualmente il lettore non viene informato di come si forma nel “suo” giornale il processo informativo, e scarse sono le difese di legge contro le prevaricazioni ch’egli crede di subire. Forse basterebbero poche regole per sanare i guasti più visibili:
a) Abolizione dell’obbligatorietà dell’Ordine dei giornalisti. Quindi, cessazione dei suoi privilegi corporativi. Come scrisse Einaudi, «l’albo obbligatorio è immorale, perché tende a porre un limite a quel che limiti non ha e non deve avere, alla libera espressione del pensiero» . Ovviamente a tutti i cittadini dovrebbe essere permesso la fondazione e la direzione di un qualunque organo d’espressione del pensiero, senza alcun bisogno né di particolari qualifiche personali né di registrazione né di autorizzazioni della testata (in qualunque modo sia diffusa). D’altronde, l’attuale Ordine obbligatorio non è in grado neppure di far osservare le minime norme deontologiche e sanzionare adeguatamente le irregolarità più vistose. Se vogliono conservarsi un proprio Ordine, i giornalisti devono saper rinunciare alla sua obbligatorietà e ai privilegi connessi.
b) Obbligo per ogni pubblicazione di un certo rilievo di dotarsi di uno Statuto che detti le regole di comportamento interno. Questo Statuto è reso pubblico e ogni sua violazione può essere sollevata in giudizio da parte del redattore e del lettore.
c) Ugualmente, in permanenza dell’Ordine così com’e oggi, sarebbe un segno deontologicamente significativo la trasformazione dell’attuale bipartizione tra giornalisti professionisti e giornalisti pubblicisti in una tripartizione che comprendesse anche i giornalisti comunicatori.
d) Divieto di assunzione nei giornali di giornalisti che negli ultimi tre anni hanno svolto attività in uffici stampa, agenzie di pubblicità, uffici di consulenza e di relazioni pubbliche. E viceversa, per il principio di reciprocità, divieto di assumere, in detti uffici, giornalisti che abbiano lavorato in una redazione durante gli ultimi tre anni. Di norma, nei giornali dovrebbero essere assunti giornalisti professionisti e negli uffici stampa giornalisti comunicatori, ma oggi la distinzione tra le due carriere non viene tenuta in alcun conto, con grave danno di entrambe le categorie e con una penalizzazione irrimediabile della correttezza dell’informazione.
e) Incompatibilità assoluta tra il lavoro presso la redazione di una testata giornalistica e qualsivoglia altro impegno professionale, anche non formalizzato.
f) Dichiarazione pubblica sottoscritta all’atto dell’assunzione e ripetuta periodicamente, contenente l’elenco delle associazioni politiche, parapolitiche o comunque inerenti alla sfera degli interessi giornalistici, a cui il giornalista aderisce.
g) Effettiva applicazione di tutta la disciplina del sistema dell’informazione, a partire dall’art. 21 della Costituzione (anch’esso non osservato). Torniamo al codice civile e al codice penale. Non c’è nulla di peggio d’una norma non fatta valere e caduta silenziosamente nel dimenticatoio della desuetudine. Analogamente sono inutili tutte le “grida“ deontologiche sprovviste di sanzioni vere.
h) Introduzione di queste regole nel Contratto nazionale di lavoro giornalistico. Si conosce bene l’interesse degli Editori ad avere dei dipendenti “ricattabili” e quindi predisposti al servilismo; per questo è necessaria un’assunzione di responsabilità collettiva sulla deontologia.
i) Eliminazione delle incongruenze più visibili della “normativa rinnegante”. Il caso più grave è la contraddizione limitativa del segreto professionale per i giornalisti: l’art. 200 del codice penale sul segreto professionale con una mano estende questo diritto ai giornalisti e con l’altra glielo toglie..
j) Forte attenuazione delle conseguenze civili e penali della “diffamazione” per mezzo stampa. Dal 1984 la Corte di Cassazione ha separato, in materia, il procedimento penale dal procedimento civile. Da quel momento gli italiani, dato che tengono moltissimo al loro onore, se lo restaurano in sede civile, chiedendo un risarcimento milionario e disinteressandosi di pretendere una condanna in sede penale. Si è reificato l’onore. Spesso le somme reclamate sono enormi e la richiesta ha il solo scopo d’intimidazione.

15. CONCLUSIONI. LA NASCITA DI ****, COMITATO PER LA LIBERTA’ D’INFORMAZIONE

Proponiamo la costituzione di un Comitato permanente per la libertà d’informazione tra coloro che hanno a cuore le sorti di quella che Kant definiva “libertà di penna”, e che intendono discutere ed avanzare progetti di riforma ispirati ai principi e ai criteri esposti in questo “Libro Blu”. Ma il Comitato non si limiterà a un’azione di testimonianza e di analisi, ma sarà impegnato anche in azioni concrete di denuncia contro le violazioni continue, e ormai tollerate da tutti, della legislazione attuale. Il Comitato si ispira alla “Société des Amis de la liberté et de la presse” che sorse in Francia nel novembre del 1817. Vi aderirono personaggi come Benjamin Constant, Achille de Broglie, Paul-Louis Courier, Jean-Baptiste Say, che, con un’attività frenetica fatta di appelli, petizioni, lettere e sottoscrizioni per pagare le multe con cui erano penalizzati i giornali d’opposizione, seppero influenzare la riforma della legislazione sulla stampa. Quell’esperienza fu storicamente importante, perché per la prima volta alcuni cittadini si organizzarono in associazione per battersi sul tema della libertà dell’espressione del pensiero, dimostrando di comprendere che quella era un’epoca – com’è anche l’attuale - in cui assumeva un rilievo strategico. Il Comitato è “partiticamente” non schierato e si rivolge a quanti in tutto l’arco dello schieramento politico e ideale sono preoccupati per le miserevoli condizioni dell’informazione stampata e televisiva. Il Comitato, che si accrescerà per cooptazione e dove la presenza di giornalisti non potrà superare un terzo dei componenti, si doterà di un ufficio legale. Il Comitato raccoglierà anche aderenti.
[Enzo Marzo]