lunedì 22 giugno 2009

Carlo Galli: l'etica della democrazia

L’etica della democrazia
Data di pubblicazione: 22.06.2009

Autore: Galli, Carlo

Il degrado civile della società italiana è sottolineato dalla sua indifferenza ai problemi etici. Da la Repubblica, 22 giugno 2009 (m.p.g.)

Che l’uomo politico non debba essere vizioso è stato a lungo affermato dalla tradizione, tanto da quella pagana quanto da quella cristiana, attraverso una ricca trattatistica.
Si imponeva al principe, proprio perché fosse un buon politico, l’esercizio delle più comuni forme di moralità: la rettitudine, l’onestà, la mansuetudine, la magnanimità. Virtù umana e virtù civile del principe non dovevano divergere: la loro sconnessione era indizio di decadenza pubblica, non solo di privata malvagità.

È in età moderna che si fa strada l’idea che i comportamenti privati dei politici possano essere irrilevanti politicamente, perché l’esistenza collettiva ha un’intrinseca e autonoma moralità, diversa da quella che riguarda i singoli individui. Così, nella tradizione aperta da Machiavelli e proseguita nella Ragion di Stato, i valori politici sono la sicurezza, la potenza e la gloria dello Stato; si tratta di fini e di ideali che consentono al governante, per realizzarli, comportamenti difformi dalla morale tradizionale; e poiché si chiede all’uomo politico solo il successo, con ogni mezzo, della sua azione politica, la sua vita privata non è più importante.

La distinzione fra morale e politica che così si istituisce è controversa, e viene a volte accettata e a volte respinta tanto dalle culture religiose quanto dal pensiero politico laico. La Chiesa cattolica ha di fatto concesso qualcosa alla distinzione, dato che - pur continuando ad affermare che la politica si fonda in ultima istanza sulla morale - ha rifiutato di far dipendere la legittimità di un uomo politico dalla moralità dei suoi comportamenti privati (fino a quando non fanno scandalo pubblico); mentre al contrario nel mondo protestante - meno nel luteranesimo e più nel calvinismo - si è lottato contro la corruzione e la peccaminosità dei principi, e si è preteso da loro, come da tutti i fedeli (ossia da tutti i cittadini), una linearità di comportamento morale che non distinguesse fra pubblico e privato. Certamente, ne sono nati fanatismi e ipocrisie, cacce alle streghe e conformismi; ma ne è nata anche l’attitudine delle pubbliche opinioni a chiedere conto ai potenti della loro integrità personale oltre che della loro capacità politica. Secondo uno stile che si è affermato pienamente negli Usa, un popolo di uomini liberi ha l‘orgoglio di non farsi governare da politici corrotti.

Pare a molte delle culture politiche europee liberali che questo sia moralismo politico, per quanto di orientamento democratico. E quindi la tradizione liberaldemocratica tiene ferma la distinzione fra morale e politica, poiché crede nella separazione fra privato e pubblico; e auspica tanto dall’uomo politico quanto dal semplice cittadino il rispetto della morale (di una delle molte possibili morali) nei comportamenti privati, mentre esige che la conformità alla legge (che incorpora inevitabilmente diffuse credenze morali, ma che con la morale non coincide per nulla) sia la regola dell’agire pubblico di chiunque. Mentre le violazioni della morale sono faccende private (di privacy), rispetto alla legge sono concesse agli uomini politici (non ai semplici cittadini) deroghe e eccezioni, segreti e opacità, ma in misura molto limitata e esclusivamente per il superiore interesse della cosa pubblica.

Tutto chiaro, dunque? La liberaldemocrazia europea ha risolto la millenaria questione del rapporto fra morale e politica privatizzando la morale e giuridificando la politica? Per nulla. Infatti, come è assurdo immaginare una democrazia viva e vitale in una società di persone rispettose della legge ma tutte e sempre moralmente abiette, così è impensabile che un grande governante sia anche radicalmente e sistematicamente immorale nella vita privata. In realtà è evidente che la liberaldemocrazia per essere vitale deve negare tanto la piena sovrapposizione fra politica e morale quanto la loro totale separatezza, tanto il moralismo quanto il cinismo, e deve esigere che fra politica e morale si istituisca una qualche relazione. Questa - non formalizzabile in norme di legge eppure, per una sorta di istinto, chiara alle pubbliche opinioni informate - consiste in una sorta di analogia, ovvero in una vicinanza o almeno in una non radicale contrapposizione, fra il modo in cui un uomo di potere tratta coloro che gli sono vicini (la sua morale) e il modo in cui governa i cittadini, e risponde a loro (la sua politica). La legittimazione dei leader, insomma, non sta solo nell’aver vinto le elezioni, ma nel saper rispettare in ogni circostanza e in ogni momento il fine ultimo - politico e insieme morale - della democrazia, l’ethos democratico: la libertà degli individui, la dignità dei cittadini, l’umanità delle persone. Decadenza c’è quando di questa analogia - civile, e non fanatica - né i politici né i cittadini sentono la necessità.

domenica 21 giugno 2009

Gim Cassano: Radicali e sinistra

RADICALI e SINISTRA.

Scrivo queste note a seguito del commento dell’amico Francesco Antoni (che qui riporto) all’intervento, “Dopo il voto europeo: il cavalier-menzogna non è imbattibile”, e che è apparso su “Spazio Lib-Lab” alla pagina: http://www.spazioliblab/?p=1511.

Commenta Francesco Antoni:
“A mio parere a questo punto non trovare un accordo con i radicali sarebbe da irresponsabili (anche per i radicali).
Vorrei rassicurare che le posizioni liberiste dei radicali - a parte posizioni di singoli - ormai non sono estreme.
Mi auguro che alcuni dirigenti di S&L partecipino quindi al congresso radicale di Chianciano. Il principio federativo sarà sicuramente ben accetto”.

Non riesco a capire il senso di una discussione incentrata tutta sull’esser pro o contro i radicali, ma ritengo utile chiarire alcuni punti, per la reciproca comprensione. In definitiva, tutti sappiamo che i radicali, comunque, dovunque, e sempre, faranno di testa loro. Non è, in via di principio, una caratteristica disprezzabile; ma è un fatto che sicuramente pone dei problemi.
Avevo ritenuto, con altri amici, che la scelta ottimale per S&L sarebbe stata quella di averli come alleati; non entro ora nel merito del perché ciò non si sia realizzato; ma è stato uno sbaglio l’aver rincarato la dose con un veto che non aveva ragione di esistere, avendo loro già deciso di non venire con S&L. Il che ha avuto il sapore di una preclusione ideologica del tutto gratuita. Se la responsabilità della mancata intesa fosse stata solo radicale, questo avrebbe fatto venir meno uno degli argomenti utilizzati da Pannella nei confronti di Sinistra e Libertà. E mi pare evidente (vedi gli andamenti del voto nel NordOvest e nelle grandi città) che radicali e Sinistra e Libertà abbiano largamente attinto dallo stesso pozzo.

Detto questo, non possono esser taciute le questioni di fronte alle quali si troverebbe di fronte una “nuova sinistra” per effetto di una eventuale presenza radicale in essa, e che non consistono solo nel modo di far politica. Chi, alla fine della prossima settimana, vorrà andare a Chianciano, farebbe bene a considerarle.

Intanto, il tema dell’iniziativa: “la lotta contro 60 anni di regime partitocratico”.
Questo è stato il tema della campagna elettorale radicale. Attenzione ai numeri, che non sono casuali: 60 anni vuol dire a partire dall’entrata in vigore della Costituzione, cioè dalle prime elezioni politiche ( quelle del “vi ricordate quel 18 Aprile, d’aver votato democristiani?”). Sembra di capire che Pannella fissi a quel 18 Aprile la data di inizio del regime partitocratico.
Il che è profondamente scorretto, da un punto di vista storico e politico. Ciò significa non considerare le condizioni nelle quali si avviò la giovane democrazia, ed il tono ed il livello del dibattito politico dei primi 30 anni di vita democratica. Anche gli eredi di coloro che non condivisero o dovettero subire l’evolversi verso la forma del bipartitismo imperfetto, devono riconoscere questo fatto. Quegli anni hanno visto arrivare la CECA, il Trattato di Roma, le leggi sul divorzio, sull’aborto, il diritto di famiglia, lo statuto dei lavoratori, la legge Merlin e la soppressione dei manicomi, la sconfitta del golpismo nero e dei terrorismi nero e rosso. L’Italia si è data, forse a fatica, norme più degne di un Paese civile. In definitiva, non vi è stato soltanto regime partitocratico e vuota occupazione del potere. E questo, i radicali per primi dovrebbero saperlo benissimo.
Nella sua innata propensione per lo stupire, Pannella fa di tutte le erbe un fascio, mette tutti sullo stesso piano, conservatori e progressisti, ed eleva solo la pattuglia radicale al di sopra della palude:
E’ un’interpretazione del tutto legittima; ma non può essere questo il punto di avvio di una nuova sinistra. Per la semplice ragione che questa interpretazione non considera una questione essenziale, che i radicali hanno invece molto spesso considerato irrilevante: che accomunare, ieri come oggi, tutti quanti nel calderone della partitocrazia, significa non voler distinguere tra chi propendeva alla conservazione, e chi alla trasformazione della società.
La Storia dell’Italia Repubblicana viene così letta come il racconto delle vicende e degli ostracismi che hanno riguardato la schiera radicale. Che, riguardo a questa Storia, ha ragioni e meriti indubbi (non pochi), e però anche qualche demerito.
Quale la copertura data ad un berlusconismo vincente ma ancora contenibile e non dilagante, fornendogli quella legittimazione liberale che non ha mai meritato, ma della quale aveva bisogno. E Pannella era ed è persona sufficientemente accorta per conoscere perfettamente quanto tale legittimazione fosse fondata sul nulla.
Oppure, quale la scelta pro-PD per le elezioni politiche di un anno fa, accettando il massimo della cooptazione partitocratica. E, se il patto simoniaco (così fu descritto quell’accordo dallo stesso interessato) è peccato veniale per i radicali, perché dovrebbe esser reato per gli altri?
In altre parole, se vogliamo leggere la storia di questo Paese in termini liberali, dobbiamo leggerla per quel che sono i fatti, al di là delle intenzioni e delle giustificazioni. Non è immaginabile il poter costruire una nuova sinistra partendo dal presupposto che vi sia chi non ha mai sbagliato, che accetta nella sua casa i vari figlioli prodighi, e partendo dal presupposto che tutti, destra e sinistra, siano la stessa cosa ed abbiano parimenti sbagliato.
Non penso, così, che questo sia un buon punto di partenza per avviare un processo unitario: detto brutalmente, credo che agli italiani non importi nulla dei 60 anni di regime partitocratico, se visti in quei termini, e che interessi invece la valutazione di questioni di principio dalle quali derivano conseguenze e scelte ben più concrete.

Venendo alle quali, occorre sottolineare due punti.
Il primo: la concezione del funzionamento del sistema democratico che ci viene proposta dai radicali è, a mio parere, incomprensibile se vista nella realtà italiana. L’insistere sul voler applicare forme politiche di stampo anglosassone -di mondi, cioè, nei quali la tradizione parlamentare ha molti secoli di vita, oltre due ne ha la democrazia americana, impiantata sul modello parlamentare britannico, e comunque l’esercizio della vita democratica in quei Paesi ha il sostegno di ben altre concezioni sulle libertà civili, sull’autonomia dei poteri, sull’indipendenza della società civile dal potere politico,sulla libertà di stampa e di informazione- nella realtà italiana, appare un esercizio accademico destinato, questo sì, ad una certa ed istituzionalmente formalizzata involuzione partitocratica. Perché, in assenza di quelle virtù civili di cui si è appena detto, è chiaro che l’uno o l’altro dei due partiti al potere ricorrerebbe a qualsiasi mezzo per restarvi.

Il secondo: la pregiudiziale liberista. Non ci si può definire liberisti come necessaria conseguenza dell’esser liberali. Ci si può definire liberali e liberisti; ma questa è una scelta ideologica, legittima, ma della quale occorre esser consapevoli, che comporta da un lato l’adozione di una visione particolare del concetto di mercato, e dall’altro, l’espansione del concetto di mercato a regola sociale.

Occorre che vi sia consapevolezza sulla non inutilità di chiarire questi aspetti, perché possa aversi un rapporto utile e non fondato sull’equivoco o sulla convenienza temporanea, e perché possa, nel caso, stabilirsi una più vasta aggregazione a sinistra.

Gim Cassano (20-06-2009)

sabato 20 giugno 2009

Alessandro Silvestri: Documento sullo stato del PS

Caro Giovanni,

Ti invio la stesura definitiva del documento che sarà presentato a Roma il 24, al consiglio Nazionale del PS.
La particolarità (al di là dei contenuti più o meno condivisibili) è che esso nasce dalla novità rappresentata dalla rete e nello specifico, dai quotidiani contatti che avvengono su FB.

Mai era avvenuto infatti, che i singoli individui, avessero la possibilità di ritrovare una Agorà reale (e non già virtuale) dove confrontarsi e discutere quotidianamente dei problemi della società.

Questo documento è il primo (almeno in casa socialista) nato grazie alla piattaforma sociale (social network) di FaceBook, dall'elaborazione e dallo scambio di idee, di persone che neanche si conoscevano prima.

Ti chiedo quindi, se lo ritieni confacente agli scopi della ML, di pubblicarlo con richiesta di adesione da chi lo riterrà utile.

Grazie, alessandro.



Il grano e il loglio della Sinistra.
Gio alle 15.44
DOCUMENTO SULLO STATO DEL PS, PROMOSSO DA ISCRITTI, DA SOCIALISTI SENZA TESSERA E DA ELETTORI DI SINISTRA E LIBERTA'.

Cari amici e compagni,

Il risultato del 3.12 raggiunto alle elezioni europee dalla lista "Sinistra e Libertà" è insieme il classico bicchiere contemporaneamente mezzo pieno e mezzo vuoto.
Mezzo pieno per l'ottimo risultato ottenuto in poche settimane di campagna elettorale senza alcun sostegno da parte del "sistema" di potere mediatico-oligopolico.
Mezzo vuoto per l'atteggiamento da remi in barca dimostrato da ampi strati del Partito Socialista, sia nelle realtà locali (dove ad es. a fronte di liste amministrative dove eravamo presenti come PS in presenza anche di liste di "Sinistra per" o in liste civiche, i risultati delle europee sono sempre stati al di sotto e in alcuni casi, molto al di sotto, dei risultati amministrativi) sia in maniera più eclatante e incomprensibile da parte dei principali dirigenti nazionali che hanno preferito non esporsi nella competizione, a partire dall'attuale Segretario Nazionale.

Sottolineiamo questo fatto evidente, nella convinzione che se avessimo dimostrato un impegno più generoso, avremmo potuto forse superare la soglia di sbarramento.
Detto questo, facciamo i ns. più sentiti complimenti ai compagni che si sono battuti con passione sui territori e che hanno conseguito risultati onorevoli anche se non pienamente soddisfacenti per i motivi sopra esposti.
I ns. 3 candidati di punta, Locatelli, Di Lello e Battilocchio, non hanno sfigurato affatto nella competizione, anzi stanno a dimostrare che un elettorato socialista ben radicato nel paese esiste ancora e ha certo voglia di contribuire alla rinascita democratica in Italia, a partire dalla ricostituzione di una chiara e riconoscibile forza di sinistra, laica, socialista, ambientalista.

Se avessimo superato la soglia autocratica imposta dal duopolio veltrusconiano, avremmo mandato in Europa, rappresentanti equamente distribuiti tra le componenti che hanno formato SL.
Sepp Kusstatscher per i Verdi, Giuliana Sgrena per il GUE, Claudio Fava e Marco Di Lello nel PSE/ASDE.
Ciò dimostra con la forza dei numeri, la bontà e la fattibilità di proseguire su questa strada.

Non è solo una questione di formule elettorali che ci impone però di guardare al futuro del socialismo italiano, che non potrà che continuare a vivere e a crescere soltanto attraverso la contaminazione delle tante storie che compongono il panorama della sinistra italiana. Ecco perché i socialisti non devono temere di partecipare a questa nuova (e imprevista) possibilità di portare la propria cultura autenticamente riformista a disposizione di un progetto più ampio respiro politico. La battaglia della autonomia e dell'autosufficienza è stata tentata nell'ultimo biennio ma non può più bastare, la posta democratica in gioco e i continui "aggiustamenti" di leggi in esclusivo favore di chi le promuove e di chi le avalla, ci impone di unirci ai soggetti politici a noi più affini. Pur se il cantiere di SL è soltanto agli inizi, dobbiamo mettere a disposizione tutti noi stessi, perché cresca, si rafforzi e rappresenti presto, una concreta alternativa a questa c.d. II Repubblica, che forse non riesce nemmeno ad essere una pseudo-Repubblica!

I fenomeni della globalizzazione hanno messo a nudo la debolezza della politica di fronte all'organizzazione o soltanto al dilagare del potere finanziario internazionale, a scapito dell'economia e delle principali regole democratiche che possono essere salvaguardate oggi e sempre, soltanto dal controllo pubblico e dalla redistribuzione delle risorse.
Quando ciò non avviene, ci troviamo improvvisamente indifesi contro le cicliche tempeste speculative mondiali, che possono ormai essere studiate e decise, da un sempre più ristretto numero di soggetti, che travalicando le leggi nazionali ed internazionali, operano a tutto campo sfruttando appunto, la mancanza di una politica mondiale che regoli e controlli le dinamiche del capitalismo globalizzato.

Come sistema paese, siamo ancora più indifesi rispetto ad altri cittadini dell'occidente democratico, a causa sia di fattori storicizzati come l'uso del debito pubblico per garantire la sopravvivenza di un apparato burocratico/amministrativo che non ha eguali per sperpero di risorse economiche e malfunzionamento almeno a livello G20; sia per la mancata risoluzione delle dinamiche consociative tra i diversi poteri che sono emerse nel periodo di "tangentopoli" e che si sono aggravate con l'avvento dell'era berlusconiana-ulivista, dalla quale proprio i socialisti hanno pagato il prezzo più alto sia in termini di colpe ed errori strategici, sia di successiva inconsistenza politica che si riverberano ancora oggi massicciamente e negativamente, sulle dinamiche attuali del PS.

Constatiamo inoltre l'aumento di attività criminali di chiaro impianto mafioso anche in settori meno "tradizionali" come nelle imprese quotate in borsa, nelle banche, nella finanza, negli enti locali del centro-nord. Anche se stando ai principali organi d'informazione, dai dibattiti del Governo e buona parte dell'opposizione, parrebbe che i problemi del paese siano ben altri.
La cronaca nera ha subito un potente maquillage verso il rosa, e la tendenza dei gruppi d'informazione controllati dal Premier, ha ormai contagiato anche la TV pubblica.
La principale impresa industriale privata italiana (sarebbe meglio dire semi-pubblica da quanto denaro e risorse è costata ai contribuenti) si è lanciata negli ultimi tempi in frenetiche attività di shopping nel settore auto internazionale, e nonostante si produca nel territorio nazionale assai meno di quello che si importi, la conseguenza annunciata, sarà un'ulteriore perdita non solo di posti di lavoro, ma di interi impianti industriali, con tutta la loro rete collaterale di piccole aziende altamente specializzate. Ma come, si chiede l'uomo della strada, la FIAT ha sempre goduto di condizioni privilegiate da parte della Stato, che ha contribuito massicciamente a tapparne i buchi nei non rari momenti di crisi, ed oggi parrebbero spuntate chissà come, energie (anche finanziarie) tali da poter acquisire intere aziende di rilevanza mondiale.
E questo senza che il Governo (impegnato com'è tra ronde, barconi e gossip) sia stato in grado di intervenire tempestivamente con il gruppo di Torino, per chiedere fermamente l'intangibilità della produzione italiana del settore.
Su questi fronti ci dovremo impegnare più seriamente di quanto non è stato fatto finora non solo dal partito, ma dall'intero arco politico. Si continua impunemente a far privatizzare gli utili dei grandi gruppi economici nazionali e a socializzarne le perdite. La vicenda Alitalia è stata soltanto, quella più eclatante degli ultimi tempi.

Solo intervenendo sulle principali cause dell'impoverimento costante del paese (non solo dal punto di vista economico, ma soprattutto culturale) potremo poi mettere in atto politiche di giustizia, di libertà, di equità e di civiltà, politiche vale a dire di chiara matrice socialista.
Se gli ultimi e i penultimi hanno voltato le spalle da anni alla sinistra è perché questa ha voltato per prima le spalle alla sua storia e alle sue radici, inseguendo da una parte (la nostra) inutili tentativi istituzionalistici con numeri insufficienti a qualsiasi incidenza, oppure continuando a raccontare storie di purezza e superiorità morale e ideologica di una sinistra che non solo non c'è più, ma probabilmente non c'è mai stata.

Riguardo alle alleanze future, dobbiamo naturalmente essere interessati a tutto ciò che accade nel PD, sforzandoci da sinistra di farne emergere le notevoli contaddizioni che di fatto, lo hanno reso un partito immobile più che il perno dell'alternativa al berlusconismo. Nessuna indulgenza però, laddove non venga svolta una severa autocritica sulla disastrosa conduzione veltroniana. L'aver deciso inoltre il PSE di allargare al PD (non stiamo qui a discuterne le ragioni) l'eurogruppo, denominandolo ASDE, non ci può da solo indurre a ritenere che la transizione socialdemocratica del PD stesso, sia già in atto. Vedremo e valuteremo.
Riguardo ai radicali, riteniamo che quel partito (vero e proprio antesignano degli attuali partiti-azienda) fintanto che Pannella ne sarà il padre-padrone, non rappresenti il vecchio, bensì il vecchissimo della politica e le sue attività frutto di mestieranti più che di veri compagni della tradizione radicale che per temi, movimentismo e simboli di solito in europa militano nei partiti socialisti. Coerenza vorrebbe che quando si annunciano le battaglie contro "lo strapotere partitocratico" non si sfruttino indebitamente e strumentalmente simboli del dolore universale quali la stella gialla, e non si finisca invece per avvantaggiare proprio coloro che a parole si dice di voler combattere.
Oggi le due vere novità dello scenario politico, sono Sinistra e Libertà e le decine di migliaia di giovani che seguono Beppe Grillo, i quali hanno dato vita a molte liste comunali e che alle europee hanno decretato il successo dell'IDV (che viceversa sarebbe stato grazie ai limiti di Di Pietro, già sul viale del tramonto) riversando migliaia di preferenze verso Sonia Alfano e Luigi De Magistris. Con questa schiuma emergente e ribollente dobbiamo confrontarci e relazionarci, non già con i dinosauri di quella casta incancrenita che vorrebbero afferrarci e riportarci nel passato.

Abbiamo inoltre il compito di tornare ad essere credibili, proprio grazie alle modalità organizzative che sceglieremo, coniugando l'esigenze di verticalizzazione proprie delle organizzazioni, con quelle orizzantali proprie della partecipazione democratica. C'è una enorme fascia di scontento, specialmente nell'elettorato potenzialmente di sinistra, che si esprime col non voto o con scelte estreme tipo Lega.
A questi compagni e concittadini dobbiamo restituire la fiducia in una organizzazione politica che in tutto il mondo non è solo rappresentanza ma anche istanza di condivisione e fratellanza.

Cosa vogliamo?
Innanzitutto riportare le capacità, il merito e gli effettivi meccanismi di selezione democratica al centro del nostro agire sia nelle istituzioni in cui siamo presenti, sia all'interno del Partito che non può continuare ad essere gestito nel modo attuale, appesantito dalle recenti eredità figlie di liturgie vecchie e senza più politicamente, niente da dire.
Troppo pressappochismo e troppa navigazione a vista (senza una particolare "vista") che ci ha riempito e resi attoniti in questi mesi di comunicati e di iniziative spesso velleitarie (se non addirittura contrastanti tra di loro) senza alcun esito concreto nei fatti. Non vogliamo qui elencare una penosa lista che siamo certi ognuno di voi ha già stilato nel suo pensiero e nel suo giudizio, ci soffermiamo soltanto su come è stata condotta l'operazione SL e la successiva campagna elettorale che a nostro avviso, non ha messo in moto tutto il potenziale socialista (spesso più al di fuori che dentro all'attuale PS) grazie ad una serie di errori personali e politici anche del segretario ma non solo, a partire dalla sua mancata candidatura assieme a quella di altri esponenti di rilievo, o per la strana compilazione delle liste che non ha visto ad es. la ns. Presidente dell'Internazionale femminile, Pia Locatelli, capolista nella sua circoscrizione, oppure nel caso dell'europarlamentare uscente Battilocchio, messo all'ottavo posto nella sua, per non tacere delle scarse performances in termini di preferenze europee e comunali ottenute in città importanti come Firenze e Bologna.
Craxi e Nencini, non avrebbero dovuto lasciare sguarnite le circoscrizioni Isole e Nord-Est, dalla presenza concreta di un candidato socialista, offrendosi per primi nel pur gravoso impegno della campagna nei due collegi più difficili, sia per le oggettive condizioni di difficoltà, sia per la situazione di salute non eccellente del Segretario. I nostri padri e i nostri nonni, non avrebbero scelto di non battersi, e hanno dimostrato ampiamento di averlo fatto più che degnamente, in situazioni assai più gravi e pericolose che non già una competizione elettorale!

Già le elezioni regionali di Abruzzo e Sardegna avevano dimostrato l'incapacità della gestione post-costituente dell'attuale segreteria, che lasciava ancora spazio alle faide locali, senza saper imporre una coraggiosa linea unitaria, al di fuori della quale mettere in discussione chi da circa 20 anni, ritiene di poter fare il bello e il cattivo tempo nelle regioni, senza contraddittorio o vere elezioni democratiche degli organismi. La stessa presentazione del simbolo del PS nei grandi comuni e nelle province, senza dare una chiara indicazione di formare solo liste di SL, ha contribuito ulteriormente a disorientare la base socialista che si è trovata costretta a scegliere tra due opzioni entrambe favoribili, non trovando poi il simbolo PS alle europee e facendo mancare (forse anche per protesta) il proprio sostegno alla lista SL.

Per questo chiediamo che sia discusso nelle opportune sedi il presente documento, che chiede:

1) Una chiara autocritica dell'attuale segreteria, per le motivazioni esposte ed evidenziate nel presente documento, invitandola ad impegnarsi principalmente nelle prossime settimane, nella gestione del processo federativo con le altre componenti di SL, più chi vorrà in seguito aderire.
2) La convocazione di un congresso straordinario che sancisca in maniera definitiva che sugli accordi ( grazie anche al quasi milione di voti presi) non ci si possa permettere di tornare indietro. Su questa base, eleggere i nuovi organismi del Partito, in base al vigente statuto.
3) Che venga considerata l'opportunità di utilizzare il sistema della doppia tessera per un periodo di prova minimo di 2 anni.
4) Che si avvii rapidamente l'individuazione dei criteri per le liste ed i programmi per le regionali 2010, dove venga ben chiarito che tutti i fondatori di SL, si impegnano a presentare soltanto liste unitarie, con il simbolo attuale o che verrà eventualmente deciso nel congresso costitutivo.
5) Impegnare i socialisti a garantire l'effettiva partecipazione democratica dal basso del nuovo soggetto di SL, a partire dalle associazioni (o sezioni) comunali col criterio iscrizione=voto contestuale per eleggere i rappresentanti comunali che eleggeranno quelli provinciali, quelli provinciali i regionali e così via. Un ritorno all'antico insomma, che contrasti la tendenza ai "partiti liquidi" che tanto danno hanno arrecato alla sinistra, e al sistema democratico nel suo insieme.
6) Costituire una fondazione che si occupi di tutelare il patrimonio letterario, i fondi, la produzione politica, i simboli del Partito Socialista Italiano nelle sue varie denominazioni e quant'altro utile alla conservazione di un patrimonio culturale insostituibile, che ci auguriamo formi il piedistallo sul quale costruire il nuovo soggetto politico unitario.
Su di un celebre libro vi era scritto: "MA L'IDEA CHE E' IN ME, NON MUORE MAI" Quel libro non solo va conservato con onore e riguardo in una bella teca, ma va reso accessibile soprattutto per le generazioni future!

Separare il grano dal loglio è operazione quanto mai necessaria, per riaprire spazi che parevano chiudersi per un lunghissimo periodo per la presenza e la cultura socialista.

Certi di una precisa considerazione da parte degli organismi e dei singoli militanti, Vi ringraziamo per l'attenzione.

Alessandro Silvestri (Pisa)
Elena Ronconi (Ancona)
Rodolfo Smeraldi (Roma)
Carlo Locci (Cagliari)
Gino Di Maro (Milano)
Luciano Montauti (Livorno)
Francesca Baggiani (Livorno)
Erika Montauti (Livorno)
Alessandro paolini (Livorno)

andrea romano: Dahrendorf, il liberale corteggiato da sinistra

andrearomano

Fausto Bertinotti: Tutti insieme in un nuovo partito

Dal sito radicalsocialismo


Tutti insieme in un nuovo partito!
Scritto da Fausto Bertinotti
sabato 20 giugno 2009
Un partito nuovo, unitario e plurale, della sinistra, di tutta la sinistra. Un partito capace di rappresentare il mondo del lavoro e le “grandi mete” (eguaglianza e libertà, laicità, nonviolenza) che danno senso alla sinistra. Una forza da ricostruire processualmente entro un tempo politico “medio” – tre anni – entro, cioè, le prossime elezioni politiche. Questa a me pare la sola prospettiva percorribile, dopo il (disastroso) risultato del 6-7 giugno, che ha sancito la fine, o la sconfitta storica, dei partiti eredi del 900. Conosco le obiezioni. Come si fa a mettere in moto un processo costituente efficace, che non sia velleitario o non si riduca alla somma delle debolezze attuali? Come si fa a superare quello spirito “scissionista” (e\o identitario) che sembra gravare su di noi come una maledizione? Quale demiurgo, individuale o collettivo potrebbe mai incaricarsi di far scattare il big bang al momento giusto? Conosco queste obiezioni e so che, se si guarda allo “stato delle cose” presenti, sono tutte fondate. Ma la risposta forte e dura viene, prima di tutto, dai fatti: tutti gli spazi finora percorsi si sono esauriti. Continuare sulla strada (sulle strade) fin qui seguite non ha più nulla di “realistico”, diventa anzi la più folle delle utopie. Se non ci si vuole rassegnare ad un’Italia (ad un’Europa) senza sinistra (o con sinistre ridotte ad una condizione permanente di marginalità e ininfluenza), bisogna dunque tentare una radicale inversione di rotta. E assumere con forze e determinazione l’obiettivo di una Grande Sinistra.

Con chi? Con tutti coloro che ci stanno, dai comunisti ai radicali, dal Pd agli alternativi - dai soggetti politici ai movimenti, dai gruppi più o meno organizzati alle persone singole. Noi di sinistra siamo tutti sconfitti, dobbiamo tutti metterci, davvero, in discussione. Come? Non possiamo pensare a una somma dell’esistente, o a processi puramente fusionistici: questa è un’altra utopia, per di più banalizzata. Se è vero che esiste una sinistra all’interno di tutte le forze che compongono il panorama dell’opposizione, se è vero che questa soggettività è oggi “imprigionata” in involucri diversamente inadeguati, bisogna intanto promuovere la liberazione di queste forze - la loro disponibilità a un nuovo progetto.
Penso, insomma, a un processo di scomposizione e ricomposizione generale, nel quale nessuno confluisca in qualcosa che già c’è, ma tutti concorrano, possano effettivamente concorrere, alla rifondazione di qualcosa che non c’è ancora.
Naturalmente, perché questo possa avvenire, non basta la disponibilità e nemmeno la buona volontà: bisogna prendere atto che, davvero, una storia è finita, si è conclusa. Da questo punto di vista, l’analisi proposta ieri da Giuliano Ferrara sul Foglio ha una fondatezza: la risposta che la sinistra radicale ha tentato di incarnare per qualche decennio, rispetto alla crisi dei partiti storici del movimento operaio, è fallita. Ma non è altrettanto fondata la conclusione che egli ne trae: confluire tutti nel Partito Democratico, se si vuole continuare ad esercitare un ruolo. Tutti nel Pd, per dare piena compiutezza all'americanizzazione della politica. Questa idea non funziona perché non tiene conto di un fatto fondamentale: anche il progetto del Partito Democratico è fallito. Anche, se non soprattutto, un progetto che è nato da un'istanza analoga - sia pure politicamente e strategicamente diversa - a quella che ha mosso la sinistra radicale: offrire una risposta riformista al declino della sinistra storica. Non è un giudizio personale, è il giudizio impietoso che hanno dato gli elettori: un anno fa, bocciando il partito a “vocazione maggioritaria”, quello che doveva battere Berlusconi e sfondare al centro; pochi giorni fa, con l’ulteriore secco ridimensionamento alle europee e la débacle alle amministrative.
Quattro milioni di voti perduti in dodici mesi, la perdita massiccia di comuni e province, la penetrazione leghista nelle regioni rosse, con il 40 per cento degli operai (secondo un’inchiesta di Mario Agostinelli pubblicata ieri su Terra) che hanno votato per il partito di Bossi: mi pare un bilancio grave e, soprattutto, mi pare che, purtroppo, la tendenza che si delinea sia ancora più grave.
Prima di ogni altra considerazione, il Pd ha fallito nel suo compito di base: contrastare davvero, fermare, arginare, l’avanzata della destra, la sua egemonia “valoriale”, la sua conquista di un consenso largamente popolare.
Dunque, come diceva Giorgio Amendola quando nel 1964 propose un partito unico della sinistra, i fallimenti sono due: ieri, quello del Pci e quello della socialdemocrazia, oggi. A partire da questa necessaria presa d’atto, si può ricominciare a pensare al futuro - e far tesoro anche di altre lezioni del passato.
Penso, ancora a Luigi Longo, che nel ’45 propose l’unità organica di comunisti e socialisti o, in una stagione un po’ più recente, all’unità sindacale organica realizzata negli anni 70 dai consigli di fabbrica: idee e pratiche che sono state sconfitte o non hanno avuto corso, certo, ma che hanno rappresentato qualcosa che andava oltre la potenzialità.
Penso all’Epinay di Francois Mitterrand: non è oggi un'esperienza riproponibile, ma ha pur consentito ai socialisti francesi un lungo ciclo politico. Penso, insomma, ad un cimento difficile, difficilissimo, ma non impossibile. Un percorso al termine del quale può nascere un Partito fondato su un obiettivo e una discriminante chiare: la rappresentanza del mondo del lavoro. Dentro un partito di tale natura, che abbia archiviato l'impianto interclassista e la subalternità ai potentati economici, quella che fu la sinistra radicale potrebbe continuare a svolgere il suo ruolo “naturale”: l’anticapitalismo. Si può fare? Abbiamo forse un po’ più di trenta mesi, per provarci. Per scuotere gli alberi che compongono la sempre più ridotta foresta della sinistra. A chi ci rivolgiamo? Come disse Vladimir Illich Lenin: A tutti! A tutti!

Fausto Bertinotti

New Left Review - Luciana Castellina: European?

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Giovanni sartori- Resto contrario al referendum

Eddyburg.it - Resto contrario al referendum

Benedetto Vecchi- Ralf Dahrendorf

Eddyburg.it - Ralf Dahrendorf

Piero Di Siena- L'unica alternativa è invertire la rotta

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Aprileonline.info: Un progetto all'altezza del Piano del Lavoro di Di Vittorio

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Aprileonline.info: E' Barroso - bis. L'ira di Schultz (Pse)

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SPIEGEL Interview with Timothy Garton Ash: 'Obama Is Certainly a European' - SPIEGEL ONLINE - News - International

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Benedetta Tobagi: 15 motivi per votare Penati

Cari amici,
ci siamo. Domenica 21 e lunedì 22 (fino alle ore 15) si vota per scegliere il presidente della Provincia di Milano. Invito tutti a tornare alle urne, e se qualcuno di voi avesse mancato l'appuntamento del primo turno, ad andare a votare per rieleggere Filippo Penati.
Di seguito, 15 ottimi motivi per scegliere Penati, che vi prego di diffondere tra i vostri contatti.

Credo che sia molto importante confermare un buon amministratore come Penati, come pure mantenere la nostra provincia al centro-sinistra - in controtendenza al resto della regione e del paese!

Ecco 15 motivi che condivido per votare Penati al ballottaggio per la Provincia di Milano il 21 e 22 giugno:



1. per abolire la Provincia e creare la città metropolitana. Un governo di area vasta che potrà decidere
in modo autonomo ed efficiente su materie come la pianificazione territoriale, il sostegno allo
sviluppo economico, l’ambiente e i rifiuti, le infrastrutture e i trasporti;

2. perché è stato il primo Presidente di un’istituzione milanese a stanziare i fondi (25 milioni di Euro)
per le famiglie colpite dalla crisi economica tagliando le spese di bilancio della Provincia;

3. per riconfermare una giunta che ha creato 3.600 nuovi posti negli asili nido e stanziato 70 milioni
di Euro per il restauro delle scuole superiori di Milano;

4. per continuare le grandi opere avviate nei primi cinque anni, opere fondamentali per il territorio
milanese, come il prolungamento della MM2 ad Assago, della MM1 a Monza, la Metro-Tranvia
Milano-Desio-Seregno e la MM3 a Paullo. E ancora, Pedemontana Lombarda e Tangenziale Est
esterna, due infrastrutture che dopo 40 anni di immobilismo verranno finalmente realizzate, grazie
all’impegno della Provincia e alla concertazione con i Comuni, e la Tangenziale Nord (Rho-Monza),
ormai in fase di completamento;

5. perché vuole introdurre il biglietto unico dei trasporti in tutta la Provincia di Milano e durante
la sua amministrazione la Provincia è stato l’unico Ente ad aver applicato sconti sugli abbonamenti
per giovani e fasce più deboli;

6. perché la Provincia ha sostenuto in maniera decisiva la candidatura di Milano per l’Expo 2015 e oggi
si batte perché gli investimenti promessi siano effettivi e perché il grande potenziale dell’evento
non sia sprecato per colpa di una burocrazia macchinosa e dei continui scontri di potere. Un anno è
stato perso, per colpa della Moratti e del centrodestra, per le sue divisioni, le sue lentezze: una
dibattito continuo sulle poltrone, sugli stipendi, sugli assetti di potere e non sulle cose da fare, che ha
prodotto ritardi, sprechi e conflitti di interesse;

7. per proseguire una politica fortemente incentrata sull’ambiente e la difesa del territorio con
la creazione del Metrobosco (600.000 nuovi alberi) e la valorizzazione del Parco Agricolo Sud
di Milano che copre 47mila ettari (1/3 del territorio provinciale);

8. perché, al contrario delle altre istituzioni milanesi, ha sempre dedicato una fortissima attenzione
al sociale. Ha stanziato 14 milioni di Euro negli ultimi tre anni a vantaggio dei piani di zona dei
comuni per i minori, le famiglie, le giovani madri, disabili e gli anziani; ha creato l’Istituto di custodia
attenuta per consentire ai figli delle detenute di evitare l’esperienza della vita in carcere e ampliato
decisamente il servizio di teleassistenza agli anziani coinvolgendo 120 comuni dell’area milanese.
La Provincia ha stipulato nuove convenzioni per il sostegno a Caritas, Casa della Carità, Opera San
Francesco, NAGA, Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), per interventi di
inclusione sociale e mediazione culturale rivolti agli stranieri. Ha inoltre sostenuto gli sportelli
permanenti di orientamento per gli stranieri attivati da Comuni e Terzo settore;

9. per supportare anche le piccole e medie imprese, lasciate solo dal centrodestra che preferisce
difendere gli interessi di palazzinari e grandi industriali. La Provincia ha stanziato 24 milioni di Euro
per sostenere la nascita di nuove imprese, ha sostenuto il credito alle piccole imprese e ha seguito
nel corso degli ultimi cinque anni 222 casi di crisi industriale di aziende del territorio milanese
stanziando inoltre 10 milioni di Euro per il re-ingresso a lavoro di persone espulse o a rischio;

10. per combattere la criminalità e rafforzare la sicurezza con i fatti e le risorse, non con slogan.
La Provincia ha investito 4.5 milioni di Euro a sostegno delle iniziative dei comuni volte a garantire
una maggiore funzionalità dei presidi delle forze dell’ordine sul territorio e per il controllo dei luoghi
di socialità come scuole e parchi;

11. perché Penati è l’unico amministratore ad aver difeso gli aeroporti di Malpensa e Linate mentre
il Governo stanziava 550 milioni di Euro per Roma e 140 milioni per coprire i buchi di bilancio
di Catania;

12. per una Provincia che ha investito negli ultimi 5 anni quattro milioni di Euro per dotare l’intero
territorio provinciale di una rete telematica a banda larga unica in Italia per dimensioni (2600 km).
Un progetto che garantirà l’accesso wireless ai comuni, alle università, alle scuole ed alle imprese del
nostro territorio;

13. perché la Provincia di Milano ha investito più di ogni altro Ente per promuovere iniziative culturali
nell’area milanese. Ha sostenuto nei momenti più difficili il Teatro alla Scala, le associazioni culturali
delle periferie e ha messo in rete i teatri stabili. Grazie allo Spazio Oberdan, ha ospitato e realizzato
più di 500 eventi all’anno di arte contemporanea, cinema e spettacolo, diventando un punto di
riferimento per la cultura, l’integrazione e la creatività giovanile di Milano;

14. perché ha approvato il piano provinciale per la gestione dei rifiuti che renderà la Provincia di Milano
autosufficiente, perché non vuole che il nuovo termovalorizzatore sia collocato nel Parco Sud;

15. perché rendere uguale il governo della provincia a quello di tutti gli altri enti locali renderà
più deboli le possibilità di alzare la voce in difesa di questo territorio.


GRAZIE A TUTTI VOI, PER LA VOSTRA ATTENZIONE E IL VOSTRO SOSTEGNO!

BENEDETTA TOBAGI

Samir Amin: Illusioni addio

da IL MANIFESTO

INTERVISTA | di Roberto Zanini - MADRID
Samir Amin: «Illusioni addio, servirà una nuova Bandung»
Contro la crisi, alleanze «anti-plutocratiche» e nuovi non-allineati
È nato in Egitto, è cresciuto a Parigi, vive a Dakar: sociologo e economista, Samir Amin, 78 anni, è uno degli intellettuali più importanti del neo-marxismo. Lo abbiamo incontrato a Madrid per la «Conferenza internazionale sulla crisi sistemica del capitalismo» organizzata dall'Università Nomade diretta da Carlos Prieto e ospitata dal Museo Reina Sofia (quello che espone «Guernica»). Carlos Prieto è un intellettuale e un organizzatore politico di grande respiro e il direttore del Reina Sofia, Manolo Borja, è un coraggioso provocatore culturale che non disdegna di uscire dall'arte per ospitare eventi politici di rilievo.
Cosa accadrà nel futuro visibile?
Questa crisi continuerà e diventerà più profonda. Anche se il sistema finanziario venisse restaurato in due o tre anni, la situazione non cambierà, il sistema non uscirà dalla crisi, anzi potrebbe crollare di nuovo. Ci stiamo muovendo verso un periodo simile a quello che si registrò durante il XIX secolo, un periodo di caos, di guerre, di rivoluzioni, di esplosioni.
Parli di cambiamenti violenti.
Di instabilità e di caos. Il punto è: quali sono le possibilità e le condizioni, in questo caos, per avanzare nella lunga strada della transizione verso il socialismo? Potrei dire il comunismo, ma chiamiamolo socialismo globale. E invece di rivoluzioni preferisco dire avanzamenti rivoluzionari, che possono essere sconfitti o preparare a più profondi cambiamenti.
Dove e come?
Piuttosto ottimisticamente direi al sud, dove l'approfondirsi della crisi delegittimerà l'ordine capitalista. C'è chi pensa di poter raggiungere un capitalismo nazionale relativamente autonomo, capace di negoziare con quello che può essere definito l'imperialismo collettivo della triade (Usa, Europa e Giappone). Che è l'illusione della Cina e della sua classe dirigente, ma anche di più l'illusione dell'India e del Brasile.
La Cina può essere parte della soluzione?
La Cina di oggi è parte del problema, ma penso che possa diventare parte della soluzione. Può giocare un ruolo non direi di guida ma di partecipazione attiva nell'obbligare l'imperialismo globale a fare concessioni.
Una nuova egemonia, nel senso gramsciano del termine?
Assolutamente no. Le ipotesi sull'egemonia cinese sono collegate alla lunga storia in cui l'imperialismo è stato declinato al plurale: poteri imperialisti, al plurale, in continuo conflitto tra loro. Ma ora c'è l'imperialismo collettivo della triade. La classe dirigente cinese sa di non avere il potere e la possibilità di diventare egemonica, ciò che vuole è diventare un partner rispettabile. L'approfondirsi della crisi proverà loro che ciò non è possibile, dovranno muoversi verso il ristabilimento di un equilibrio all'interno del loro stesso paese, e poi cercare, insieme il sud, di affrontare il nord faccia a faccia. È il loro progetto: globalizzazione senza egemonia.
Di quale sud parli? Venezuela, Bolivia e Ecuador, cioè paesi con governi considerati radicali, o del sud in quanto tale?
Il sud in quanto tale non è mai esistito, incluso il Brasile, che deve uscire dall'illusione di poter essere accettato come partner rispettabile per gli Usa e per l'imperialismo collettivo, di poter controbilanciare la dipendenza dagli Usa approfondendo la relazione con l'Europa. La lotta di classe e la protesta delle vittime, delle classi popolari, obbligheranno paesi come Cina e Brasile agli «avanzamenti rivoluzionari sulla lunga strada del socialismo». E questo significa, certo sotto nuove circostanze, un remake di Bandung. La conferenza di Bandung (che riunì il «movimento dei non allineati» nel '55 in Indonesia, ndr) obbligò il sistema imperiale di quei tempi ad adeguarsi, ad aprire margini non solo di manovra ma di libero sviluppo.
Scommetti su una nuova Bandung?
E' il mio punto principale. Se però non sarà accompagnato anche da avanzamenti - non diciamo rivoluzionari, questa volta - nel nord, particolarmente in Europa, si verificherà una situazione molto pericolosa. Perché? Per la nuova dimensione dei problemi, perché le principali risorse naturali sono oggi abbastanza scarse per non essere più date per garantite. Per poter mantenere la sua opulenza, l'imperialismo non ha più nulla: un finto capitale, finti controlli, super-protezione della cosiddetta proprietà intellettuale, questo e quello... E niente funzionerà, tranne il controllo militare del pianeta.
Una lotta armata per le risorse?
Questo è ciò che la classe dirigente degli Stati uniti ha scelto fin dal 1990, e implementato sistematicamente con Bush padre, Clinton, Bush figlio. E ora con Obama. E gli europei l'hanno accettato, consci di non avere alternative. Lo scontro fra nord e sud è destinato a diventare sempre più aggressivo e non c'è più un'Urss, cioè un altro potere. Il revival della sinistra radicale in Europa diventa decisivo, e oggi l'approfondirsi della crisi ne offre le possibilità.
Possibilità? La sinistra radicale è sparita.
È sparita a causa dell'estrema concentrazione del potere economico e politico nelle mani di quelli che chiamo le oligarchie, cioè Stati uniti Europa e Giappone, che per la prima volta nella storia controllano l'intero sistema economico. Controllano le risorse, la finanza, la tecnologie, la cultura, la politica, in termini elettorali sono i boss sia della sinistra che della destra. Ma adesso c'è spazio per larghe alleanze tra un paese e l'altro, alleanze anti-oligopolistiche e anti-plutocratiche, almeno in Europa. Negli Usa non credo, perché la cultura dello pseudoconsenso lì è dominante. Non è infatti una sorpresa che il G20 sia stato seguito subito dal meeting della Nato, a fine maggio a Strasburgo. Il G20 è stato una totale mascherata, con Obama, Brown, Sarkozy e Merkel in totale accordo su un solo obiettivo, restaurare il sistema finanziario così com'era. E qui arriva la Nato: la sola decisione presa non è quella di cominciare il ritiro dal Medioriente ma di rafforzare la presenza in Afghanistan. Significa che hanno scelto, che Obama ha scelto, la linea dura di Bush.
Scelta temporanea o definitiva? Lo chiedo perche quelle guerre Obama le ha ereditate.
La scelta di Obama, è quella dell'establishment dominante. Bush è stato tanto brutale e stupido da rendere difficile la legittimazione delle sue scelte, Obama non esce da quelle scelte ma le presenta in modo diverso. E' una persona pericolosa, molto pericolosa, particolarmente per gli europei che nei suoi confronti hanno un atteggiamento così naïf.
Cosa pensi del rapporto della commissione Onu guidata dal premio Nobel Stiglitz?
È stato quello che mi aspettavo: niente. Forse, e dico forse, essi comprendono che restaurare il sistema implica prepararsi a muovere dal dollaro (anzi nemmeno il dollaro ma il «petro-Cia-esercito Usa-Nato-dollaro») verso qualcosa di più utilizzabile. Questa è la parte naïf di Stiglitz, che il capitalismo possa essere benevolo. Gli oligopoli non rinunciano ai superprofitti, eccetto se ne sono costretti.
Chi li può costringere?
Il sud, i movimenti globali, la popolazione del nord.
Anni fa il New York Times chiamò il movimento globale «la seconda superpotenza». Che ora sembra sparita, almeno in occidente.
Volevano appiattirla, per far restare il movimento ciò che era: frammentato, depoliticizzato e per questo poco efficiente, perché la protesta delle vittime continuasse a restare politicamente maneggiabile. Se i movimenti avessero prodotto alternative positive, o una strategia convergente che potrei riassumere in «sconfiggere il Wto e l'esercito americano»...Ma ormai le vittime non sono più soltanto lavoratori che perdono il posto ma anche middle class, o piccole e grandi imprese subordinate a forza dall'oligarchia, attraverso la finanza e l'accesso limitato alle risorse naturali.

venerdì 19 giugno 2009

Referendum beffa, 50 buoni motivi per astenersi

21 giugno
Referendum beffa, 50 buoni motivi per astenersi
Da Micromega

Le ragioni per per astenersi e far fallire il referendum elettorale in 50 punti; e tutti i punti si riassumono in uno solo: salvare la democrazia.
"Per questo diciamo no al referendum elettorale, non andando a votare dove si vota solo per il referendum, o rifiutando le schede del referendum se chiamati alle urne per il ballottaggio che si terrà in diversi comuni e province" (punto n. 50)

Prima parte: considerazioni sulla vigente legge elettorale

1. Siamo tutti scontenti della vigente legge elettorale, unanimemente denominata “porcellum” con la quale si è votato nelle ultime due tornate elettorali (2006 e 2008).

2. Due sono i principali aspetti negativi di questa legge: le liste bloccate ed il premio di maggioranza.

3. Questa legge, attraverso le liste bloccate, ha espropriato gli elettori di ogni residua possibilità di scegliere i propri rappresentanti in Parlamento, conferendo a una ristrettissima oligarchia di persone (i capi dei partiti politici) il potere di determinare al 100% la composizione delle Assemblee legislative.

4. Con questo sistema elettorale i nomi dei candidati sono persino scomparsi dalla scheda elettorale, con la conseguenza che le scelte dei candidati operate dai capi dei partiti non possono in alcun modo essere censurate, sconfessate o corrette dal corpo elettorale.

5. Di conseguenza tutti i “rappresentanti del popolo” sono stati nominati da oligarchie di partito svincolate da ogni controllo popolare.

6. In questo modo gli eletti, più che rappresentanti del popolo, sono – anche in senso tecnico – dei delegati di partito, anzi del capo politico che li ha nominati, al quale sono legati da un vincolo di fedeltà estremo, restando così fortemente pregiudicato il principio sancito dall’art. 67 della Costituzione che prevede che “ogni membro del parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”.

7. Il premio di maggioranza è un meccanismo truffaldino che interviene a manipolare la volontà espressa dagli elettori, trasformando – per legge – una minoranza in maggioranza.

8. Un sistema così fortemente distorsivo della volontà popolare non esisteva neppure nella c.d. “legge truffa” del 1953, che prevedeva che, per ottenere il premio di maggioranza, occorresse ottenere almeno la maggioranza dei voti popolari.

9. Con la legge truffa per conseguire il premio di maggioranza, che mirava a rendere più stabile il governo, occorreva godere del consenso della maggioranza degli elettori; la legge vigente, invece, trasforma una minoranza in maggioranza (attribuendole per legge il 54% dei seggi alla Camera) e sancisce il principio che per governare non occorre il consenso della maggioranza degli elettori.

10. La vigente legge elettorale ha introdotto delle soglie di sbarramento per l’accesso alla Camera ed al Senato che, se appaiono ragionevoli per i partiti che si riuniscono in coalizione (2% alla Camera e 4% al Senato), sono del tutto irragionevoli per i partiti esclusi dalle coalizioni (4% alla Camera e 8% al Senato). In questo modo milioni di elettori vengono esclusi dalla possibilità di essere rappresentati in Parlamento.
11. Infine la vigente legge elettorale, con l’indicazione sulla scheda del candidato alla presidenza del Consiglio, introduce una sorta di investitura popolare del Capo politico, mortificando il ruolo del Presidente della Repubblica a cui la Costituzione assegna il compito di nominare il Presidente del Consiglio.

Seconda Parte: quali modifiche introduce il referendum, con quali conseguenze

12. Il referendum proposto non corregge nessuno dei difetti del “porcellum” ma, al contrario, li aggrava, esaltandone le conseguenze negative.

13. Il referendum non restituisce agli elettori il potere di scelta dei propri rappresentanti politici, che la legge vigente ha sequestrato per conferirlo nella mani dei partiti, conservando le liste bloccate.

14. Il referendum propone sostanzialmente due modifiche della vigente legge elettorale: a) attribuisce il premio di maggioranza alla lista che abbia ottenuto anche un solo voto in più delle altre liste concorrenti, abrogando la possibilità che il premio venga attribuito ad una coalizione di partiti; b) determina il raddoppio delle soglie di sbarramento confermando per tutti la soglia del 4% alla Camera dei Deputati e dell’8% al Senato (che la legge attuale impone soltanto ai partiti non coalizzati)

15. Le conseguenze che verrebbero fuori dalla legge elettorale modificata dal referendum sarebbero nefaste per la democrazia e ne sovvertirebbero il metodo basilare per il quale le decisioni si prendono a maggioranza.

16. La nuova disciplina elettorale sancirebbe il principio che il potere di governo spetta ad una minoranza e deve essere consegnato nelle mani di un solo partito, a prescindere dal livello del consenso popolare ricevuto

17. Infatti, attribuire il premio di maggioranza ad una sola lista determina un incremento esponenziale del premio stesso, sovvertendo il rapporto fra i voti espressi ed i seggi ottenuti.

18. Nelle elezioni del 2006, a fronte di una ampia coalizione di forze politiche, che ottenne alla Camera il 49,8 %, il premio di maggioranza è stato del 4 %. Nelle elezioni del 2008, a fronte di una coalizione meno ampia, che ottenne il 46,8%, il premio di maggioranza è stato del 7%. Se si fosse votato nel 2008 con il sistema elettorale proposto dai referendari, la lista più votata (il PdL) con il 37,4% dei voti, avrebbe ottenuto il 54% dei seggi, cioè si sarebbe giovata di un premio di maggioranza del 16,6%. Vale a dire a un solo partito sarebbe stata attribuita dalla legge elettorale quasi il 50% in più della rappresentanza che gli sarebbe spettata in base ai voti ricevuti dagli elettori (cioè gli sarebbero spettati oltre 100 seggi in più rispetto ai voti ricevuti) .

19. Con questo sistema viene attribuito ad una singola lista un premio di maggioranza di proporzioni inusitate, che può consentire ad un singolo partito di ottenere in Parlamento una rappresentanza doppia rispetto al consenso ricevuto, a danno di tutti gli altri partiti e di tutti gli altri elettori.

20. La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 15/2008, pur dichiarando ammissibile il referendum elettorale, ha adombrato un pesante sospetto di incostituzionalità segnalando al Parlamento: “l’esigenza di considerare con attenzione gli aspetti problematici di una legislazione che non subordina l’attribuzione del premio di maggioranza al raggiungimento di una soglia minima di voti e/o di seggi.”

21. Attraverso questo spropositato premio di maggioranza resta pregiudicato il principio costituzionale che il voto è uguale per tutti. Non tutti i cittadini saranno uguali nel voto perché il voto di taluni varrà il doppio rispetto al voto degli altri, tanto da consentire a una minoranza di diventare ex lege maggioranza e di fondare il governo non più sul consenso della maggioranza, ma su quello di una minoranza del corpo elettorale.

22. L’ulteriore effetto negativo è quello della riduzione forzata del pluralismo politico dovuta all’effetto combinato dell’incremento del premio di maggioranza e delle soglie di sbarramento.

23. Il corpo elettorale, proprio per la presenza di un così grave e destabilizzante premio di maggioranza, sarà costretto ad orientare le sue scelte sulle due principali liste in competizione. Ciò indebolirà tutti gli altri partiti, rendendo ancora più difficile superare lo sbarramento delle soglie raddoppiate dalla disciplina risultante dal referendum.

24. In questo modo dal bipolarismo forzato si passerà a un bipartitismo forzato, non determinato da scelte genuine del corpo elettorale, ma imposto dalle costrizioni del sistema elettorale

25. Questa situazione mortificherà ulteriormente la rappresentanza, riducendo la possibilità che il corpo elettorale possa ottenere che nel sistema politico siano rappresentati i bisogni, le esigenze, le culture ed i valori presenti nel popolo italiano.

26. In questo modo verrà introdotta, di fatto, una sorta di democrazia dell’investitura al posto della democrazia fondata sulla rappresentanza e la partecipazione dei cittadini come prevista dalla Costituzione.

27. La riduzione del pluralismo politico nelle assemblee legislative e la posizione di rendita assicurata a un solo partito politico, metterà a rischio la Costituzione, consegnandone il destino nelle mani di una sola parte politica.

28. L’attuale maggioranza politica, infatti, non può modificare a suo piacimento la Costituzione perché non dispone della maggioranza dei due terzi richiesta per escludere il referendum sulle leggi di modifica della Costituzione.

29. Se si fosse applicata alle elezioni del 2008 la legge elettorale con le modifiche proposte dai referendari, con lo stesso numero di voti, le forze politiche della attuale maggioranza (PDL + Lega) disporrebbero di circa il 62% dei seggi alla Camera. Con un piccolo sforzo potrebbero ottenere la maggioranza di due terzi necessaria per cambiare la Costituzione senza dover affrontare il giudizio del popolo italiano attraverso il referendum.

30. In questo modo si realizzerebbe una sorta di dittatura della minoranza, in quanto un solo partito, senza avere il consenso della maggioranza del popolo italiano, avrebbe nelle sue mani il controllo del Governo e la possibilità di eleggere – da solo – il Presidente della Repubblica, mentre una sola parte politica (cioè il partito beneficiato dal premio di maggioranza più i suoi alleati) avrebbe la possibilità di nominare i giudici della Corte Costituzionale e di modificare a suo piacimento la Costituzione.

31. Gli effetti che il referendum produrrebbe sul sistema politico sono stati già parzialmente sperimentati nelle elezioni politiche del 2008, quando i capi dei due principali partiti in competizione hanno deciso di restringere le coalizioni, limitandole ad una alleanza fra due soli partiti. In questo modo i partiti esclusi dalla possibilità di competere per il premio di maggioranza hanno perso una parte del loro genuino consenso elettorale e sono stati stroncati dal raddoppio delle soglie di sbarramento alla Camera ed al Senato.

32. In conseguenza di questa interpretazione delle legge elettorale sulla scia del modello proposto dal referendum, circa tre milioni di persone hanno perso ogni forma di rappresentanza in Parlamento, sono stati, pertanto, esclusi dal circuito della democrazia, mentre il tasso di astensionismo è cresciuto, essendo diminuita la partecipazione al voto dall’83,6% (2006) all’80,5% (2008).

33. Questa situazione di espulsione dal circuito democratico di milioni di persone, che abbiamo già sperimentato nelle elezioni del 2008, non sarebbe corretta dalle conseguenze del referendum, al contrario essa sarebbe ulteriormente aggravata perché le soglie di sbarramento raddoppiate varrebbero in ogni caso e per tutti i partiti.

34. Il sistema elettorale prefigurato dal referendum non esiste in nessun ordinamento di democrazia occidentale ma non rappresenta una novità assoluta nel nostro paese. Esso infatti si ispira alla legge “Acerbo” voluta da Mussolini, ed è stato già sperimentato nella storia d’Italia con le elezioni del 1924 che, schiacciando l’opposizione e le minoranze, aprirono la strada alla dittatura fascista.

35. Tuttavia la legge Acerbo era più democratica della disciplina che viene fuori dal referendum. Essa, infatti prevedeva che per accedere al premio di maggioranza, la lista più votata dovesse comunque superare la soglia del 25% dei voti e non imponeva soglie di sbarramento.

36. Per questo nel Parlamento del 1924 ebbero accesso – sia pure a ranghi ridotti - tutte le forze d’opposizione, mentre nel Parlamento repubblicano eletto nel 2008 con il metodo referendario, le opposizioni sono state drasticamente falcidiate.

37. Una situazione simile a quella del 1924 si produrrebbe di nuovo in Italia se venisse approvato il referendum.

38. Il principio democratico della rappresentanza verrebbe colpito a morte perché non vi è rappresentanza senza pluralismo e senza la libertà del corpo elettorale di scegliere le persone e le forze politiche da cui farsi rappresentare. Di conseguenza verrebbe meno il carattere democratico della forma di Governo.

39. Si produrrebbe quindi, attraverso la riforma elettorale, una riforma di fatto della Costituzione.

40. Il modello di democrazia, concepito dai padri costituenti, fondato sul pluralismo, sulla centralità del Parlamento e sulla partecipazione popolare dei cittadini associati in partiti, verrebbe definitivamente stravolto e sostituito da un ordinamento oligarchico.

Terza parte: come opporsi al referendum beffa

41. Per non tornare al 1924 bisogna respingere il referendum, utilizzando gli strumenti che la Costituzione ha messo a disposizione del corpo elettorale.

42. I Costituenti hanno previsto che i proponenti del referendum abrogativo devono superare una doppia soglia di consenso per poter raggiungere lo scopo dell’abrogazione delle norme prese di mira. Per questo la Costituzione prevede che la proposta è approvata soltanto se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi.

43. A differenza che nelle elezioni politiche, che mirano al rinnovo di assemblee politiche le quali devono necessariamente essere rinnovate, nel referendum il voto non è un dovere civico, in quanto la proposta di abrogazione non deve necessariamente essere approvata o respinta. Nel referendum gli elettori scelgono liberamente se andare o non andare a votare, a seconda dei risultati che vogliono conseguire.

44. Questa volta la chiamata degli elettori alle urne per il referendum nasconde un inganno: essa sfrutta l’insoddisfazione generale che tutti noi nutriamo verso questa legge elettorale (il porcellum) per spingerci ad un voto che, qualunque sia il risultato, non può avere altro effetto che quello di rafforzare il porcellum.

45. Infatti, se prevalessero i no, l’effetto sarebbe quello paradossale di offrire ai fautori dell’attuale legge elettorale imposta dalle oligarchie il destro di dire che la legge avrebbe avuto l’avallo di un voto popolare.

46. Se prevalessero i si, l’effetto sarebbe quello di blindare l’attuale legge elettorale, nella versione peggiorata proposta dai referendari. Il parlamento difficilmente potrebbe metterci mano per effettuare delle modifiche, sia perché gli si potrebbe obiettare di essere vincolato dalla volontà popolare espressa attraverso il voto referendario, sia perché la legge così modificata piacerebbe ancora di più alla maggioranza che vuole restringere gli spazi e le opportunità della democrazia.

47. Per questo si tratta di un referendum beffa: chiama alle urne dicendo di voler ammazzare il porcellum, ma in realtà lo ingrassa e lo rende intoccabile, qualunque sia la risposta al quesito referendario.

48. L’unico modo per non essere beffati, per dire NO alla proposta referendaria, è quello di disubbidire alla chiamata alle urne che i proponenti vogliono imporre al popolo italiano.

49. E’ questa l’unica strada per lasciare aperta la possibilità di una riforma elettorale che restituisca agli elettori i poteri che sono stati loro confiscati con il porcellum.

50. Per questo diciamo No al referendum elettorale, non andando a votare, dove si vota solo per il referendum, e rifiutando le schede del referendum, se chiamati alle urne per il ballottaggio che si terrà in diversi comuni e province.

(16 giugno 2009)

Francesco Somaini: Sulle prospettive politiche generali (risposta a Martinotti)

Sulle prospettive politiche più generali, l'idea che una qualche forma
di apparentamento col PD rappresenti la sola chance perseguibile per i Socialisti, e più in generale per chi si sente di Sinistra mi pare che non stia proprio in piedi.

Lasciamo pur stare tutte le critiche che si possono fare al progetto del PD
e alla sua assoluta insipienza.
Lasciamo pur perdere il discorso sul fatto che il PD non è né carne né
pesce, e che la sua unica ragion d'essere sembra essere quella di perpetuare
un ceto politico che dovrebbe essere stato mandato a casa da un pezzo.
Lasciamo pur stare i ragionamenti sul fatto che ovunque, in Europa, ad
uscire sconfitte da queste elezioni sono state in realtà tutte quelle
esperienze di Sinistra moderata (per lo più di estrazione socialista, ahimé)
che hanno puntato negli anni passati ad annacquarsi nelle varie "terze vie"
(di cui il PD rappresenta in qualche modo l'epitome).
Lasciamo pur perdere, ancora, il discorso sul fatto che il PD ha resuscitato
Berlusconi; e anche quello sul fatto che il PD è oggettivamente il puntello
di cui Berlusconi ha bisogno.
Lasciamo stare il fatto che il PD è un partito realmente democratico allo
stesso modo in cui mio nonno era un tram.
Dico: lasciamo stare tutto questo. E lasciamo anche stare anche il discorso
sul fatto che comunque i candidati socialisti nel PD non sarebbero proprio
passati (come argomenta persuasivamente Luciano Belli Paci).

Limitiamoci invece ad una banale lettura dei numeri.
Il PD perde rispetto alle politiche dell'anno scorso più di 4 milioni di
voti. Ne aveva poco più di 12 milioni alle politiche, ne ha presi, ora, poco
meno di 8 milioni.

Questi voti non sono andati a Destra: il PDL ha perso infatti anche lui
quasi 3 milioni di voti rispetto all'anno scorso, e la Lega ne ha guadagnati
solo 100.000.
I voti che il PD ha perso sono voti che sono rimasti a casa (in gran parte);
e sono voti che sono andati a Sinistra (in misura non trascurabile).

I partiti variamente collocati a Sinistra del PD (IDV, i Comunisti, SL, i
radicali, e gli ultra-comunisti di Ferrando) alle ultime europee hanno
preso - sommandoli tutti - poco meno di 5 milioni e mezzo di voti, pari
circa al 17.5 % dei voti espressi.
Qualcuno dirà che i radicali (coi loro 750 mila voti) non possono essere
messi a Sinistra del PD, e che i comunisti di Ferrando (con 160 mila voti)
non sono da contare perchè irriducibili.
E sia pure: arriviamo pur sempre a 4 milioni e mezzo di voti e a una
percentuale non molto sotto al 15 % (per l'esattezza 14,47).
Rispetto alle politiche (dove pure avevano votato 36 milioni e mezzo di
elettori, contro i 32 milioni e mezzo che hanno votato stavolta), la
crescita di ques'area è innegabile.

Nel 2008, infatti, IDV, Sinistra Arcobaleno e Socialisti, tutti insieme, non
arrivavano a 3 milioni di voti ed erano sotto all'8,5 %. Anche mettendoci
dentro le liste piu sgrause, come i "Grilli Parlanti", l'"Unione dei
Consumatori" e altri minimi, le cose non cambiano di gran che.
In un anno le formazioni a Sinistra del PD sono salite di più di 1 milione e
mezzo di voti (e di più di 2 milioni se ci aggiungiamo i radicali): e questo pur
in un quadro di calo sensibile dell'affluenza.

Ora, sarà che stavolta non c'era il giochetto del voto utile, ma lo
spostamento a Sinistra di una parte consistente dell'elettorato che aveva
creduto nel PD alle ultime politiche, è evidente.
E c'è anche da credere che tra quei 4 milioni di elettori che questa volta
non sono andati a votare, molti (almeno una buona metà) siano elettori di
Centro-Sinistra delusi dal PD, ma forse non irrecuperabili da una Sinistra
maggiormente credibile.
E badate che non sto nemmeno a ragionare su quegli
altri 3 milioni e mezzo di elettori che già avevano votato per la coalizione
di Prodi nel 2006 e che nel 2008 non hanno votato per nessun partito di
Centro-Sinistra (senza peraltro accrescere i voti della Destra).

Insomma, i dati dicono che da quando esiste il PD, il Centro-Sinistra è
andato perdendo vagonate di voti a ogni elezione. E dicono anche che mentre a Sinistra
si sono visti buoni margini di recupero, il PD non sembra oggettivamente in
grado di invertire questo processo.
Lo smottamento di questo partito è in realtà già cominciato, e sarà
difficile a mio avviso che si possa fermare.

La sfida pertanto non è salvare il PD, o salire sul carro del PD. La sfida è
costruire un'area credibile a Sinistra del PD.
Il problema infatti è che quest'area politica che ha sfiorato alle europee
il 15 % (superando il 17 se ci mettiamo anche i radicali), e che potrebbe
arrivare tranquillamente al 20 % dell'elettorato, appare oggi frantumata, in
Italia, tra troppe formazioni minori.
In un'area che ha raccolto alle europee 5 milioni e mezzo di voti, solo
l'IDV (con i suoi 2 milioni e mezzo di voti) appare oggi al di sopra della
soglia del 4 %. Gli altri sono sotto.
Non va bene.

Il punto è allora quello di dare a quest'area frantumata una
possibilità di compattarsi in qualche maniera.
Non dico (né penso) che sia possibile mettere assieme proprio tutti.
So bene infatti che le differenze sono enormi, e che per giunta si tratta di
far dialogare un mondo cui è consustanziale la propensione a fare dei
distinguo.
A Destra in realtà sono capaci di farsi andare bene tutto: laici che votano
leggi medievali, liberali che appoggiano neonazisti, arcigni difensori della
famiglia cattolica che non si scompongono di fronte al baldraccume di
Papi... Di ogni. A Destra (purché se magna) sembra che tutto possa andar
bene.
A Sinistra invece siamo (e direi anche giustamente) molto più puntigliosi.
Ci piacciono i distinguo.
E però credo che uno sforzo nella direzione del superamento delle divisioni
vada davvero compiuto. Partirei possibilmente dall'area di Sinistra e
Libertà (che sarebbe un errore mandare a ramengo); ma mi porrei
immediatamente anche il problema di allargare lo spettro degli interlocutori
(senza intestardirsi sulla questione delle identità, senza porre voti a
priori...). Laicità, democrazia, Stato sociale, legalità: sono convinto che
molte distanze possano in realtà essere colmate.

L'alternativa, viceversa, è che si finisca come in quel film dei Monty Phiton
("Brian di Nazareth"), dove, nella Giudea schiacciata dall'occupazione
romana, c'è quel personaggio del "Fronte di Liberazione della Giudea" che
dice : "Il nostro peggior nemico? Sono quelli del Fronte di Liberazione
Giudeo".

Un saluto,
Francesco Somaini

Francesco Somaini: Sul voto a Penati

Sul voto a Penati.

Non sono per niente un estimatore entusiasta di Filippo Penati.
In linea di massima infatti, e al di là di alcune eccezioni, non mi è
piaciuto come Penati ha governato la Provincia di Milano.

Non che abbia seguito la cosa con l'acribia che sarebbe necessaria in questi
casi. E però, da semplice osservatore, ho avuto l'impressione di
un'amministrazione francamente troppo incline a dialogare con i poteri
forti. Mi è parso infatti che Assolombarda sia stata per Penati un
interlocutore assolutamente privilegiato, e mi è parso di cogliere anche un
certo qual occhio di riguardo verso i pessimi ciellini della Compagnia della
Opere (ove è noto del resto che si trovano in posizioni di grande
responsabilità alcuni ex-miglioristi, un tempo molto vicini allo stesso
Penati).

Lo "stile Penati", in altre parole, non mi esalta.
'O presepio num me piace.
E ancora meno, se devo dirla tutta, mi piace quel che immagino che Penati ed
i suoi fans verranno fuori a dire se dovessero vincere il ballottaggio (le
solite fregnacce del tipo "è stata premiata la scelta di rompere a
Sinistra", "il buon governo paga", e via discorrendo).

Ciò premesso, riconosco però che il vecchio detto del Wyoming citato da
Martinotti ha oggettivamente una sua pregnanza e una sua validità.
C'è un orso che ci insegue.
Perciò (pur turandomi il naso) mi metterò a correre e voterò Penati senza
andare troppo per il sottile. E suggerisco a tutti di fare la stessa cosa.
Un saluto,
Francesco Somaini

Giuseppe Chiarante - Il Pd e il referendum contro il popolo

Eddyburg.it - Il Pd e il referendum contro il popolo

Segnalazione: 24 giugno, omaggio a Ivan Della Mea

L'Associazione Culturale
Casa della Poesia al Trotter


Presenta una doppia serata


24 giugno 2009
Auditorium ex Chiesetta del Trotter

h. 18.30 - 19.30
Poesia (desiderio) e realtà
presentazione del nuovo numero della rivista
“La mosca di Milano”
a cura di
Gabriela Fantato


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h. 21.00
Costa poco piangere, capire costa di più
omaggio ad Ivan della Mea
introduce
Vincenzo Viola
“Poesia e lotta”

Contributi di
Abate, Giusi Busceti, Roberto Carusi, Paolo Ciarchi, Giordano dall’Armellina, Gabriela Fantato, Pierluciano Guardigli, Franco Loi, Angelo Lumelli, Franca Nolo, Giancarlo Nostrini, Claudio Piccoli, Nereo Rapetti

Ingresso libero

la presidente dell’Associazione
Casa della Poesia al Trotter
Giusi Busceti


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Francesco Maria: Dahrendorf

«I paesi dell’OCSE, per dirla in modo molto diretto e sbrigativo, hanno raggiunto un livello di sviluppo in cui le opportunità economiche dei loro cittadini mettono capo a scelte drammatiche. Per restare competitivi in un mercato mondiale in crescita devono prendere misure destinate a danneggiare irreparabilmente la coesione delle rispettive società civili. Se sono impreparati a prendere queste misure, devono ricorrere a restrizioni delle libertà civili e della partecipazione politica che configurano addirittura un nuovo autoritarismo. O almeno questo sembra essere il dilemma. il compito che incombe sul primo mondo nel decennio prossimo venturo è quello di far quadrare il cerchio fra creazione di ricchezza, coesione sociale e libertà politica. La quadratura del cerchio è impossibile; ma ci si può forse avvicinare, e un progetto realistico di promozione del benessere sociale probabilmente non può avere obiettivi più ambiziosi.» Ralf Dahrendorf, Quadrare il cerchio, 1995.

(...)" Si dovrebbe quindi verificare un ritorno all'etica protestante di beata memoria? È possibile un tale ritorno? La risposta all'ultima domanda non può che essere: probabilmente no. (...) Non ci sarà quindi nessun ritorno all'etica protestante. E tuttavia un ravvivamento delle antiche virtù è possibile e auspicabile. Il paradosso del capitalismo di cui parla Daniel Bell non potrà sparire del tutto: il motore del capitalismo moderno fonda su preferenze che i metodi del capitalismo moderno non contribuiscono a rafforzare. Per formularla in maniera meno astratta: lavoro, ordine, servizio, dovere rimangono i prerequisiti del benessere; ma lo stesso benessere significa piacere, divertimento, desiderio e distensione. Gli uomini lavorano duro per creare beni che in senso stretto sono superflui.
Non torneremo al capitalismo di risparmio, ma a un ordine in cui il soddisfacimento dei bisogni è coperto dal necessario valore aggiunto. Il capitalismo di debito deve essere ricondotto a una misura sopportabile. È necessario qualcosa come un "capitalismo responsabile", sebbene nel concetto di responsabilità è necessario che risuoni soprattutto la prospettiva di medio periodo, ovvero quella di un nuovo rapporto col tempo. (...) È importante che tra pacchetti congiunturali e schemi di salvataggio non si perda di vista il dopo-crisi, perché in questi anni si decide in quale tempo vivrà la prossima generazione di cittadini delle società libere." Ralf Dahrendorf, Il mondo che verrà ha radici antiche, (IlSole24Ore, 26 aprile 2009)

Ralf Dahrendorf, Quadrare il cerchio ieri e oggi
Ralf Dahrendorf, Libertà attiva
Ralf Dahrendorf: il mondo che verrà ha radici antiche (ilSole 24Ore)
Ralf Dahrendorf: biografia su Wikipedia

Alice Frei: Esiste una "questione giovanile"?

Aprileonline.info: Esiste una "questione giovanile"?

giovedì 18 giugno 2009

Riccardo Nencini: Sinistra e libertà

Oggi alle 13.39
Rispondi
di Riccardo Nencini
Il 3,1 % dei voti, un milione di elettrici ed elettori, non sono pochi. Grazie alla legge “salva Veltrusconi” – quella dello sbarramento elettorale al quattro per cento, varata in due settimane da un Parlamento che il Premier ritiene lento e inconcludente – non saranno rappresentati nell’Assemblea legislativa della Comunità Europea. Resta, tuttavia, un numero rilevante, un consenso importante concesso a un’idea che ha avuto poco tempo per palesarsi e quasi nessuno spazio sui media. Un patrimonio che non deve essere disperso.
Sinistra e Libertà è stata prima un’emergenza, poi un’intuizione e un’idea: l’idea della nuova sinistra italiana, laica e pragmatica, ambientalista e innovativa nella scia della migliore tradizione del movimento democratico e socialista europeo. Non crediamo d’ingannarci nel dire che la risposta dell’elettorato ci spinge a proseguire il cammino. Occorre ora individuare il percorso da seguire ed occorre farlo con grande lucidità.
Sinistra e Libertà non dovrà essere né ex né post: dovrà anzi somigliare alla storia scritta all’inizio degli anni ’70 ad Epinay, alle porte di Parigi. Dovrà essere una sinistra capace di parlare a larghi settori della società italiana qualificandosi, in primo luogo, quale forza che intende assumere l’onere di governare le tante complessità del sistema Italia. Occorre poi, per passare dall’idea al progetto, lavorare attorno a due nodi ineludibili per qualsiasi forza politica: la questione della modalità organizzativa e quella dell’identità programmatica.
Nessuno può pensare, oggi, di riproporre un partito vecchio stile, fatto di sezioni e federazioni, di vincoli gerarchici stretti di natura orizzontale e verticale. Nessuno può pensare di riproporre un partito chiuso e di appartenenza. La scommessa è di federare sotto le insegne di Sinistra e Libertà le tante e diverse esperienze che si sono prodotte nel campo della sinistra italiana. Associazioni e Club, riviste e periodici locali, frammenti delle organizzazioni dei vecchi partiti, eletti nelle istituzioni, dovranno essere inseriti e trovare “cittadinanza” in una rete di tipo nuovo, ordinata da regole chiare e che prevedano un costante coinvolgimento nelle decisioni e nella sintesi del corpo dei militanti. Dovrà essere una organizzazione aperta ai propri elettori e alla società e prevedere ampie consultazioni sia per la scelta dei propri candidati ai vari gradi di elezione che per la scelta dei propri dirigenti. Per necessità e utilità dovrà essere un soggetto plurale che valorizza le diversità invece che sottolinearle come estraneità. Dovrà, infine, essere fortemente vocato alla comunicazione, a trasmettere agli italiani i propri valori, le proprie idee e le soluzioni proposte.
Per costituire una reale alternativa di governo, dovrà lavorare molto attorno ad un programma e a linee di politiche pubbliche innovative e convincenti.
Le forze che hanno creato Sinistra e Libertà condividono alcuni valori di fondo – dalla lotta alle diseguaglianze alla ricerca delle pari opportunità di partenza per ognuno, dal contrasto alle oligarchie e alle corporazioni, all’attenzione verso i diritti civili e sociali – che occorre trasferire in proposte concrete valide per l’oggi. Le grandi trasformazioni economiche e sociali degli ultimi decenni hanno completamente mutato i termini della questione sociale otto e novecentesca nonché quelli delle modalità organizzative e di funzionamento delle democrazie parlamentari e degli apparati pubblici statuali. Diseguaglianze e ingiustizie sociali si situano oggi in faglie diverse rispetto al passato (garantiti e non garantiti, dipendenti pubblici e dipendenti privati, giovani generazioni e vecchie generazioni), così come la prima emergenza democratica è oggi rappresentata dal sistema dell’informazione, dai suoi assetti proprietari e dalla tendenza al conformismo che pare attraversare la categoria dei giornalisti.
Il mutamento occorre governarlo e per sperare di dare il massimo delle opportunità possibili al maggior numero di persone dobbiamo individuare le soluzioni giuste.
Sinistra e Libertà dovrà occuparsi “d’immaginare” un’Italia migliore dell’attuale con un’informazione forte, libera, autonoma e critica, un sistema istituzionale con “più governo e più rappresentanza”, un’economia libera di crescere senza troppi vincoli burocratici ma con regole chiare che garantiscano trasparenza societaria ed eticità di comportamenti, un sistema di protezioni sociali efficiente e accompagnato dalla capacità di dare a ognuno nuove opportunità. Sinistra e Libertà dovrà lavorare per avere una sanità fatta per il benessere dei cittadini e non per le baronie mediche, un sistema dell’educazione e della ricerca forte, strutturato sul pubblico ma capace di valorizzare tutte le esperienze di valore. Dovrà presidiare le frontiere della laicità e dei diritti civili ma dovrà parlare anche di doveri individuali e collettivi e di responsabilità.
Se Sinistra e Libertà saprà incamminarsi su questo percorso riallacciandosi al suo progetto originario, i socialisti saranno fieri di averla pensata e costruita. Una nuova storia da collocare tra Partito Democratico e Radicali dove stare con autonomia. Senza fretta e con gli occhi ben aperti sullo scenario della politica italiana

LO SVILUPPO ECOSOSTENIBILE - parte 2 su Socialismo

LO SVILUPPO ECOSOSTENIBILE - parte 2 su Socialismo

Carlo Felici: Ma il sole nascente dovrà sorgere ancora

Movimento Radicalsocialista - Ma il sole nascente dovrà sorgere ancora

Pierfranco pellizzetti: Imparare a essere giovani

micromega - micromega-online » Imparare a essere giovani

Alberto Asor Rosa: Gli smemorati di sinistra

Gli smemorati di sinistra
Data di pubblicazione: 17.06.2009

Autore: Asor Rosa, Alberto

«Con l'articolo che segue il manifesto (17 giugno 2009) apre una discussione sul futuro dei ‘sinistrati’».

Il 15 gennaio 2005, preceduta da una campagna di stampa sul manifesto durata sei mesi, alla quale parteciparono le personalità più rilevanti della sinistra italiana, politici e intellettuali, si riunisce alla Fiera di Roma una grande Assemblea nazionale.Un'assemblea, affollatissima ed entusiastica, che darà vita a quella che qualche giorno più tardi si definirà, - modestamente e ambiziosamente insieme - «Camera di consultazione della sinistra».

Compiti espliciti e teorizzati del neonato organismo sono: a) la riformulazione di un organico programma della sinistra radicale italiana, quale non era ancora uscito dalla fase convulsa post-1989; b) l'intenzione di mettere a confronto continuo ed organico società politica e società civile, politici e intellettuali, partiti e associazionismo, secondo una modalità, da tutti a parole auspicata, di «democrazia partecipativa»; c) l'avvio di un processo di fusione delle forze organizzate della sinistra radicale, allora molto più consistenti di oggi (nel titolo redazionale del mio articolo del 14 luglio 2004, con cui il manifesto dette inizio alla campagna suddetta, vi si accennava in forma interrogativa ma chiara: «Che fare di quel 15%?»). Aderirono in maniera attiva, oltre a molte associazioni politiche e culturali di base (mi piace ricordare con particolare rilievo il fiorentino «Laboratorio per la democrazia»), Rifondazione comunista, i Comunisti italiani, una componente significativa dei Verdi (Paolo Cento e altri). Vi svolsero un ruolo non irrilevante la Fiom e l'Arci. Vi partecipa attivamente Occhetto. Dà un contributo insostituibile Rossanda. Alle riunioni tematiche intervengono o collaborano Rodotà, Tronti, Ferrajoli, Dogliani, Magnaghi, Ginsborg, Serafini, Bolini, Lunghini, Gallino e altri.

Quando nell'aprile 2005 si tratta di fare un passaggio decisivo, - quello che consiste nel «mettere in comune» un certo numero di temi da discutere e di decisioni da prendere («dichiarazione d'intenti»), - nel corso di un'animata riunione presso la Casa delle culture di Roma, Fausto Bertinotti, improvvisamente e calorosamente, se ne chiama fuori. Una gentile signora, sua fedelissima, abbandonando la sala, mi passa accanto e affettuosamente mi sibila: «Bella come esperienza intellettuale ma la politica è un'altra cosa».

Mi rendo conto, naturalmente, che ognuno che abbia preso parte, attivamente e convintamente, ad una qualche esperienza, sia spinto ad attribuirle un'importanza eccessiva. Mi pare però che, obiettivamente, sia legittimo, a partire da questa, anche personale, disfatta, porre almeno due domande: 1) Quale altro serio tentativo di perseguire l'«unità della sinistra» è stato fatto successivamente? (spero che a nessuno venga in mente di tirar fuori l'aborto elettoralistico dell'Arcobaleno, che è esattamente il contrario di quel che io pensavo si dovesse fare); 2) è mai possibile che ci si ripropongano di volta in volta gli stessi problemi e non ci si chieda mai quale esperienza ne abbiamo già fatto, positivamente o negativamente, nel (talvolta immediato) passato? (sicché non si sa mai bene di chi e di cosa si parla).

La scelta bertinottiana, giusta o sbagliata che fosse (a me pare, naturalmente, che fosse drammaticamente sbagliata), consisteva nello scegliere senza esitazioni le «ragioni del Partito», del «suo» Partito, ovviamente, che, in base al sacro principio dell'autoreferenzialità del ceto politico italiano (di qualsiasi colore esso sia), coincidevano con quelle sue personali. I risultati delle elezioni del 2006, cui egli guardava, sembrarono perfino dargli ragione. Ma su di un periodo appena un po' più lungo, sono risultate catastrofiche.

Cercherò di dire ora, a scanso di equivoci, perché lo schema logico-politico della «Camera di consultazione», così nostalgicamente richiamato nelle righe precedenti, non sia più oggi riproponibile. Quello, in realtà, era un semplicissimo schema binario: bisognava costruire una sinistra radicale unitaria da affiancare in maniera tutt'altro che subalterna ad una sinistra moderata altrettanto unitaria, allo scopo di governare decentemente il paese, arginando la possente ondata berlusconiana.

Oggi le cose rispetto ad allora si sono estremamente complicate, da una parte come dall'altra (ha ragione Parlato a farlo rilevare). Lo schema binario non regge più, se non nei termini assolutamente generali della coppia «progresso-reazione» (sulla quale tuttavia tornerò più tardi). Le ragioni mi sembran queste: 1)fra le due componenti più consistenti (si fa per dire) della sinistra radicale le divergenze sono strategiche, e dunque incomponibili; 2)le forze che hanno dato vita alla lista «Sinistra e libertà» promettevano all'origine di rappresentare una seria alternativa riformista al, presunto, riformismo della cosiddetta sinistra moderata; da come stanno andando le cose, rischiano di fungere solo, al centro come, soprattutto, in periferia, da gambetta di sinistra del Pd; 3)il Pd non è, come dichiarava di voler essere, il partito della sinistra moderata, o di un centro-sinistra moderato o di un moderato riformismo: è invece un qualcosa che rischia sempre più di sparire come tale per la sua organica incapacità di darsi una fisionomia e un'identità, quali che siano; contemporaneamente, non è più neanche in grado di egemonizzare la sinistra (?) moderata (crescita del dipietrismo); 4)l'autoreferenzialità del ceto politico della sinistra - tutto - è cresciuto in misura feroce in ragione diretta della lotta che esso conduce per la propria sopravvivenza.

Contestualmente, il caso italiano, da «anomalo» qual era, rischia di diventare, come è accaduto altre volte nella storia, «esemplare» a livello europeo. La deriva di destra del Vecchio Continente, che rappresenta la sua patetica ma dura e inquietante risposta ai rischi e alle incertezze, contemporaneamente, della globalizzazione e della crisi (in controtendenza, e questo ne costituisce un ulteriore motivo di debolezza, con le scelte americane), dovrebbe costituire attualmente il vero tema di riflessione per la costruzione di una «nuova sinistra» in Italia e in Europa. Anzi, più esattamente: cosa s'intende per «programma di sinistra» oggi in Italia e in Europa? Come si organizza e «si rappresenta», al di là di ogni ulteriore qualificazione, una «forza di sinistra» oggi in Italia e in Europa?

La domanda è così radicale (e io desidero consapevolmente che lo sia) da riguardare nella stessa misura, anche se con modalità diverse, forze di sinistra moderate e forze di sinistra radicali: i socialdemocratici tedeschi, i socialisti francesi e spagnoli, i laburisti inglesi, i democratici (?) italiani; e la Link in Germania, i verdi in Francia, i «comunisti» e tutti gli altri in Italia. Insomma, nel suo insieme, il «blocco» politico e sociale di forze cui è affidata in Europa la possibile alternativa (qui torna alla fine, naturalmente molto semplificato per ovvii motivi, lo schema binario, che però, lo ribadisco, in questa parte del mondo è ineludibile).

È chiaro che s'apre in questo modo un orizzonte sconfinato di problematiche e di riflessioni, frutto, oltre che della complessità dei problemi, anche dell'immenso e disastroso ritardo con cui vengono affrontati (ammesso che, ora, lo siano). Io penso seriamente che i milioni di astenuti a sinistra si astengano esattamente perché non hanno una risposta a queste domande. C'è un'alternativa già oggi operante, che sostituisca alla lenta e seria fusione una qualche miracolosa formula alchemica? Fatemela vedere, e cambierò opinione.

Cesare Bermani: Piccole e grandi storie

CESARE BERMANI, Piccole e grandi storie
Ieri 17 giugno 2009, 15.04.34 | mangano1
Da IL MANIFESTO


SINISTRA ITALIANA - Le provocazioni di un bastian contrario
Piccole e grandi storie. Dalla Milano anni 50 e 60 all'«Amendoleide»
Con Ivan se ne va una fetta importante della vita di tanti compagni. Difficile, direi impossibile, comprimere in poche righe una personalità così complessa come la sua. Ivan è legato agli anni più belli della mia vita, gli anni 1962-1969 che segnarono lo svilupparsi della ricerca sul campo del canto sociale italiano e della realtà di base, il decollo del Nuovo Canzoniere Italiano, spettacoli come Bella ciao e Ci ragiono e canto, infine lo sfociare di tutto questo nella cultura del Sessantotto. Sia Ivan che io avevamo già alle spalle una milizia nella Federazione Giovanile Comunista, in quegli anni pervasa da un desiderio d'autonomia rispetto al Partito degli adulti. Credo però che sia stato l'incontro con Gianni Bosio a determinare su che binari si sarebbero incanalate le nostre vite. Gianni fu per entrambi un «padre». Grazie a lui io divenni, credo, uno «storico», e Ivan il cantante che meglio e più degli altri assimilò il progetto politico-culturale del gruppo, in particolare il rapporto tra grande e piccola storia, leit motiv dell'opera di Bosio.
Ivan giunse nel gruppo con una drammatica testimonianza autobiografica, cantata con impegno di liberazione, che forse non ha mai completamente raggiunta tanto traumatica era stata la sua esperienza infantile e adolescenziale. La prima volta che comunicò la sua storia familiare riuscì a cantarla solo con la schiena voltata agli ascoltatori e con la faccia rivolta al muro. Poi di quella sua tragedia parlò sempre poco, se non in questi ultimi anni, ma riusciva a farlo solo scherzandoci su, come soltanto riuscivano a raccontare certi reduci dai campi di sterminio. Pochi giorni fa mi disse che finalmente era riuscito a scriverne estesamente in Se la vita ti dà uno schiaffo, pubblicato dalla Jaca Book. Non potei fare a meno di dirgli: «Ce l'hai fatta finalmente!». Quel lungo poemetto in musica che ce lo fece conoscere, pregno di un'intensità sofferente, lo intitolò poi La grande e la piccola violenza. Anticipava di un buon decennio il «personale-politico» e se da esso una morale se ne poteva trarre era che la grande violenza del fascismo aveva generato tante «piccole violenze» quotidiane, tra cui quella generata dal comportamento violento di suo padre nei confronti di sua madre.
Del sodalizio di quei primi anni con Ivan ricordo in particolare uno spettacolo sperimentale che curammo assieme, Altri vent'anni, andato in scena il 18 marzo 1966, critico verso le politiche culturali della sinistra dalla Liberazione in poi. Notavamo allora come l'abbandono del concetto stesso di «cultura di classe» tendesse a sospingere le organizzazioni di sinistra «nella direzione della propagazione della cultura oggi più confacente alla società dei consumi e alla forza ideologica che, pur sotto svariate tendenze partitiche si avviava a esserne la coerente espressione politica, ossia la socialdemocrazia». E affermavamo come non ci sembrasse perciò «un aspetto negativo il progressivo svuotamento di tali organizzazioni, il loro abbandono da parte della classe; negativo è semmai che stentino a sorgerne di nuove e intimamente diverse».
Tanto per ricordare che certi problemi dell'oggi hanno radici lontane. Quindi, la sinistra italiana, nella quale abbiamo sempre militato in questo o quel raggruppamento, c'è tuttavia sempre andata anche molto stretta. Da cui un nostro permanente essere critici nei suoi confronti e la fama - debbo dire più che meritata - di essere dei rompiballe e dei «provocatori».
Molte canzoni e atteggiamenti di Ivan furono infatti espressione di voluta, anche se non sempre ponderata, provocazione politica verso prassi che non si riusciva più ad accettare. Da Nove maggio, che stigmatizza il fatto che Longo e Parri fossero stati nella celebrazione del Ventennale della Liberazione di due mesi prima a fianco di Andreotti, che Ivan cantò perché Cossutta gli aveva detto di non farlo in uno spettacolo abbinato proprio a un comizio di Luigi Longo, all'«Amendoleide», cantata in una sezione del Pci romano: «Amico mio di Roma/ stanotte ho fatto un sogno / tu eri al governo / leggevi l'Unità./ Ma poi mi son svegliato / e ho letto sul giornale / che alle ultime elezioni /a noi è andata male».
Il suo modo d'essere lo portava a coniugare comunismo e anarchia, ateismo e cristianesimo, facendolo stare con naturalezza dalla parte di tutti gli sfruttati e di tutti gli emarginati, sino a rivendicare il «diritto alla follia». Ne L'estremista canta: «Rileggo Pasolini / il suo demofascismo/ è oggi la cultura / cresciuta a maggioranza/ e contro Cristo avanza / un clericofascismo / per il diverso e l'altro / c'è zero tolleranza / Rileggo anche Basaglia / e sono nei suoi matti / e sono nei migranti /e in tutti i mentecatti».
Ivan è stato parte fondamentale della colonna sonora di una generazione di militanti perché le sue canzoni erano sempre il portato di una ricerca continua delle trasformazioni e di una poetica apparentemente semplice ma che solo lui ha saputo mettere in pratica: «La realtà si impara dove la realtà si fa e così la vita e così il mondo». Questo gli ha permesso di creare veri gioielli come El me gatt, Ballata per l'Ardizzone, Io so che un giorno, Mio Dio Teresa tu sei bella, Creare due, tre, molti Vietnam, la canzone che più incarna lo spirito del '68. E gli ha permesso di essere il cantore della Milano degli anni Cinquanta e del «lungo Sessantotto», quella che forse solo il suo amico Primo Moroni conosceva meglio di lui.
Ma ecco, per esempio, come è nata una sua ballata. Nel 1973 lui e Clara vennero a trovarmi a Zaccheo, in Abruzzo, dove passavo le vacanze. L'8 agosto andammo a registrare alla festa di San Donato a Castiglione Messer Raimondo. Dalla processione e dai suoi canti Ivan trasse spunto per quella sua bellissima ballata che è Compagno ti conosco dove si interroga sul simbolismo religioso e laico.
Dal 1996 Ivan ha anche fatto il presidente dell'Istituto Ernesto de Martino. Recentemente aveva chiesto di essere sostituito per motivi di salute. Avrebbe dovuto starsene un po' tranquillo ma non ce l'ha fatta a pensionarsi. E' sempre stato goloso di esperienze e ha sempre ingurgitato la vita tutta quanta. A settant'anni non si cambia. Così è morto sul campo, in piena attività.