giovedì 30 luglio 2009

Vendola: Sinistra incapace di capire Berlusconi

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Oggi alle 17.12
www.sder.it

Pubblicato il 28 Luglio 2009 su Il Riformista

«L’abbiamo trattato da parvenu e invece ha conquistato l’immaginario. E’ finita l’epoca dei sogni e incubi collettivi, ora prevale il privato e lui lo interpreta in maniera maschilista e patetica. Mentre la sinistra si è fatta mangiare l’anima dal neoliberismo». Riportiamo l’intervista a Nichi Vendola pubblicata da Il Riformista di martedì 28 agosto.
È una battaglia che li accomuna solo in apparenza: Nichi Vendola respinge ogni “fratellanza” con l’opposizione della Lega alle missioni militari all’estero. E in questa lunga intervista al Riformista, il governatore della Puglia fornisce un’interpretazione più ampia del fenomeno sociale del partito di Bossi. E condivide molti passaggi dell’intervista di Toni Negri a questo giornale. Compresi quelli sulla morte della sinistra e sulla sua colpevole sottovalutazione dell’egemonia berlusconiana.

Governatore, condivide la richiesta della Lega di ritirare i soldati italiani dall’Afghanistan, dalla Libia e dai Balcani?
In un mondo nuovamente multipolare la Lega si ritaglia uno spazio per l’esercizio della propria identità. Ma è il capovolgimento regressivo di un processo di universalizzazione della democrazia che ha animato i recenti conflitti della “guerra infinita”. È un ritorno al principio di non ingerenza cui non mi sento affatto affratellato. Certamente va fatto un bilancio approfondito delle avventure belliche che erano nate per esorcizzare il fantasma del fondamentalismo islamico e va riattualizzata l’aspirazione alla pace e al disarmo. Ma non mi piace la chiusura in logiche tribali che animano questo tipo di contrarietà alle missioni militari all’estero.

In un’intervista apparsa domenica su questo giornale, Toni Negri fa un parallelismo interessante tra la vecchia, onnipotente Democrazia cristiana in Veneto e la Lega. E interpreta il Carroccio come una forza “interclassista, profondamente radicata sul territorio” che ha cementato il consenso attraverso la demagogia. Ma che non fa gli interessi dei lavoratori.
Mi è piaciuta molto quell’intervista. Io penso questo: se la sinistra non illumina le crepe della società, se non offre un’interpretazione convincente degli smottamenti dell’identità collettiva, vince il primo che offre un rifugio rispetto a queste crisi. La Lega lo ha fatto, si è adeguata come una panciera all’Italia del bassoventre, ha proposto un rimedio allo spappolamento della società e alla morte della comunità. Ma è un rimedio che decreta la fine della politica come ricerca di soluzioni generali: è la vittoria del localismo.

Perché la sinistra non è riuscita a intercettare questi cambiamenti e a fornirne una lettura convincente? Negri dice che è la sinistra morta, che la destra non ha più avversari.
La sinistra sembra ormai esiliata dentro la propria malinconia. Chi ha detto che chi sta in basso, nella scala sociale, è di per sé un ribelle? Toni Negri ha perfettamente ragione a ricordarci che ciò che lo rende ribelle è la coscienza, non è un dato culturale. La società è regredita complessivamente: una volta i confronti politici avvenivano sui saggi o sulle provocazioni di Pasolini. Adesso siamo al predominio del trash televisivo, che ha surrogato la cattedra scolastica. E abbiamo anche il coraggio di prendercela con gli operai.

Ma tu non fai parte di quelli che avrebbero dovuto contribuire a formare questa coscienza critica collettiva?
Anche qui concordo con Negri. Quando, 15 anni fa, è nato il fenomeno Berlusconi, noi della sinistra abbiamo reagito come si fa con un fenomeno estetico. Lo abbiamo trattato come un vulnus rispetto al galateo politico, come un parvenue. E non abbiamo capito che era una sintesi e un moltiplicatore dei processi di trasformazione della società. Dalla prospettiva odierna è evidente che quella di Berlusconi è l’autobiografia di una nazione. Ha ricomposto la frammentazione della società attorno alla passività di massa. Ha trasformato il discorso politico in pubblicitario. Il problema, ormai, non è Berlusconi, ma il berlusconismo. Quello è penetrato a fondo nel luogo dove si costruisce l’egemonia: l’immaginario. E adesso Berlusconi può impunemente rispondere a una precaria che gli espone il suo dramma che deve sposarsi un uomo ricco.

Una risposta superficiale e offensiva, rivolta oltretutto una donna, che riguarda un dramma collettivo.
Sì, ma vede, è anche vero che è finita l’epoca nostra, dei sogni e degli incubi collettivi. Adesso prevale il sogno e l’incubo privato. E lui l’ha capito e lo interpreta in quella sua maniera maschilista e un po’ patetica. Il berlusconismo è ormai entrato nelle vene della società italiana. Ma in quelle vene ha anche iniettato due veleni pericolosi. Il primo è una visione avventuristica della crisi economica in atto. Tremonti affronta la recessione con formule esorcistiche, pericolose. Che coprono l’essenziale: una colossale redistribuzione delle risorse al Nord, a scapito di quelle destinate al Sud. Poi, vedo una crepa tra il berlusconismo e l’anima cattolica del paese. E non c’è lifting che possa occultarla. Ed ha un potenziale critico spaventoso. Rischiamo di vedere capovolti 50 anni di storia. A questo rischia di portare l’ossessiva esibizione berlusconiana del maschilismo, la sua fissità autistica, la sua ostentazione di virilità, sempre bisognosa di palcoscenici.

Ma non pensa che manchi all’appello anche una lettura univoca da parte della sinistra della recessione, unanimemente considerata la prima crisi seria del modello neoliberista che si è imposto in Occidente dal ‘79?
Ma certo, doveva essere questo il centro della contesa del congresso del Pd di ottobre. Faccio un esempio: il Papa, con l’enciclica Caritas in veritate, pur con mille cautele e con passaggi molto metodologici, ha fornito un’interpretazione della crisi. Ed ha parlato della precarietà come di una crepa che riesce a minare la vita delle persone. La sinistra, che si è fatta mangiare l’anima dal neoliberismo, si è giocata la propria differenza rispetto alla destra sui distinguo lessicali. Un errore che sta pagando caro.

Lanfranco Turci: mi dimetto dalla segreteria del ps

mi dimetto dlla segreteria del Partito socislistaCondividi
Ieri alle 18.57
Al segretario nazionale del PS Riccardo Nencini
Alla presidente del CN Pia Locatelli
Ai membri del Consiglio Nazionale

Il voto dei socialisti toscani a favore della nuova legge elettorale regionale con lo sbarramento al 4% è un fatto di una gravità eccezionale ,perché avalla una legge che è peggio del porcellum di Calderoli e si avvicina al modello del bipartitismo obbligato proposto dal recente referendum.Tanto più grave appare questa scelta politica perché ne è protagonista il segretario nazionale del PS Riccardo Nencini. che così, con un atto personale, smentisce la linea decisa all’ultimo Consiglio Nazionale del partito e assesta un colpo micidiale al progetto di Sinistra e Libertà .Progetto che si era deciso invece di sostenere e di portare alla prova delle elezioni regionali del 2010.Questo voto conferma l’opzione non dichiarata di una alleanza col PD comunque e a qualunque condizione,salvo il mantenimento in una esistenza puramente virtuale di un simbolo socialista utile solo a farsi ripagare qualche riconoscimento negli assetti di potere.Dopo le elezioni europee avevo detto che pur con molti dubbi,davo la mia preferenza al tentativo di fare di SeL il soggetto nuovo di una sinistra riformista,ecologista e di governo,distinta e autonoma e in competizione/alleanza col PD.Per questo non avevo condiviso né le accelerazioni di chi irrealisticamente puntava a farne immediatamente un partito,né le posizioni di coloro che volevano bloccare il processo in nome di una autosufficienza socialista non più proponibile.Agli uni e agli altri,convergenti nel chiedere un congresso straordinario del PS,avevo obiettato di preferire una via graduale,ma chiara, di sperimentazione del progetto di SeL.Nel momento in cui il segretario Nencini butta a mare questa linea politica con un accordo di potere col PD toscano,non accetto di restare a fare da copertura di scelte non discusse e non condivise..Pertanto mi dimetto dalla Segreteria nazionale del PS e chiedo la convocazione urgente del Consiglio nazionale per esaminare la nuova situazione e convocare un congresso straordinario del partito.Aggiungo che il giorno che ritenessi che non ci fosse altro spazio per fare politica a sinistra che all’interno del PD,ci andrei libero dai vincoli e dalle prassi che condizionano questo PS.

Lanfranco Turci


29-07-09

Giovanni Scirocco: Quel che capì Bottai

Lo deve ancora capire Berlusconi...

noi italiani, in genere, abbiamo in europa, o diciamo d’avere, questa ridicola forma di “gallismo”. E ci teniamo assai. Vogliamo tutti discendere da Casanova, il capostipite dei bagoloni d’amore. Non è “dongiovannismo” il nostro, chè in Don Giovanni si esprime una tragicità erotica, estranea al nostro spirito. E’ una superficiale fantasia d’alcova; o peggio, da bordello. Solo una franca educazione sessuale, senza cadere nel problemismo anglosassone e nelle ossessioni freudiane, potrebbe guarirci da questa grottesca mania esibitoria, che radica nei genitali tanto della nostra pretesa “genialità”. Guarirci, non infiacchendo la nostra sana virilità, ma conferendole un tocco più austero, “contenuto”: una virilità di cui si sia padroni e non servi. Il gallismo ha avuto una gran parte nella decadenza ultima di Mussolini. Ne era infetto, fino al punto di non intendere il carattere “sacro” della vecchiaia. Come D’Annunzio, considerava questa “sordida”

(Giuseppe Bottai, Diari, 6 agosto 1946)

Documento di Socialismo e sinistra per il Consiglio nazionale del PS

Il risultato ottenuto da Sinistra e Libertà alle elezioni europee e amministrative ha dimostrato la correttezza della scelta politica compiuta.
Roma, 11 luglio 2009

PREMESSA: Questo Documento è frutto soprattutto dei tanti incontri, scontri, confronti – a volte aspri ma sempre costruttivi – che hanno coinvolto molti di noi, nel corso degli ultimi tempi, sia direttamente sia attraverso il web ed i social network – specialmente Facebook.
Le discussioni all’inizio si sono aperte casualmente, successivamente – ed in parallelo a riunioni “tradizionali” - sono nati gruppi che avevano come scopo quello di analizzare concretamente come i socialisti avrebbero dato seguito all’esperienza di Sinistra e Libertà.
Sono molti i compagni, quindi, che possono legittimamente riconoscersi in questo documento.
Come membri del Consiglio Nazionale, lo presentiamo anche in loro vece.



I
di un’unica lista elettorale le diverse anime della Sinistra italiana, in un momento di grave crisi economica per il paese e per il mondo, e di grave deficit democratico, rappresenta un risultato importante, condiviso da quasi un milione di elettori.
Ancora più importante è il fatto che Sinistra e Libertà abbia generato un nuovo entusiasmo tra i militanti dei partiti che hanno dato vita alla coalizione e tra quanti negli ultimi anni non si sono più riconosciuti nei soggetti politici della Sinistra italiana.
Questo dimostra come ci sia ancora bisogno di una Sinistra capace di rappresentare la società e progettare il cambiamento. Una Sinistra riformatrice e democratica, capace di porsi come forza di governo mantenendo una valutazione critica sulle politiche che hanno determinato l’attuale recessione economica, in grado di tradurre in soluzioni di governo le necessità degli strati più deboli della società, portatrice di valori fondanti, come la giustizia sociale, la difesa dell’ambiente, l’etica della responsabilità, il principio di legalità, ed ancorata ad una visione coerente della laicità dello Stato.

II

Le politiche neoliberiste degli ultimi quindici anni hanno prodotto la più grave crisi economica mondiale dal 1929, con conseguenze gravissime sul piano sociale. La finanziarizzazione dell’economia ha prodotto una crescita fittizia, realizzata attraverso forme differenziate e diffuse di utilizzazione del debito (es. compressione dei tassi di interesse, mutui subprime, microcredito personale, gonfiamento dei corsi azionari) come mezzo di sostegno della domanda, sostitutivo, in assenza di un processo espansivo dell’economia reale, di una crescita continuativa dei redditi da lavoro dipendente o da attività d’azienda.
Tale processo ha innescato ed alimentato una crescita dei mercati e dei consumi totalmente sganciata dalla crescita della ricchezza sociale, favorendo un incremento massiccio delle quote di reddito e profitti destinate ad investimenti finanziari, sottratte all’investimento reale e all’innovazione produttiva.
La redditività degli investimenti finanziari è stata garantita da una forte espansione dei profitti, generata dalla compressione dei costi del lavoro, dalla riduzione delle rigidità del mercato del lavoro, e dalla adozione di politiche di incentivazione aziendali ritagliate sulla compressione del debito pubblico destinato al welfare, e non certo da un incremento dei livelli produttivi.
Lo squilibrio generato in tal modo tra i soggetti della produzione ha prodotto nell’ultimo ventennio un gigantesco trasferimento di ricchezza verso le classi alte delle società più avanzate, interrompendo definitivamente la tendenziale propensione redistributiva dei precedenti sistemi sociali occidentali.
Quindici anni fa si parlava, ad esempio, della società dei due terzi, in cui l'ultimo terzo rappresentava la quota degli esclusi dal progresso sociale, civile ed economico; ora il rapporto si è invertito: due terzi sono gli esclusi e la loro percentuale è in costante crescita.
Venti anni fa il reddito medio dei lavoratori italiani era il terzo tra i paesi OCSE, ora è il ventitreesimo.
L’impoverimento progressivo del ceto medio è ormai una linea di tendenza consolidata, e la stessa mobilità sociale è divenuta un fenomeno in via di esaurimento, non solo in Italia.
La recessione in atto sta ora producendo pesantissimi effetti sul piano sociale, con la crescita della disoccupazione in tutti i paesi industrializzati, l’aumento della povertà nei paesi in via di sviluppo e una conseguente fragilità sociale che solo oggi comincia a essere percepita come un problema drammatico. Questo esito è favorito dalla permanenza di politiche del lavoro, omogenee a quel modello economico-finanziario dello sviluppo, che hanno reso sempre più precario il lavoratore e più instabile l’intero assetto sociale.
Questa visione del Liberismo - concretizzatasi storicamente a partire dalla rivoluzione tatcheriana e definitivamente consolidatasi dopo il crollo del” Socialismo Reale” - interpretato e praticato come un sistema nel quale “la mano invisibile del mercato”, operando come un gigantesco meccanismo di coordinamento, avrebbe assicurato che il perseguimento dell’interesse dell’imprenditore sarebbe coinciso con il benessere complessivo della società, è giunta al capolinea travolgendo una concezione della globalizzazione dei rapporti economici come processo estraneo al governo degli stati.

III

La Sinistra, in Italia come in generale in Europa, non è stata purtroppo in grado di opporsi con forza a tali dinamiche economiche e sociali. L’incapacità di proporre una valida alternativa programmatica all’attuale modello di sviluppo ha portato alla sconfitta quasi tutti i principali partiti del Socialismo europeo.
Ciò deve spingere tutta la Sinistra a compiere un’analisi profonda delle scelte fatte nel corso degli ultimi anni. Il successo ottenuto dalla Die Linke tedesca e dai Verdi in Francia, a tale proposito, deve essere attentamente valutato, pur con tutti i distinguo che dobbiamo fare rispetto a determinate posizioni di queste formazioni, per comprendere come la Sinistra debba assolutamente recuperare una sua alternatività al modello di rapporti economici e sociali entrato in crisi.
Appare evidente che un nuovo processo democratico di tale portata storica può essere ipotizzato esclusivamente attorno ad un progetto riformatore di trasformazione strutturale del sistema economico, che segni un sostanziale riequilibrio di potere e di reddito tra l’universo dei lavori e i centri del potere economico e finanziario, in grado di svincolare la vita dei cittadini dal totale assorbimento nelle logiche del mercato che caratterizza l’attuale fase della evoluzione delle società avanzate, in grado di rappresentare un potenziale alternativo modello di riferimento per i paesi emergenti e per il resto del mondo in via di sviluppo.
E’ in questo contesto che il Movimento Socialista Europeo - e con esso la Sinistra italiana - deve sapere individuare in autonomia le risposte progettuali che andranno a definire le assi di riferimento di un nuovo modello di Stato Sociale che sia adeguato a una diversa dimensione dello stesso concetto dello sviluppo e della crescita e sul quale ricostruire una nuova alleanza di consenso maggioritaria tra le classi, le generazioni e i gruppi sociali interessati a difendere e consolidare un nuovo sistema di garanzie sociali e democratiche.
Non occorre inventare nuove ideologie: basta sapere che la proposta politica ha senso, a Sinistra, se è il frutto di un’elaborazione di idee complesse all’interno di una visione socialista e democratica del mondo; il SOCIALISMO DEMOCRATICO va inteso, quindi, come il pensiero politico che si pone quale problema centrale quello di garantire progresso e interesse collettivo, accettando il modello dell’economia di mercato non come un totem, ma come un modello di sviluppo che può produrre una vera e stabile ricchezza per tutta la Società soltanto in presenza di politiche di controllo della qualità delle scelte e di tutela dell’ equilibrio sociale.
Il Socialismo così inteso, coniugato nella prassi politica con una partecipazione democratica effettiva, ha una capacità espansiva di cui si sono visti finora solo gli albori.
L’avvio di una nuova fase caratterizzata da una ricostruita forza progettuale del Socialismo riformatore, può permettere di trasformare in una grande occasione di innovazione sociale e di miglioramento della qualità dello sviluppo il rischio probabile di un progressivo declino dei tradizionali fattori della crescita economica delle società più avanzate.

IV

La presa d’atto che il mondo governato dal neoliberismo ci sta portando ad un punto di non ritorno, deve indurre la Sinistra italiana a non fare più concessioni su questioni come la redistribuzione del reddito e l’emancipazione dal bisogno, la tutela della pace, la cura del pianeta.
Allo stesso modo il rigore nella difesa degli interessi fondamentali di una società che vogliamo più libera e più giusta, ci consentirà di coniugare l’etica della responsabilità e della legalità con la eliminazione degli abusi dell’utilizzo del mercato; la valorizzazione del merito e la diffusione del sapere - come garanzia per una società aperta che associ le aspirazioni individuali con la tutela della eguaglianza delle opportunità - con il valore generale e cogente del principio dell‘inclusione sociale.
La difesa dei valori della laicità, la difesa dell’ideale di democrazia come valore fondante di ogni comunità sociale, nazionale e sovranazionale, e la riscoperta del principio di partecipazione politica, quale sinonimo di libertà, debbono tornare ad essere il patrimonio condiviso della Sinistra italiana.
Diviene nuovamente indispensabile una Sinistra che rilanci il ruolo dello Stato quale elemento di regolazione del libero mercato e come soggetto in grado di farsi carico delle necessità degli strati più deboli della popolazione, sostenendo i diritti di cittadinanza.
Una Sinistra che sappia recuperare un rapporto forte con i sindacati e col mondo del lavoro, un rapporto che una malintesa pseudosinistra di governo ha teso a trascurare in modo grave nel corso degli ultimi anni.
Una Sinistra che persegua la valorizzazione dei lavoratori del settore pubblico al fine di rendere più efficienti i servizi resi, rifiutando ogni forma di criminalizzazione dell’universo dei pubblici dipendenti.
Una Sinistra convinta che il ruolo della macchina pubblica deve essere rinforzato per sostenere la battaglia della legalità contro il lavoro nero e senza sicurezze, per reperire ulteriori risorse da destinare al sostegno di chi ne ha più bisogno attraverso una più efficace lotta all’evasione fiscale, oggi fonte della più alta disuguaglianza presente nel Paese.
Una Sinistra convinta che una forte e qualificata presenza dello Stato riporterebbe fiducia nelle istituzioni nelle zone del Paese dove prospera la criminalità organizzata.
Una Sinistra che riconosca le priorità e le emergenze sociali, dimostrando il coraggio di affrontare, insieme alla questione sociale del Nord, la questione mai risolta e ormai drammatica del Sud, che rischia di diventare, con l’acuirsi della crisi economica e sociale, un territorio abbandonato dalle popolazioni, prima ancora che dalla politica e dallo Stato.
Una Sinistra che abbia il coraggio di chiedere e pretendere, insieme al federalismo, una reale “parità” delle condizioni di partenza fra tutti i territori e le Regioni dello Stato, nelle infrastrutture, nella garanzia della legalità e della giustizia sociale, nella distribuzione delle risorse economiche, nel diritto al futuro.
Una Sinistra che abbia l’audacia di dire che, senza il rilancio dell’uguaglianza e pari dignità fra tutti i cittadini italiani, ogni processo federalista e autonomista sarà solo una resa implicita e drammatica alle mafie, alla corruzione, all’egoismo sociale, in ultima analisi a un modello sociale e di sviluppo che non ci appartiene, ma che, anzi, mortifica le ambizioni di giustizia e libertà dei singoli e delle comunità.
Una Sinistra che, forte delle lezioni del passato e del presente, prenda seriamente le distanze da ogni situazione opaca e di commistione fra poteri politici, istituzioni e “mafie” che sono spesso la prima causa del degrado sociale, economico e democratico del Paese.


V

La Sinistra italiana deve ritrovare il proprio tradizionale ruolo di forza motrice, sul piano politico e culturale, della società italiana .
Sinistra e Libertà, per la sua stessa natura, per il fatto di raccogliere al suo interno le diverse culture e sensibilità che storicamente hanno caratterizzato la Sinistra italiana, ha tutte le potenzialità per assolvere a questo compito, in quanto rappresenta il laboratorio politico di una concezione del riformismo socialista nuovamente proiettata a perseguire una trasformazione strutturale degli assetti economici e sociali, in grado di individuare un diverso modello di sviluppo,diversi parametri di riferimento della qualità della vita della società, e nuove regole di controllo sociale delle variabili economiche.
Sinistra e Libertà è già - sostanzialmente - il partito nuovo della Sinistra italiana, che propone non solo una diversa prospettiva di sviluppo ma, più in generale, un’offerta di società alternativa all’attuale, fatta di eguaglianza e di giustizia sociale, di sviluppo sostenibile, di investimenti nella ricerca scientifica e di valorizzazione dei talenti, di tutela e rafforzamento dei diritti sociali e civili.
Sinistra e Libertà deve ora divenire il partito di quella alleanza riformatrice tra il merito e il bisogno - sempre enunciata e mai realizzata - che deve essere alla base della società delle aspirazioni e delle opportunità a cui tende la grande maggioranza della popolazione italiana per chiudere una volta e per tutte la fase della cristallizzazione e della immutabilità dei rapporti sociali e di classe.
Sinistra e Libertà deve essere un soggetto politico aperto, oltre che ad altre organizzazioni politiche che ne condividano coerentemente il progetto, alla società, al mondo delle associazioni; continuamente in grado di aprirsi e di coinvolgere le forze sane e nuove del paese che oggi vengono relegate ai margini della società e che sono state virtualmente espulse dalla partecipazione politica dagli errori dei gruppi dirigenti che hanno guidato la Sinistra nel corso degli ultimi anni.
Sinistra e Libertà deve essere in grado di superare una politica fatta di leaderismo e di comunicazione esclusivamente televisiva, per tornare a proporre un rapporto tra i cittadini e la politica che sia coinvolgente e inclusivo. Una nuova forza politica della Sinistra che si deve contrapporre a qualsiasi manifestazione di quell’autentica e ipocrita forma di sub-cultura rappresentata dall’antipolitica, funzionale unicamente ai poteri dominanti nella sua capacità di disgregazione del corpo civile di un paese già confuso e disilluso dalla crisi della politica.

VI

Per trasformare una coalizione elettorale in un soggetto politico è importante che Sinistra e Libertà comunichi al più presto una proposta politica definita al paese.
Altrettanto necessario, indispensabile, è che si dica con chiarezza che SeL è un progetto irreversibile di lunga durata e non un mero artificio elettorale. Se così non sarà, se non saremo in grado di procedere in modo spedito sulla strada del partito nuovo, si perderà una grande occasione - molto probabilmente l’ultima - per rilanciare una politica realmente e coraggiosamente riformatrice nel nostro Paese.
Riteniamo pertanto che pensare a SeL come a una semplice Federazione sia un errore.gravissimo; riteniamo che sia una forma di miopia politica non capire che con Sinistra e Libertà migliaia di cittadini e di elettori hanno ritrovato il gusto dell’impegno politico in un soggetto politico ideale, nel quale si incontrano tutte le anime della Sinistra storica italiana, tutte con eguale dignità e diritti.
Offrire loro una semplice Federazione significa quindi smorzarne gli entusiasmi, riallontanarli di nuovo. Percepirebbero che SeL è in effetti un mero strumento di conservazione o riproposizione di un ceto politico. Questo significherebbe la fine del progetto.
Ciò di cui invece c’è bisogno è di consolidare nel processo unitario e costituente elementi di irreversibilità, di natura politica e organizzativa, attraverso la definizione di tappe certe, per arrivare entro l’inverno al congresso fondativo del nuovo partito di Sinistra e Libertà.
Un processo nel cui ambito i socialisti si impegnino a garantire l'effettiva partecipazione democratica dal basso, a partire dai circoli e dalle associazioni, in un contesto di inclusione e coinvolgimento nei processi decisionali. Il partito Sinistra e Libertà dovrà avere la sua organizzazione, non dovrà essere liquido e destrutturato. Le uniche primarie saranno quelle delle idee, non corse truccate per leadership inesistenti.
Riteniamo però che – insieme a questo – il partito Socialista debba procedere allo svolgimento del proprio Congresso, proprio in ossequio sia alle norme statutarie sia agli elementari principi di democrazia interna in grazia dei quali è necessario il coinvolgimento degli iscritti nel caso di scelte di importanza strategica. Tale è decidere il futuro del Partito.
Il ventilato tesseramento 2009 ha senso – quindi – solo nel caso di svolgimento entro l’anno del congresso nazionale.

VII

Noi che siamo orgogliosamente socialisti, ben sappiamo di giocare, nonostante le attuali modeste forze, un ruolo fondamentale nella costruzione e nell’ispirazione di questa nuova forza della Sinistra “che spera e ragiona”. Ma sappiamo anche che questa è l’occasione finale per far sì che il patrimonio di politica, di idealità, di capacità riformatrice dei socialisti italiani, non venga definitivamente disperso.
Proprio perché siamo orgogliosamente socialisti, dobbiamo essere in grado di osservare e constatare con chiarezza e disincanto la situazione che ci si prospetta.
Abbiamo creduto con forza e determinazione nella Costituente Socialista, progetto ormai definitivamente esaurito, vogliamo ora recuperare il cuore di quel nobile tentativo e lanciarlo oltre l’ostacolo.
C’è grande spazio per la storia, per le idee, per l’azione socialista, ma bisogna avere l’intelligenza di individuare la sua concreta collocazione politica.
Gli estensori e i firmatari di questo documento hanno individuato, senza tentennamenti, in Sinistra e Libertà il luogo di discussione ed elaborazione delle istanze socialiste.
Il Partito – oggi più che mai - non può essere una torre di Babele, in cui ogni autorevole dirigente, ogni piccolo gruppo di tendenza, ogni minimo gruppo di potere territoriale, rincorre un progetto differente, spesso pro domo sua.
Non c’è più spazio per alcuna piroetta socialista, se ve ne fosse un’altra sarebbe l’ultima, perché nessuno verrebbe più a tendere il telone di salvataggio sotto il trapezio.
E non si pensi - o non si giochi con la fiducia dei nostri elettori, dei nostri iscritti, dei simpatizzanti socialisti, che sono assai più di quanto il suffragio raccolto dal PS, ma in genere da SeL possa lasciar supporre - che rimandando continuamente l’appuntamento con le proprie responsabilità, si possa prender tempo per accasarsi a migliori condizioni nel PD.
E’ indubbio che con il Partito Democratico si dovrà andare a un confronto serrato, come d’altra parte con tutte le altre forze politiche del centro sinistra oggi all’opposizione, e che è impensabile pensare di poter prescindere da quell’organizzazione che raccoglie il maggior numero di cittadini e suffragi a sinistra; ma ciò che accade nel Partito Democratico resta in quel partito e non ci riguarda, non riguarda le nostre scelte fondamentali, se non per la corretta analisi politica che sulle sue vicende va costantemente compiuta.
Ogni tanto sentiamo dire “dobbiamo aspettare il congresso del PD”. Ebbene, nessun congresso del PD, per quanto importante, per quanto decisivo, lo è abbastanza da fermare e rallentare il cammino dei socialisti e della nuova Sinistra italiana.

VIII

Non possiamo non denunciare le non poche zone opache nella corretta gestione democratica del nostro Partito, i piccoli interessi territoriali, le infinite infrazioni allo Statuto.
Parliamo di questo rarissimamente e frettolosamente convocato CN, svuotato così dei suoi poteri e della sua autorevolezza; delle cooptazioni decise verticisticamente e senza un criterio comprensibile, in Direzione, in Segreteria, nello stesso Consiglio Nazionale.
Parliamo - ad esempio - dell’incredibile situazione del Partito di Roma e Lazio e di Livorno-Collesalvetti. I congressi, nel primo caso sono stati dichiarati illegittimi dalla Commissione Nazionale di Garanzia, il cui deliberato è stato completamente disatteso, mentre nel secondo caso i compagni, che hanno vinto il congresso con il 63%, non hanno potuto governare il loro territorio “grazie” al Segretario Regionale che ha commissariato il Direttivo territoriale senza alcuna ragione e, soprattutto, pur non avendone - da Statuto - i poteri.
Per amore d’unità, per la passione che ci contraddistingue e che abbiamo riversato nelle nostre attività nel Partito, abbiamo tollerato situazioni oggi non più sopportabili.
Ci siamo dati liberamente delle norme che regolano la vita interna del Partito. Dandocele abbiamo inteso che non sono mere dichiarazioni di principio, non sono carta straccia ma rappresentano le basi per una corretta vita associativa.
Rispetto delle regole, Trasparenza, Democrazia interna, Apertura al confronto sono elementi costitutivi e irrinunciabili dell’essere socialista. E’ paradossale che vengano trascurati proprio dal e nel partito socialista.
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Il Consiglio Nazionale del Partito Socialista approva il seguente
Ordine del Giorno

• Il Congresso Nazionale è la sede del confronto democratico tra gli iscritti sul futuro del Partito. Il tesseramento 2009 è valido solo in funzione del congresso nazionale, da tenersi entro l’anno.

• Parallelamente al tesseramento per il Partito Socialista è avviata – insieme e di concerto alle altre forze politiche che hanno dato vita a SeL – la campagna di adesione a Sinistra e Libertà, così da coinvolgere quanti credono in questo progetto pur non provenendo da nessuno dei partiti, organizzazioni e movimenti che hanno contributo a darle vita.

• Le deliberazioni della CNG si intendono immediatamente operative. Commissioni paritetiche e rappresentative delle articolazioni del PS saranno incaricate di gestire la fase transitoria in assenza di legittimi organismi dirigenti

• Nell’assemblea di Sinistra e Libertà convocata per settembre il Partito Socialista si farà portavoce della necessità di procedere nel percorso verso il partito, attraverso la definizione di tappe intermedie delle quali sia prioritariamente fissata la data, al fine di arrivare allo svolgimento del congresso fondativo di Sinistra e Libertà prima delle elezioni regionali del 2010.



Hanno sottoscritto il documento i seguenti componenti del Consiglio Nazionale del Partito Socialista:


Marco Andreini
Enrico Antonioni
Franco Bartolomei
Ivo Costamagna
Carmela De Simone
Anna Falcone
Massimo Giorgi
Marco Lang
Bebo Moroni
Sandro Natalini
Andrea Pisauro
Enrico Ricciuto



Componenti della Commissione Nazionale di Garanzia

Ileana Lang
Lucio Lofaro

Luigi La Spina: federalismo all'italiana, un paradosso

Da La Stampa

30/7/2009

Federalismo all'italiana
un paradosso





LUIGI LA SPINA

Dicono che bisogna essere ottimisti a tutti i costi. Allora, prendiamo la situazione dall’unico effetto positivo. La polemica sull’identità italiana, esplosa per le tentazioni sul «partito del Sud», per le provocazioni leghiste sulla scuola, per le esitazioni sui finanziamenti per i 150 anni dell’unità d’Italia, hanno finalmente fatto uscire dall’ipocrisia, dalla reticenza, dall’ambiguità una questione fondamentale per il nostro Paese: come sia difficile e pieno di rischi l’esperimento di costruire uno Stato federale con un processo contrario a quello normale. Cioè, non per aggregazione, ma per disaggregazione.

Tranne qualche rara eccezione, infatti, il riconoscimento di comuni interessi o il desiderio di rafforzare le difese contro un nemico lontano hanno indotto Stati o regioni a stringersi in un patto federale. Così è stata, in Europa, l’esperienza della Germania o della Svizzera. Così si è costituito il maggiore Stato federale del mondo, gli Stati Uniti d’America.

Molto raramente la strada è stata percorsa al contrario. Si potrebbe citare, forse, l’esempio della Spagna post-franchista, se il paragone con l’Italia non fosse inficiato, tra l’altro, da una differenza fondamentale: il paese iberico è stato unificato alla fine del XV secolo in un impero tra i più potenti del mondo, il nostro festeggia, appunto, solo i 150 di vita.

Così, questo arduo passaggio da uno stato centralista a una struttura federale è ulteriormente complicato dall’evidente fragilità di una coscienza nazionale illanguidita nella popolazione e sostanzialmente assente nella classe politica a cui è toccato in sorte di condurre questa trasformazione. Tramontati i partiti di ispirazione risorgimentale, già sopravvissuti stentatamente dopo la seconda guerra mondiale in una posizione di estrema minoranza, si sono estinti anche quelli che avevano costruito l’Italia repubblicana: i democristiani, i comunisti, i socialisti. Gli eredi, in realtà, non sentono la costituzione dell’Italia come elemento fondante della loro ragione sociale: il partito di Berlusconi ne ha utilizzato il nome soprattutto per l’effetto di aggregazione emotiva dei suoi militanti, da tifo calcistico. Il Pd sventola il tricolore perché è l’unica bandiera che unifica quella rossa, ormai impresentabile, e quella scudocrociata, ormai dimenticata.

La realtà italiana d’oggi, nel processo federalista, può essere riassunta molto semplicemente: la sinistra si è sostanzialmente messa fuori gioco, attraverso una lotta intestina per la leadership che la sta emarginando da qualsiasi vera e sensibile influenza sulla politica nazionale. Sulla scena, allora, conduce la danza la Lega, con una abile strategia di avanzate provocatorie e di ritirate opportunistiche. Il Pdl reagisce debolmente all’azione leghista, con il rischio di una spaccatura interna tra nord e sud che la mediazione di Berlusconi fatica sempre di più a mascherare.

Il partito di Bossi, con una certa lucidità strategica, bisogna ammetterlo, punta a scardinare i capisaldi fondamentali sui quali, nei fatti, è stata costruito lo Stato italiano in questi 150 anni di esistenza: l’esercito, la scuola pubblica, la lingua. Tutti sanno, per esperienza o per un minimo di conoscenza storica, che quel poco o tanto di coscienza nazionale esistente nel nostro paese è stato ottenuto dalla leva militare obbligatoria, dalla riforma crociana e gentiliana dell’istruzione e dalla Tv. La prima ha ibridato, per la prima volta nel secolo scorso, i nostri giovani su tutto il territorio. La seconda ha unito le culture localistiche in una retorica unitaria. La terza è stata capace di estendere l’italiano alla grande maggioranza dei cittadini.

Non è casuale, allora, che le offensive leghiste si concentrino su questi tre campi. Con la negazione di un ruolo internazionale del nostro esercito, con il tentativo di regionalizzare la scuola, con il desiderio di imporre, nella tv pubblica, una riscrittura della storia in chiave antiunitaria.

Quello che più colpisce, di fronte allafiacca reazione, è la confusione intellettuale, l’incertezza morale e politica di chi, almeno a parole, dice di non condividere questo piano disgregativo. Dopo la proposta leghista di un ritiro delle nostre truppe dall’Afghanistan, anche l’accenno di Berlusconi alla necessità di una exit strategy, se non afferma una ovvietà, può essere considerato un sintomo di questo atteggiamento difensivo e sostanzialmente cedevole. Ma l’ultimo esempio, quello più clamoroso, è la risposta della Gelmini sull’emendamento leghista proposto in commissione sulla scuola. Esclusa, per fortuna, la follia del test di dialetto per gli insegnanti, il ministro si dichiara, però, sostanzialmente favorevole a una specie di regionalizzazione dei professori. Il responsabile dell’istruzione pubblica dovrebbe apprezzare, invece, il valore di uno scambio culturale e umano tra allievo e docente provenienti da parti diverse del nostro Paese. Anzi, se non ci fossero evidenti problemi economici e familiari, andrebbe scoraggiata e non incentivata l’assimilazione regionalistica di chi sta sulla cattedra e di chi sta sotto. In tempi di crescente immigrazione multietnica, è davvero deprimente dover parlare ancora di accenti diversi nel pronunciare la nostra lingua. Perché nella scuola italiana, come sappiamo tutti, il problema è la qualità degli insegnanti, non il loro luogo di nascita.

Loredana Biffo: Oligarchie di partito

dall'avvenire dei lavoratori

Oligarchie di partito,
teorie dell'ordine e del conflitto

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Tra le promesse non mantenute della democrazia Bobbio ha indicato la nascita della società pluralistica, che ora appare più che mai necessaria, per la sopravvivenza della democrazia stessa.

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di Loredana Biffo

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Secondo la “teoria dell'azione razionale”, vige il postulato che l'agire umano sia motivato dalla massimizzazione dei benefici e dalla minimizzazione dei costi, onde evitare l'indeterminazione delle sue previsioni e delle sue spiegazioni, essa postula altresì che gli obiettivi da massimizzare siano materiali: benefici economici, controllo di risorse, di posizioni fruttuose, di prestigio ecc.

Poiché il contesto forgia l'azione che è quindi condizionata, possiamo sostenere che il condizionamento non include solo valori egoistici, ma essi fanno cadere la nostra attenzione sulla persistenza e sulla continuità dei comportamenti. Ne consegue che anche l'azione politica è condizionata dal contesto, che a sua volta è intessuto di consuetudini, valori e tradizioni, il mutamento politico è limitato, in quanto avviene all'interno di una tradizione, di una banda di oscillazione i cui confini sono determinati dalle tradizioni istituzionali, dove le motivazioni individuali finiscono col contare poco. Se il mutamento avviene, esso è originato dalla necessità di adattarsi a cambiamenti sociali avvenuti fuori dell'ambito politico (per esempio la questione del testamento biologico, in cui è evidente la discrasia tra la volontà popolare e la decisione politica).

Le istituzioni sono esse stesse espressioni di valori condivisi, necessari a tenere insieme le società che altrimenti si frantumerebbero, sono sedimentazioni che si formano nel tempo, per trasmissione, ma non può mancare l'adattamento. Sono il risultato di un lento apprendimento collettivo, esse costituiscono vincoli all'azione degli attori politici individuali (leader) e collettivi (partiti), questo finchè l'agire democratico non viene contaminato, finchè la democrazia non viene svuotata dall'interno attraverso meccanismi che rendono obsolete le “forme” democratiche.

La genesi delle regole non si spiega solo in termini di eliminazione degli effetti perversi della combinazione di strategie razionali, ma anche come esito di compromessi tra attori razionali che tendono a conquistare regole del gioco a loro favorevoli, le istituzioni ricadono in una logica che vede la politica come luogo della competizione-conflittualità: servono ad avvantaggiare qualcuno contro qualcun altro o rappresentano un punto di equilibrio tra interessi diversi. La conquista di regole favorevoli è quindi uno dei punti principali di scontro all'interno delle stesse coalizioni, nei partiti di destra e sinistra possono mettersi d'accordo per far passare un sistema elettorale maggioritario con relativo premio di maggioranza che consolidi la loro posizione eliminando i concorrenti minori.

I partiti dovendo tenere in considerazione diverse variabili prima di battersi per un sistema elettorale invece di un' altro, cercano di procurarsi sistemi elettorali che li favoriscano. I sistemi elettorali producono risultati differenti a seconda della realtà politica con cui interagiscono.

Un sistema maggioritario secco a un solo turno non avvantaggia allo stesso modo tutti i grandi partiti, può estendere la rappresentanza di partiti a forte radicamento territoriale e svantaggiare partiti che pur essendo consistenti non riescono però ad arrivare primi, o che arrivano “primissimi” con uno spreco di voti in pochi collegi. Quindi i partiti oltre a battersi per ottenere sistemi elettorali e regole a loro favorevoli, si ingegnano ad usarli al meglio delle loro possibilità; competono per ottenere sistemi elettorali che fungano da moltiplicatore di voti e seggi propri e come demoltiplicatore del rapporto tra voti e seggi degli avversari: ad esempio la soglia di sbarramento alla rappresentanza, un quorum del 4% come in Italia, taglia via i partiti minori, regalano in pratica i loro voti a quelli che superano la soglia.

I partiti che controllano l'esecutivo in un paese ideologicamente diviso tenderanno a tenere sotto controllo il Parlamento con regolamenti che evitino tecniche di ostruzionismo, la pubblica amministrazione (rendendo meno stabili le carriere, accentuando lo spoil system), a dare meno autonomia alla magistratura, tarpandole le ali, a influenzare o peggio manipolare e controllare pesantemente i media. Mentre le opposizioni dovrebbero volere un Parlamento influente, una magistratura indipendente, pubblici amministratori di carriera e una stampa libera. Chi controlla e pensa di controllare a lungo e in modo pervasivo l'esecutivo vorrà sempre più regole che trasmettano più rigidamente la propria volontà agli altri corpi dello stato e alla società civile.

In tal senso i partiti che pensano di non conservare il potere possono trasferire competenze a organi tecnici, meglio se ispirati da ideologie a loro favorevoli: authorities economiche ispirate al liberismo o ad authorities di bioetica in cui prevalgono i principi religiosi. Le varie fazioni concorrenti cercano di aumentare il proprio potere e di stabilizzarlo a scapito di altre, distorcendo i meccanismi della rappresentanza, cosa che porta ad uscire dal quadro democratico.

Poiché la genesi e lo sviluppo dei partiti ha modificato profondamente lo svolgimento delle elezioni, abbiamo una duplice anomalia, da una parte, tra elettori ed eletti si è inserito un terzo soggetto: il partito, non si ha più quindi una interazione dialogica tra eletti ed elettori, tra nazione e parlamento, perchè il partito “terzo incomodo” si è introdotto tra loro modificando radicalmente la natura dei loro rapporti; dall'altra parte, le elezioni avvengono in una fase dicotomica, scelta dei candidati fatta dai partiti, e scelta tra i candidati fatta dagli elettori, riducendo drasticamente il potere degli elettori, che quando si recano alle urne per eleggere i propri governanti si trovano di fronte ad una possibilità di scelta limitata a sua volta da una scelta precedente, potendo scegliere solo tra candidati precedentemente selezionati dai partiti. Sartori evidenzia che così la rappresentanza ha perso in efficacia, e non può essere vista come un rapporto diretto tra elettori ed eletti, ciò significa riconoscere i limiti del potere dell'elettore, in un sistema dove la cooptazione del partito-apparato diventa elezione effettiva. Norberto Bobbio già negli anni Cinquanta, si domandava in quale stato fosse la democrazia se la classe politica non traesse il suo potere direttamente dal consenso popolare, e dette parere negativo, perchè in Italia e anche negli altri regimi democratici, il rapporto tra corpo elettorale e classe politica non è un rapporto diretto, e tra uno e l'altro ci stanno i partiti organizzati, che combinano il metodo elettivo con quello della cooptazione, dicendo quindi soltanto una mezza verità.

Affermare che i candidati vengono selezionati all'interno dei partiti, è anche questa una definizione mezzana rispetto alla verità dei fatti, è necessario soffermarsi sulla domanda: “chi, entro i partiti, effettua concretamente la scelta?”

La selezione non viene fatta dal corpo del partito nel suo complesso, ma nella maggior parte dei casi dai dirigenti nazionali e locali, le cui decisioni gli iscritti si limitano a ratificare. Questo significa che milioni di elettori, votando, fanno una “scelta” tra i candidati “imposti” loro da un esiguo numero di “capi partito” locali o nazionali, il più delle volte dalle poche decine di persone che contano veramente nella classe politica del paese, per dirla con Bryce (che descrisse nella seconda metà dell'Ottocento gli Stati Uniti d'America nel loro metodo di elezione delle cariche): “Gli stessi uomini sono sempre rieletti, perchè tengono nelle loro mani le fila del movimento, perchè sono più al corrente e si occupano più degli altri degli affari del partito”.

Max weber nella sua “riflessione sul partito politico”, sosteneva che inevitabilmente la formazione del programma e delle liste dei candidati si trova nelle mani di una minoranza, che al vertice di ogni partito politico si trova un “nucleo stabile” di professionisti della politica, guidato da un capo o da un gruppo di notabili coadiuvato da un esteso apparato burocratico:

“Questo nucleo determina di volta in volta il programma, la procedura e i candidati, su queste decisioni la base esercita generalmente un'influenza molto scarsa, anche in una forma molto democratica di organizzazione di un partito di massa, almeno la massa degli elettori, ma in misura abbastanza consistente anche quella dei semplici iscritti, non partecipa (o partecipa in maniera solo formale) alla determinazione dei programmi e alla scelta dei candidati”.

Nella celebre “Legge ferrea delle oligarchie” Robert Michels, sostiene che “organizzazione” significa oligarchia, che è di per se stessa la causa del predominio degli eletti sugli elettori, dei mandatari sui mandanti. Infatti Michels riprende la altrettanto celebre critica di Rosseau al sistema rappresentativo, secondo la quale appena si è dato dei rappresentanti, il popolo “non è più libero”. Ma anche se molti punti della sua interpretazione paiono confermare che il bersaglio polemico di Michels sia semplicemete la democrazia rappresentativa applicata al partito, la cosa non è così vera, piuttosto la si usa in modo giustificazionista per dare a intendere che il problema dell'oligarchia è intrinseco alla natura del potere ed è perciò ineliminabile. Apparentemente Michels sembra non credere non solo alla democrazia indiretta, ma nemmeno a quella diretta, perchè nemmeno questa riuscirebbe a fare a meno dei “capi”, come una assemblea popolare non può fare a meno di una autorità che stabilisca l'ordine del giorno, e stando alle leggi della psicologia di massa, una grande assemblea è esposta all'influenza del linguaggio demagogico e preda di abili e spregiudicati oratori. Perfino i referendum sono manipolabili dai capi partito, a mezzo di una formulazione delle domande e una interpretazione interessata dei risultati. La democrazia rappresentativa vista come tradimento della democrazia vera, quella diretta, è quindi impossibile. Questa critica alla democrazia rappresentativa condotta da Michels può apparire incomprensibile a chi vede oggi la democrazia rappresentativa come l'unica possibile, in realtà essa diventa comprensibile e condivisibile se la critica viene fatta in base alla accezione di “oligarchia chiusa”, dove il termine oligarchia sta ad indicare un gruppo dirigente chiuso, che si perpetua al potere con mezzi leciti, ma soprattutto illeciti e che si rinnova soltanto attraverso la pratica della “cooptazione”. Possiamo ragionevolmente sostenere che vi è in tale esercizio del potere una degenerazione della democrazia, che si trasforma in “forma di governo autocratica”, dove i leaders si isolano, formando gli uni con gli altri dei “patti difensivi”, erigendo un muro che solo quelli a loro graditi possono scalare; ovviamente chi è giunto ai vertici del partito cercherà in tutti i modi di reiterare la propria posizione di dominio, circondandosi di nuove difese, sottraendosi al controllo di massa e soprattutto alla giurisdizione. Il risultato sarà la formazione di una leadership stabile e inamovibile, chiusa nell'isolamento di una casta che si rigenera con la cooptazione.

Sono molti i metodi per conservare il potere anche quando c'è malcontento anche nella base del partito, quando è crescente l'insoddisfazione, si limita la libertà di espressione all'interno del partito, screditando gli oppositori, etichettandoli come demagoghi, incompetenti, irresponsabili, che mettono a rischio l'unità del partito. Si possono manipolare le elezioni al momento del rinnovo degli organismi dirigenti escludendo dalla competizione gli sfidanti più pericolosi; candidando alle elezioni per il parlamento soltanto coloro che sono ritenuti totalmente fedeli. Se poi, gli sforzi non fossero stati sufficienti a impedire l'opposizione interna, non la si affronta direttamente nella battaglia congressuale, ma la si indebolisce preventivamente attraverso la cooptazione di una parte dei suoi esponenti, di conseguenza non si esaurisce mai la lotta per il potere, nemmeno con l'avvento di un nuovo gruppo dirigente, piuttosto si assimila qualche soggetto nuovo nel vecchio gruppo dirigente.

Pur ritenendola una inevitabile conseguenza dell'oligarchia, Michels si rammaricava della mancanza di democrazia all'interno dei partiti, mentre molti in seguito hanno addotto questo a giustificazione di tale mancanza, ritenendo il carattere autocratico dei partiti un fatto irrilevante e fisiologico. Come osserva Bryce nel mondo della politica coloro che detengono il potere sono una ristretta minoranza, all'interno dei partiti affidare il potere ad un nucleo ristretto di capi è una necessità imposta dalla lotta per il potere. Analogamente Max Weber sostiene che un partito è sempre un organismo in lotta per il potere, ed è quindi organizzato in modo molto rigido e autoritario, e che se un partito si organizza in modo autocratico, gli altri partiti dovranno fare altrettanto per non essere meno efficienti nella lotta per il potere.

Sartori sostiene che se come diceva Schumpeter, la democrazia è la forma di governo in cui minoranze organizzate, cioè i partiti, competono per il governo, chiedendo il voto alla maggioranza disorganizzata degli elettori, ne abbiamo che questi ultimi hanno il potere di assegnare la vittoria all'una o all'altra delle minoranze in competizione, questo potere non viene diminuito dal fatto che le minoranze in competizione siano governate in modo autocratico. Secondo questo punto di vista Michels sbagliava a cercare la democrazia dove non è importante, cioè dentro i partiti, perchè la democrazia deve essere cercata nel rapporto tra partiti, si ha una forma di governo democratica quando le masse sono ragionevolmente libere scegliere di entro una rosa di èlites politiche in competizione tra loro, cioè i partiti.

In realtà si può falsificare questo ragionamento, ipotizzando un sistema bipartitico o anche bipolare, cioè composto da due coalizioni compatte; se un elettore è deluso della condotta del partito di appartenenza, ma è legato ai valori che esso rappresenta, ed è molto contrario agli interessi sostenuti dal partito avversario, difficilmente trasferirà il suo voto a quest'ultimo che da sempre osteggia. In questo caso l'elettore non ha la possibilità di scelta di cui parla Sartori, bensì può fare solo due cose: formare un nuovo partito che deve essere abbastanza forte da raggiungere almeno il parlamento, oppure restare nel proprio partito battendosi per cambiarne la politica e il gruppo dirigente. Poiché la prima impresa è molto difficile soprattutto in un sistema bipartitico, gli resta solo la seconda, questo è quello che Hirschman definisce “voice”, cioè protesta. Però la battaglia sarà tanto più difficile quanto più il partito è governato in modo autocratico e dominato da una oligarchia chiusa che tende a sottrarsi alla lotta politica aperta spegnendo sul nascere tutti i tentativi di opposizione, in tal caso l'elettore deluso, potrebbe abbandonare ogni interesse per la politica, cadendo nell'apatia e disertare le urne; questo sarebbe un grave danno alla democrazia, ed è sotto gli occhi di tutti il fatto che tale fenomeno è in aumento.

Un partito che si voglia definire democratico, deve essere un partito nel quale la lotta per la conquista delle posizioni di potere e le battaglie per i programmi e i valori, devono svolgersi in piena libertà e non essere inibiti o peggio soffocati, pur all'interno di regole; perchè sostenere che un partito è fragile nello scontro con gli altri significa ritenere la lotta politica interna, che deve essere condotta democraticamente, come un elemento negativo e di debolezza, significa giudicare negativamente il conflitto, riesumando le “Teorie dell'ordine”, come se non avessero prodotto abbastanza danni, sarebbe un modo di agire contrario e opposto a quello che si può trovare nel pensiero liberale, nella grande tradizione (come ci insegna Bobbio) del liberalismo di Kant, John Stuart Mill, Luigi Einaudi e tutti coloro che hanno sempre visto nel conflitto un importante e fondamentale fattore di miglioramento. Non si può in democrazia prescindere dalla “lotta” in tutte le sue forme: economica sotto forma di concorrenza,, ideologica all'interno di dibattito delle idee, politica, in forma di contrasto di parti all'interno di uno stato. Sarebbe deleterio e pericoloso soffocare il conflitto, come del resto hanno insegnato tutti i grandi filosofi della politica, da Platone a Hobbes, che la ritenevano importante al punto di stimolarla e proteggerla oltre che regolarla per non lasciarla degenerare nella disgregazione delle società tutte.

Luigi Einaudi scrisse: “ Conformismo, concordia, leggi repressive degli abusi della stampa sono sinonimi e indici di decadenza civile. Lotte di parte, critica, anticonformismo, libertà di stampa preannunziano le epoche di ascensione dei popoli e degli stati”.

Che altro è la protesta se non lotta politica all'interno del partito, la quale può svilupparsi liberamente soltanto in un partito governato democraticamente?

Hirschman a ragione, considera la “protesta” voice, il rimedio principe alla crisi dei partiti, oltre che degli stati, le proteste che i membri insoddisfatti di un partito muovono contro i propri dirigenti possono, anzi devono, spingere questi ultimi ad attuare i cambiamenti necessari per rendere il partito più competitivo ed arrestarne l' altrimenti inevitabile declino.

Sono queste buone ragioni per sostenere che la democrazia all'interno dei partiti sia tanto necessaria per la democraticità del sistema complessivo, quanto indispensabile per la sopravvivenza e l'identità dei partiti medesimi, nonostante ciò, tutto sembra confermare che nelle nostre democrazie i partiti a dispetto delle trasformazioni sociali subite dai tempi di Michels, hanno continuato e continuano tutt'ora ad essere gestiti in modo oligarchico, Tra le promesse non mantenute della democrazia Bobbio ha indicato la nascita della società pluralistica, che ora appare più che mai necessaria, per la sopravvivenza della stessa.

Andrea Ermano: l'Avvenire dei lavoratori

L'Avvenire
dei lavoratori

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Un tentativo di ricapitolazione imperniato sui tempi e sui costumi
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di Andrea Ermano

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Prima dell'imminente pausa estiva, che abbiamo posticipato a causa di una panne informatica, vorrei misurarmi con un compito facile in apparenza. Vorrei interrogarmi sui tempi in cui viviamo.

Importanti scuole di pensiero disputano circa la possibilità di conoscere i "tempi", non da ultimo perché questi ci si muovono sotto il naso, continuamente. E si tratta di un movimento magico, a ben vedere, dato che la dinamica dei "tempi" evolve in funzione dei pensieri che produciamo, e delle loro conseguenze.

Per una magia (una grande magia, l'unica vera a me nota) sembra che noi influenziamo i tempi in cui viviamo, e viceversa.

Noi stiamo di fronte ai nostri tempi come dinanzi a uno specchio vertiginoso, nel quale troviamo riflesso il nostro Esserci. E d'altronde, se la parola "tempo" è un altro nome per "esistenza", pare fin quasi ovvio che i tempi in cui viviamo ci rimandino a noi stessi. Il che potrebbe facilitare le cose; se non le complicasse. A ragione, infatti, gli studiosi dell'animo umano ci ammoniscono sull'opacità dell'Io, che nel caso specifico è l'opacità di tutti noi rispetto a noi stessi.

Non è dunque facile districare i termini della questione. Ma anche se lo fosse, e se il tempo e la vita e noi medesimi ce ne stessimo immobili, come le belle statuine, a recitare un fermo immagine assolutamente chiaro e nitidissimo, beh, anche in tale ipotesi assurda, chi mai potrebbe dire qual razza di epoca è quella in cui siamo capitati?!

Per esempio, negli ultimi venticinque anni un’intera generazione, proclamatasi libertaria nella sua rivolta tardo-adolescenziale meglio nota sotto il nome di "Sessantotto", si è convertita in massa, o quasi, al liberismo selvaggio: ora va in quiescenza tra le molte macerie, inscritte in una trista parabola dominata dall'avidità. Persino a sinistra (o, se si preferisce, nel centrosinistra) il ben noto entusiasmo dei neofiti ha scatenato un'onda di nuovismo cinico. Questo è accaduto, non solo in Italia, ma in mezzo mondo.

Ieri burocrati moscoviti, oggi boss multimiliardari: ecco la Russia post-comunista. Dall'altra parte dello stretto di Bering il far west dell'edonismo finanziario è giunto allo strapiombo: ecco l'America para-liberale. E intanto nella Commissione di Bruxelles (a egemonia para-socialista e a guida prodiana, ahinoi) si puntava sul lucroso allargamento a est, suicidando la costituzione europea.

Macerie su macerie.

Mentre nell’ultimo quarto di secolo assistevamo attoniti a questo spettacolo, i problemi demografici, ecologici, sociali, economici, politici e strategici seguivano il loro corso. Siamo così capitati in questi nostri tempi di grandi aumenti. Aumenta la popolazione terrestre, aumenta la temperatura globale, aumentano le ricchezze dei ricchi e il numero degli affamati, aumentano qua e là i timori, le paure, le tensioni, i conflitti. Aumenta anche lo stupore verso la generazione di Woodstock, e mi ci metto dentro anch'io, che gestisce decine e decine di interventi militari ovunque nel mondo. Quante floride occasioni di profitto per la mafia delle armi, della droga e dei clandestini!

Insomma, le risorse morali e naturali sono quel che sono, per lo meno nel cosiddetto Occidente, sia esso di vecchio o di nuovo conio. Dobbiamo confessarlo con un granello di sincerità: le nostre prospettive non paiono propriamente rosee. Ma tant'è, cosiffatta si presenta la situazione dei tempi in cui viviamo. Fino a prova contraria.

Va da sé che sarebbe consigliabile uscire da questa situazione, e in fretta. Non è facile, ma almeno un’epoca del consenso ipnotico, dominata dal liberismo selvaggio, è finita (con la nazionalizzazione delle banche, quelle non fallite), mentre affondava nell'ignominia l'Armada Invencible di pennivendoli che ci hanno ripetuto fin oltre la nausea che il "libero" mercato si regola benissimo da sé... quanto meno fino a quando non servono le montagne di pubblico danaro per riempire spaventose voragini speculative.

Quanto tempo sprecato!

Beninteso, il mercato non può essere facilmente regolato, nemmeno a volerlo, perché il sistema d’interscambi ha carattere mondiale mentre i possibili meccanismi di controllo raggiungono (al più) il livello continentale. Ma si sa da un bel po' che l'anarchia capitalista agisce come una variabile impazzita, protesa a saccheggiare le risorse planetarie (di tutti) trasformandole nella ricchezza (di pochissimi).

Dunque, la necessità di un'istanza capace di regolare il "libero" mercato, prima che esso ci ammazzi tutti, si riassume nel "problema cosmopolitico": articolare una governance del mondo globalizzato. Vogliamo ricominciare a parlarne?

Ci fu un'Età dei Lumi nella quale il sommo Kant arditamente teorizzava una federazione cosmopolita delle nazioni a tutela della pace. Oggi la necessità di rafforzare l'ONU si direbbe un'evidenza piuttosto diffusa. In questo senso la costruzione europea potrebbe rivelarsi una miniera di tecnologie istituzionali assai utili alla Cosmopolis. E chissà che un asse USA-Cina non possa svolgere nel mondo un ruolo propulsivo analogo a quello franco-tedesco nell'Europa del Dopoguerra. Auguriamoci che i due giganti del Pacifico si accordino per contenere le emissioni di gas serra. Perché il tempo vola.

Sul sito di Radio Radicale (www.radioradicale.it/scheda/277812?format=32), è disponibile la registrazione del discorso tenuto da Carlo d'Inghilterra a Monte Citorio circa l'urgenza di evitare l’irreversibilità del surriscaldamento climatico. Nel discorso (durato non più di mezz'ora) viene sottolineato che restano circa novanta mesi per agire: novanta mesi votati (comunque) a cambiare il mondo.

Una delle possibili misure riparatorie sta verosimilmente nella produzione di energia tramite impianti solari da costruire nei deserti. Un'altra tecnica potrebbe venire dall'immissione nell'atmosfera di scudi nuvolosi capaci di schermare parte dell'irradiazione termica. Alcuni studiosi propongono poi una massiccia coltivazione di alghe marine atte ad assorbire grandi quantità di anidride carbonica. La lista delle tecniche finalizzate a contenere il surriscaldamento è destinata ad allungarsi, ma il primo posto in classifica rimarrà saldamente riservato a una techne molto speciale, che gli antichi chiamavano politikè.

Ricordiamolo: l'arte della politica è rimasta al centro della polis – prima, durante e dopo la lunga transizione storica dalla città-stato allo stato nazionale. E così sarà anche nella Cosmopolis, se Cosmopolis sarà.

Arte politica – o per meglio dire: cosmopolitica – significa capacità, necessariamente collettiva, di costruire una grandissima rete che però non si smaglia: capacità cioè di sviluppare un ragionevole grado di coordinazione generale umana, nel rispetto delle realtà locali e della pluralità culturale, pena il conflitto e quindi la catastrofe (perché il tempo fugge).

"Noi, il genere umano, siamo giunti ad un momento decisivo", diceva qualche tempo fa Al Gore, già vice presidente degli USA e premio Nobel per la pace: "È inaudito, e fa perfino ridere, pensare di poter davvero compiere delle scelte in quanto specie, ma è proprio questa la sfida che ci troviamo davanti".

E allora la domanda che, per concludere, ci poniamo riguarda la soggettività di questo grande discorso (e percorso) di scelte collettive a venire. Si dirà che il soggetto è qui il genere umano, il quale però non entra in scena come un soggetto "già dato". L'Umanità è il fine, la sfida, il compito. L'Umanità come soggetto politico si compie con il costituirsi della Cosmopolis. Ma lì bisogna prima arrivarci.

E dunque domandiamocelo: quali soggetti avrebbero la capacità di sostenere questo cammino verso l'Umanità? Poiché stiamo parlando di soggetti a dimensione internazionale, potremmo elencare: la comunità economico-finanziaria, le grandi religioni e la comunità scientifica. Tuttavia, queste comunità non s'intendono propriamente come soggetti politici.

Al più tardi a questo punto, constatiamo che è del tutto impossibile rimuovere dal video il maggior raggruppamento umano organizzato, la cui soggettività nacque un secolo e mezzo fa con chiara vocazione politica globale: Workers of all countries unite! – "Lavoratori di tutto il mondo unitevi!".

Girate pure la scacchiera come vi pare, il soggetto centrale della Cosmopolis sono le lavoratrici e i lavoratori con le loro organizzazioni. Oggi più che mai. Questa tesi sorprende anche me, tanto sembra polverosa. E mi rendo ben conto che non può destare l'entusiasmo né del sistema mediatico-pubblicitario-finanziario né delle varie caste sacerdotali di cui abbondiamo ovunque nel mondo. E però così è. Fino a prova contraria.

Molte esperienze storiche, esaltanti e terribili, si sono susseguite nell'alveo dell'Associazione Internazionale dei lavoratori sorta nel 1864 a Londra per iniziativa di Karl Marx. Quella soggettività si articola oggi in una vastissima rete globale di sindacati operai, partiti socialisti e democratici, movimenti cooperativi, fondazioni politico-culturali e mille altre istituzioni.

Folle sarebbe pensare che la Cosmopolis possa costituirsi senza le lavoratrici e i lavoratori di tutto il mondo. Perché il tempo incalza.

Prima dell'imminente pausa estiva, che abbiamo posticipato a causa di una panne informatica, vorrei misurarmi con un compito facile in apparenza. Vorrei interrogarmi sui tempi in cui viviamo.

Importanti scuole di pensiero disputano circa la possibilità di conoscere i "tempi", non da ultimo perché questi ci si muovono sotto il naso, continuamente. E si tratta di un movimento magico, a ben vedere, dato che la dinamica dei "tempi" evolve in funzione dei pensieri che produciamo, e delle loro conseguenze.

Per una magia (una grande magia, l'unica vera a me nota) sembra che noi influenziamo i tempi in cui viviamo, e viceversa.

Noi stiamo di fronte ai nostri tempi come dinanzi a uno specchio vertiginoso, nel quale troviamo riflesso il nostro Esserci. E d'altronde, se la parola "tempo" è un altro nome per "esistenza", pare fin quasi ovvio che i tempi in cui viviamo ci rimandino a noi stessi. Il che potrebbe facilitare le cose; se non le complicasse. A ragione, infatti, gli studiosi dell'animo umano ci ammoniscono sull'opacità dell'Io, che nel caso specifico è l'opacità di tutti noi rispetto a noi stessi.

Non è dunque facile districare i termini della questione. Ma anche se lo fosse, e se il tempo e la vita e noi medesimi ce ne stessimo immobili, come le belle statuine, a recitare un fermo immagine assolutamente chiaro e nitidissimo, beh, anche in tale ipotesi assurda, chi mai potrebbe dire qual razza di epoca è quella in cui siamo capitati?!

Per esempio, negli ultimi venticinque anni un’intera generazione, proclamatasi libertaria nella sua rivolta tardo-adolescenziale meglio nota sotto il nome di "Sessantotto", si è convertita in massa, o quasi, al liberismo selvaggio: ora va in quiescenza tra le molte macerie, inscritte in una trista parabola dominata dall'avidità. Persino a sinistra (o, se si preferisce, nel centrosinistra) il ben noto entusiasmo dei neofiti ha scatenato un'onda di nuovismo cinico. Questo è accaduto, non solo in Italia, ma in mezzo mondo.

Ieri burocrati moscoviti, oggi boss multimiliardari: ecco la Russia post-comunista. Dall'altra parte dello stretto di Bering il far west dell'edonismo finanziario è giunto allo strapiombo: ecco l'America para-liberale. E intanto nella Commissione di Bruxelles (a egemonia para-socialista e a guida prodiana, ahinoi) si puntava sul lucroso allargamento a est, suicidando la costituzione europea.

Macerie su macerie.

Mentre nell’ultimo quarto di secolo assistevamo attoniti a questo spettacolo, i problemi demografici, ecologici, sociali, economici, politici e strategici seguivano il loro corso. Siamo così capitati in questi nostri tempi di grandi aumenti. Aumenta la popolazione terrestre, aumenta la temperatura globale, aumentano le ricchezze dei ricchi e il numero degli affamati, aumentano qua e là i timori, le paure, le tensioni, i conflitti. Aumenta anche lo stupore verso la generazione di Woodstock, e mi ci metto dentro anch'io, che gestisce decine e decine di interventi militari ovunque nel mondo. Quante floride occasioni di profitto per la mafia delle armi, della droga e dei clandestini!

Insomma, le risorse morali e naturali sono quel che sono, per lo meno nel cosiddetto Occidente, sia esso di vecchio o di nuovo conio. Dobbiamo confessarlo con un granello di sincerità: le nostre prospettive non paiono propriamente rosee. Ma tant'è, cosiffatta si presenta la situazione dei tempi in cui viviamo. Fino a prova contraria.

Va da sé che sarebbe consigliabile uscire da questa situazione, e in fretta. Non è facile, ma almeno un’epoca del consenso ipnotico, dominata dal liberismo selvaggio, è finita (con la nazionalizzazione delle banche, quelle non fallite), mentre affondava nell'ignominia l'Armada Invencible di pennivendoli che ci hanno ripetuto fin oltre la nausea che il "libero" mercato si regola benissimo da sé... quanto meno fino a quando non servono le montagne di pubblico danaro per riempire spaventose voragini speculative.

Quanto tempo sprecato!

Beninteso, il mercato non può essere facilmente regolato, nemmeno a volerlo, perché il sistema d’interscambi ha carattere mondiale mentre i possibili meccanismi di controllo raggiungono (al più) il livello continentale. Ma si sa da un bel po' che l'anarchia capitalista agisce come una variabile impazzita, protesa a saccheggiare le risorse planetarie (di tutti) trasformandole nella ricchezza (di pochissimi).

Dunque, la necessità di un'istanza capace di regolare il "libero" mercato, prima che esso ci ammazzi tutti, si riassume nel "problema cosmopolitico": articolare una governance del mondo globalizzato. Vogliamo ricominciare a parlarne?

Ci fu un'Età dei Lumi nella quale il sommo Kant arditamente teorizzava una federazione cosmopolita delle nazioni a tutela della pace. Oggi la necessità di rafforzare l'ONU si direbbe un'evidenza piuttosto diffusa. In questo senso la costruzione europea potrebbe rivelarsi una miniera di tecnologie istituzionali assai utili alla Cosmopolis. E chissà che un asse USA-Cina non possa svolgere nel mondo un ruolo propulsivo analogo a quello franco-tedesco nell'Europa del Dopoguerra. Auguriamoci che i due giganti del Pacifico si accordino per contenere le emissioni di gas serra. Perché il tempo vola.

Sul sito di Radio Radicale (www.radioradicale.it/scheda/277812?format=32) è disponibile la registrazione del discorso tenuto da Carlo d'Inghilterra a Monte Citorio circa l'urgenza di evitare l’irreversibilità del surriscaldamento climatico. Nel discorso (durato non più di mezz'ora) viene sottolineato che restano circa novanta mesi per agire: novanta mesi votati (comunque) a cambiare il mondo.

Una delle possibili misure riparatorie sta verosimilmente nella produzione di energia tramite impianti solari da costruire nei deserti. Un'altra tecnica potrebbe venire dall'immissione nell'atmosfera di scudi nuvolosi capaci di schermare parte dell'irradiazione termica. Alcuni studiosi propongono poi una massiccia coltivazione di alghe marine atte ad assorbire grandi quantità di anidride carbonica. La lista delle tecniche finalizzate a contenere il surriscaldamento è destinata ad allungarsi, ma il primo posto in classifica rimarrà saldamente riservato a una techne molto speciale, che gli antichi chiamavano politikè.

Ricordiamolo: l'arte della politica è rimasta al centro della polis – prima, durante e dopo la lunga transizione storica dalla città-stato allo stato nazionale. E così sarà anche nella Cosmopolis, se Cosmopolis sarà.

Arte politica – o per meglio dire: cosmopolitica – significa capacità, necessariamente collettiva, di costruire una grandissima rete che però non si smaglia: capacità cioè di sviluppare un ragionevole grado di coordinazione generale umana, nel rispetto delle realtà locali e della pluralità culturale, pena il conflitto e quindi la catastrofe (perché il tempo fugge).

"Noi, il genere umano, siamo giunti ad un momento decisivo", diceva qualche tempo fa Al Gore, già vice presidente degli USA e premio Nobel per la pace: "È inaudito, e fa perfino ridere, pensare di poter davvero compiere delle scelte in quanto specie, ma è proprio questa la sfida che ci troviamo davanti".

E allora la domanda che, per concludere, ci poniamo riguarda la soggettività di questo grande discorso (e percorso) di scelte collettive a venire. Si dirà che il soggetto è qui il genere umano, il quale però non entra in scena come un soggetto "già dato". L'Umanità è il fine, la sfida, il compito. L'Umanità come soggetto politico si compie con il costituirsi della Cosmopolis. Ma lì bisogna prima arrivarci.

E dunque domandiamocelo: quali soggetti avrebbero la capacità di sostenere questo cammino verso l'Umanità? Poiché stiamo parlando di soggetti a dimensione internazionale, potremmo elencare: la comunità economico-finanziaria, le grandi religioni e la comunità scientifica. Tuttavia, queste comunità non s'intendono propriamente come soggetti politici.

Al più tardi a questo punto, constatiamo che è del tutto impossibile rimuovere dal video il maggior raggruppamento umano organizzato, la cui soggettività nacque un secolo e mezzo fa con chiara vocazione politica globale: Workers of all countries unite! – "Lavoratori di tutto il mondo unitevi!".

Girate pure la scacchiera come vi pare, il soggetto centrale della Cosmopolis sono le lavoratrici e i lavoratori con le loro organizzazioni. Oggi più che mai. Questa tesi sorprende anche me, tanto sembra polverosa. E mi rendo ben conto che non può destare l'entusiasmo né del sistema mediatico-pubblicitario-finanziario né delle varie caste sacerdotali di cui abbondiamo ovunque nel mondo. E però così è. Fino a prova contraria.

Molte esperienze storiche, esaltanti e terribili, si sono susseguite nell'alveo dell'Associazione Internazionale dei lavoratori sorta nel 1864 a Londra per iniziativa di Karl Marx. Quella soggettività si articola oggi in una vastissima rete globale di sindacati operai, partiti socialisti e democratici, movimenti cooperativi, fondazioni politico-culturali e mille altre istituzioni.

Folle sarebbe pensare che la Cosmopolis possa costituirsi senza le lavoratrici e i lavoratori di tutto il mondo. Perché il tempo incalza.

mercoledì 29 luglio 2009

Carlo beltramino: Perché non ho aderito al pd

da internet
PERCHE’ NON HO ADERITO AL PD

[…] Davvero si può dire, andando più indietro nel tempo, pensando ai riformisti alla Turati, ai socialisti liberali alla Rosselli, alla breve vicenda del Partito d'Azione che sono esempi di chi “ ha avuto ragione ma non ha fatto la storia”.

Pensiamo al Partito d’Azione. Un partito che nasce nel pieno della guerra, che in un tempo già dominato dalle ideologie contrapposte e dall’affermarsi dei partiti “chiesa” si contraddistingue per il fatto di unire al suo interno diverse culture riformiste: il socialismo liberale di Rosselli, il liberal socialismo di Calogero e Capitini, le posizioni liberal democratiche di Parri e La Malfa. Un partito che cessa di vivere nel 1947, dopo aver preso alle elezioni per l’Assemblea Costituente una percentuale irrisoria di voti, e che pure aveva tra le sue file uomini che nei decenni a venire avrebbero continuato a incidere nelle vicende e nella cultura di questo Paese, come “un fiume carsico” periodicamente destinato a riemergere. Viene da domandarsi se non sia stata, questa, una delle occasioni perse nella storia del riformismo italiano.[…] (dal discorso che Walter Veltroni ha pronunciato a fine marzo all’Università Luiss di Roma).

In questa analisi, messa in rapporto con l’attuale vicenda del Partito Democratico, stanno molte delle ragioni che mi hanno indotto a non aderire ad un partito che dimostra uno scarso grado di parentela, politica e culturale, con la straordinaria esperienza anticipatrice di cui Veltroni si dimostra sincero ammiratore.

Il Partito d’Azione, che tra gli altri ci ha lasciato in eredità Norberto Bobbio, Alessandro Galante Garrone e Carlo Azeglio Ciampi. Il partito di chi aveva ragione, come la storia ha dimostrato, e non ha potuto scrivere la storia perché schiacciato dai due grandi ghiacciai, il PCI e la DC. Che hanno governato l’Italia, pur da posizioni diverse, ingessandola e impedendo lo sviluppo della democrazia dell’alternanza.

Entrambi i partiti di massa hanno peraltro dimostrato per molti decenni scarsa simpatia per gli azionisti, bollandoli spesso come elitari, salottieri, radical schic o, nell’accezione dispregiativa, massoni.

All’opposto del Partito d’Azione che trovò la propria identità nelle radici risorgimentali, sia sul versante democratico e liberale sia su quello socialista, connotandosi quindi come forza politica “italiana”, PCI e DC, portatori di messaggi universalistici che avevano il loro centro propulsore in paesi stranieri, Unione Sovietica e Vaticano, rallentarono lo sviluppo della identità nazionale.

Vent’anni fa, con la caduta del muro di Berlino e la conseguente svolta della Bolognina, sembrò aprirsi u nuovo scenario: storicizzazione del passato e possibilità di costruire un sistema politico all’altezza delle grandi democrazie occidentali.

Referendum Segni, sistema maggioritario, Alleanza Democratica (primo vero tentativo dopo quello del Partito d’Azione di portare a sintesi le culture riformiste del nostro Paese) fecero riemergere il fiume carsico degli azionisti. Tutti impegnati, repubblicani in testa, nella costruzione di una sinistra plurale che contendesse alla destra, su un programma chiaro e definito, il governo del Paese.

E di nuovo una battuta di arresto. Gli azionisti, per i quali il partito è semplice strumento per realizzare un progetto, decisi ad accelerare la costruzione di un nuovo soggetto politico. Gli eredi di PCI (soprattutto) e DC, per i quali il partito è una sorta di totem attorno al quale ritrovarsi unanimemente, a rallentare.

E gran parte degli attuali paladini del PD fermi a guardare, spesso con la supponenza dei numeri, un impegno forse velleitario per i tempi ma lucido e generoso.

Poi l’esperienza dell’Ulivo. Positiva perché ha sviluppato su ampia dimensione il senso della macro-appartenenza, propedeutico alla costruzione della tanto agognata casa comune dei riformisti.

E Romano Prodi, due volte vincitore su Berlusconi e due volte sconfitto dai suoi. Unico statista della seconda repubblica, come Blair, Aznar, Schroeder dopo l’esperienza di governo ha deciso di occuparsi d’altro.

Oggi il congresso del PD. Un partito nato dall’accordo tra le burocrazie formatesi nei due grandi partiti “chiesa”. Con una forte preponderanza di post comunisti come risulta chiaramente scorrendo i nomi degli organigrammi locali o nazionali o semplicemente visitando qualche festival del PD.

Un partito che vorrebbe darsi una identità liberaldemocratica e liberalsocialista e di fatto occupare uno spazio politico culturale che storicamente appartiene ad altri. Si può capire e regolare l’economia di mercato quando si è cresciuti sognando l’economia collettivistica? O ammirare Obama e gli USA quando per anni si è calpestata la bandiera a stelle e strisce? O difendere le ragioni di Israele quando si è amato Arafat? O essere europeisti quando si è stati scettici con il Mercato Comune Europeo? O commuoversi alle note dell’inno di Mameli e allo sventolio del tricolore quando per anni si sono trattenute a stento le lacrime al suono dell’Internazionale in un tripudio di bandiere sovietiche? O citare Gramsci ad ogni piè sospinto salvo poi, cambiata l’epoca, cancellarlo totalmente del lessico lasciando alle università americane e giapponesi lo studio del grande intellettuale sardo?

Penso di no. Forse stiamo assistendo alla più grande operazione di trasformismo politico dell’Europa moderna. E proprio perché non credo che centinaia di migliaia di militanti possano all’improvviso cambiare coordinate mentali, quasi fossero tutti novelli Paolo di Tarso, proponendosi come profeti del nuovo, rimango a guardare.

Del resto la classe dirigente che guida il presunto cambiamento non è credibile, come dimostrano i quattro milioni di voti evaporati alle ultime elezioni. Il popolo sovrano ha emesso la sua sentenza.

Più che della celebrazione di un congresso con la inevitabile conta dei pacchi di tessere ci sarebbe la necessità di aprire una fase ri- costituente della sinistra italiana, con un confronto serrato sulle idee e non sui numeri.

In tal caso il fiume carsico potrebbe riemergere e mettere a disposizione del progetto il suo patrimonio politico culturale.

Carlo Beltramino

Elisa Migliaccio: ai compagni socialisti di sinistra e libertà

da facebook

Ai compagni socialisti di SeLCondividi
Ieri alle 21.50
Cari compagni, sono sempre stata diffidente nei confronti dei socialisti dato che molti di essi nella mia città hanno sempre preso posizioni che non condividevo: liberisti in economia, sempre consenzienti alle esternalizzazioni di servizi pubblici, anche di quelli che dovrebbero garantire diritti universali e poco sensibili alle problematiche del lavoro.
Poi ho conosciuto anche attraverso internet compagni socialisti con i quali piano piano ho cominciato a credere che fosse possibile costruire un progetto comune e fare diventare SeL ,che a me è sembrata , quando è nata, un cartello elettorale, l'inizio della nascita di una vera forza di sinistra unitaria e "utile" per la nostra società.
Ma subito dopo le elezioni è rinata in me la diffidenza verso il PS
Perché non si è sentito l'esigenza di convocare un Congresso straordinario per decidere lo scioglimento in SeL ed invece il PS ha dichiarato di essere disponibile ad una federazione per le elezioni del prossimo anno?
Poi la Commissione Elettorale del Consiglio Regionale Toscano ha sancito l’accordo fra PD e PDL sulla Legge elettorale regionale: soglia di sbarramento al 4% e consiglieri regionali nominati dalle segreterie dei partiti, impedendo la scelta degli elettori. Questa proposta di Legge è stata votata anche dal Partito Socialista mentre hanno votato contro tutti gli altri gruppi: Sinistra Democratica, Verdi, Misto, Rifondazione, Comunisti Italiani e UDC.
Sì. i socialisti toscani si sono alleati con il PD ed hanno votato in modo cotrario alle altre forze di cui sono alleati in SeL. Veramente incomprensibile per me la motivazione che ha dato Pieraldo Ciucchi, presidente gruppo PS Consiglio regionale della Toscana che qui vi riporto ;
"Obiettivo dei Socialisti – e anche quello di Sinistra e Libertà il cui progetto continua – è sollecitare con coerenza la formazione di un centrosinistra e di una nuova sinistra che facciano della responsabilità di governo l’elemento portante della loro politica.

Per questo, occorre mettere in campo coalizioni coese che abbiano punti di affinità programmatica capaci di rispondere alla crisi con idee grandi perché grandi sono le trasformazioni che stiamo vivendo e conoscendo.

In Toscana, a maggior ragione, i Socialisti non possono discostarsi da questa impostazione nemmeno a fronte di una legge elettorale che assume lo sbarramento al 4% e nonostante si siano battuti per affermare la loro posizione che fissava la riduzione dei consiglieri a 50, la soglia di sbarramento al 3% e il ripristino del voto di preferenza.

Il Partito Socialista vuole continuare ad interpretare il socialismo europeo ed è impegnato a delineare il campo di un “socialismo largo” fra socialisti, Sinistra Democratica, Vendola se ci sta. Vogliono rilanciare in Italia ciò che i Socialisti europei hanno fatto in Europa e cioè l’alleanza fra Socialisti e Democratici.

In questo senso, i Socialisti si sentono impegnati a dare concretezza alla definizione di un progetto che si candidi a governare la Toscana, che insieme al Partito Democratico sia assunto anche da quelle forze che intendono rappresentare la sinistra del futuro, una sinistra di governo, riformatrice, europea.

Il Partito Socialista vota la nuova legge elettorale scommettendo su questa politica, la sola in grado di riportare il centrosinistra a competere per battere la destra.

I Socialisti toscani vogliono andare a vedere se il Partito Democratico vorrà superare l’isolamento veltroniano per sostituirlo con una strategia delle alleanze che faccia della Toscana un laboratorio politico nazionale. Se così non fosse – e c’è tempo per verificarlo – non metteremo nelle mani di nessuno la nostra libertà. "

Se ho ben interpretato il punto \\\"Il Partito Socialista vuole continuare ad interpretare il socialismo europeo ed è impegnato a delineare il campo di un “socialismo largo” fra socialisti, Sinistra Democratica, Vendola se ci sta. Vogliono rilanciare in Italia ciò che i Socialisti europei hanno fatto in Europa e cioè l’alleanza fra Socialisti e Democratici.\\\"
mi chiedo: SeL dovrebbe diventare cosa vogliono i socialisti ?Sel può fare a meno di Vendola? Sono i socialisti che decidono cosa deve essere SeL e chi ci deve stare? O lo dobbiamo creare tutti insieme questo nuovo soggetto politico, senza che una forza cerchi di avere il sopravvento sullle altre?
E poi con grande franchezza: il voto dei socialisti nella Commissione elettorale toscana non è forse dettato dal desiderio di non rinunciare ai consigliere ed agli assessorati che il PD ha l'intenzione di riservato a SeL se accetterà di presentarsi in una lista unica con loro?

Alberto Benzoni, Socialismo e statalismo

>>>> saggi e dibattiti
Tamburrano, nel numero di maggio di Mondoperaio, parla
di “Risorgimento socialista”. E alla vigilia delle elezioni
europee. Ma, attenzione, la sua è un’esortazione; o, se
vogliamo, un ammonimento. E non certo una previsione elettorale.
Al contrario. Se, infatti avesse scritto il suo articolo
all’indomani del 7 giugno, avrebbe cambiato semplicemente
il titolo. Diciamo: “Un’occasione perduta. Le ragioni di una
sconfitta”. Mantenendo, invece, le argomentazioni usate in
precedenza. In sintesi: è entrata in crisi la globalizzazione
liberista, senza regole e tutele; e sono tornati, di conseguenza,
all’ordine del giorno i temi del ruolo dello Stato e cioè del
governo dell’economia e cioè della democrazia sociale. Ma i
partiti socialisti non erano, comunque, in grado di rappresentarli
in modo credibile, essendo stati, a partire da Blair, cantori
e praticanti delle virtù del mercato. Si è dunque creato un
vuoto; riempito dalla vera vincitrice delle elezioni europee, la
destra populista ed identitaria.
Un’analisi che non fa una grinza. Tanto da essere stata fatta
propria dalla generalità dei commentatori ( in questo caso,
con il senno del poi). A completare il quadro va però ricordato
che i socialisti non sono stati penalizzati perché troppo
“moderati”. Se così fosse stato a beneficiare della loro flessione
avrebbe dovuto essere la sinistra radicale e anticapitalista:
mentre quest’ultima ha conservato a fatica le sue, molto
insoddisfacenti, posizioni del 2004. Un argomento importante
per la nostra discussione; un segnale del fatto che la gente
ha espresso la sua protesta ( votando ma, per lo più, astenendosi
) non tanto nei confronti di capitalisti e banchieri, quanto
piuttosto verso la “globalizzazione in sé”; tema, sarebbe
bene ricordarlo da subito, che appartiene alle destre “nazionali”
più che alla sinistra.
Ma, allora, siamo alla fine del socialismo? La tesi non meriterebbe
particolare attenzione (anche perché ci è stata
ammannita, ad intervalli vari, da più di un secolo). Se non per
due motivi. Il primo è che è stata fatta propria, tra gli altri, dal
nostro PD. Il secondo è che identifica le sorti del socialismo
con quelle dello statalismo. Sul PD, poco da dire: l’aspirare al
non essere niente per poter rappresentare tutto è, da sempre,
un suo marchio di fabbrica. Singolare, e istruttivo è però che
si dichiari morta e sepolta, in Italia, una appartenenza che si
intende, invece, fare propria a livello europeo: socialisti al di
là delle Alpi, “superatori”dei medesimi da Bolzano a Trapani.
E, ancora più istruttivo il fatto che gli esponenti dell’ineffabile
PSE si siano prestati al giuoco, in una logica, per dirla volgarmente,
che non riguarda la politica ma la ripartizione degli
incarichi.
Quanto poi all’identificazione socialismo-statalismo, è tutta
da verificare. Sino a prova contraria, infatti, l’idea socialista
si è identificata, sin dall’inizio, con l’emancipazione dei lavoratori
e cioè con la capacità delle persone di essere “padrone
del proprio destino”, individuale e/o collettivo; prospettiva di
cui l’uso del potere pubblico era soltanto uno strumento. Il
passaggio è importante; e non per aprire nuove dispute sui
massimi sistemi ( non siamo all’altezza), ma per cogliere la
tela di fondo del processo di revisione affermatosi nel movimento
socialista negli ultimi decenni del secolo scorso. Così,
i suoi dirigenti- e non solo il famigerato Blair, ma anche
Schroeder e D’Alema, Zapatero e Jospin- sposano la causa
della globalizzazione non per chissà quale annebbiamento
ideologico ma perché si tratta di un “orizzonte necessario”,
rispetto al quale le vecchie ricette e i vecchi strumenti sono,
in linea di fatto, sempre meno praticabili.
La loro scommessa, sia detto per inciso, è quella tradizionale
della socialdemocrazia. Accettare, anzi promuovere, lo sviluppo
del sistema, in cambio di maggiori benefici per i lavoratori
e i cittadini. Ed è una scommessa che, per lunghi anni,
appare vincente. Perché il boom economico mondiale coincide-
e non a caso- con l’avvento al potere, in Europa, in America
latina e altrove, di governi di sicura caratura democratica
e con significativi disegni redistributivi ( governi, tra l’altro,
ancora saldamente in sella e, guarda caso, proprio nei paesi,
come India e Brasile, che stanno già uscendo dalla crisi).
Così è stato in passato- più sviluppo, più socialdemocraziacosì
è stato ora. Ma vale anche l’inverso: e cioè più crisi più
Socialismo e statalismo
>>>> Alberto Benzoni
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mondoperaio 5/2009 / / / / saggi e dibattiti
destra. Così è stato ultimamente; così erano andate le cose
all’indomani della grande depressione del 1929; ne erano
emersi il New Deal e la socialdemocrazia svedese; ma anche
l’affermazione della destra nazista e fascistoide in gran parte
dell’Europa continentale. A riprova del fatto che l’esaltazione
del ruolo dello Stato, anche in economia, non è di per sé un
discrimine tra i due schieramenti. Allora non rimane che
attendere fiduciosi la futura ripresa ( affidata alle buone cure
di altri)? Forse le cose non sono così semplici, ed anche la
situazione di oggi è assai meno drammatica di quella di ottant’anni
fa.
Agli inizi degli anni trenta ad essere sotto scacco era la stessa
democrazia liberale, e però la sinistra, socialista e comunista,
aveva conservato la stragrande maggioranza del voto operaio.
Oggi il sistema non è in discussione; e però la sinistra
vede un po’ dappertutto in crisi il rapporto con il suo “popolo”.
Ora, questo stato di cose non è scontato e nemmeno “normale”.
E’, piuttosto, in larga misura, per usare una metafora
religiosa, frutto dei nostri peccati Peccati di omissione ( o,
fuor di metafora, di “ritardo”) in primo luogo. Qui scontiamo
non il “troppo” ma il “troppo poco”. E cioè un internazionalismo
del tutto insufficiente perché nient’affatto concreto.
Così, esaltiamo l’”Europa della pace e dei diritti”; ma non siamo
affatto promotori di progetti degni di questo nome per il
suo concreto futuro. Così invochiamo una globalizzazione
governata; ma non ci curiamo del come e del dove. Così,
viviamo in modo del tutto formale e burocratico i rapporti con
gli organismi internazionali- istituzionali o di partitoanch’essi,
e soprattutto questi ultimi, abituati da tempo a
muoversi nel nulla.
Ai “ritardi”- o peccati di omissione- si può naturalmente
rimediare. Nel tempo. Più preoccupanti, invece, i peccati di
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saggi e dibattiti / / / / mondoperaio 5/2009
“pensiero”. Quelli, per intenderci, che hanno reso la sinistra
incapace non solo di difendere adeguatamente il suo popolo
ma anche, e soprattutto, di parlarci e di ascoltarlo. Ascoltare
era necessario. E per ragioni terribilmente concrete. Perché il
mondo del lavoro “tradizionale”è quello che subisce in pieno
l’impatto della globalizzazione: dalla stagnazione dei salari
reali alla erosione delle tutele; dall’emigrazione dei posti di
lavoro all’immigrazione delle persone, per tacere della sicurezza.
Ascoltare, per parlare; spiegare e trovare rimedi. I vecchi
( socialdemocratici e comunisti) avevano, in materia, un
istinto sicuro. E i loro epigoni?
Il quadro non è certo positivo ( in Italia; ma non solo). Silenzio
assordante sulla questione salariale (soprattutto nel privato,
dove non scattano automatismi corporativi) e, più in generale
su quella della (re) distribuzione dei redditi. E, sul tema
centrale del rapporto immigrazione-sicurezza, totale incapacità
di iniziativa politica autonoma; così da oscillare periodicamente,
e penosamente, tra rincorse concrete a destra (
all’insegna dello slogan:” non lasciare alla destra i temi della
sicurezza”) e soprassalti di moralismo buonista ( che portano
ad esibizioni di retorica antirazzista fatte dalle persone sbagliate,
nei luoghi sbagliati e nei confronti di persone per nulla
colpevoli di questo reato).
E, allora, quell’istinto si è perso. Su questo punto, Tamburrano
ha ragione: c’è stata una sorta di mutazione genetica. Di
cui occorre però capire la natura.
L’ipotesi più scontata è quella del “cambiamento di campo”.
Qui la perdita di sensibilità di classe, insomma l’incapacità di
rapportarsi con la propria gente deriverebbe dall’accettazione,
tacita quanto acritica, dei principi e delle regole del capitalismo
globalizzatore. E’ la versione moderna, e più sofisticata,
della antica teoria del “tradimento”. Allora, i dirigenti
passavano al nemico, lucidamente e in cerca di un tornaconto
personale. Oggi si scivola tutti assieme magari con le migliori
intenzioni e senza rendersene conto. Ma forse le cose non
stanno proprio così.Forse non ci siamo trasferiti nel campo
avverso; ma altrove. Non nel campo capitalista; ma in quello,
a noi amico, della borghesia liberale, riflessiva, sensibile, dei
valori.
Stiamo parlando ( e molto sinteticamente) di un fenomeno
che non riguarda soltanto l’Italia ma l’insieme dei paesi latini
e molti paesi dell’Est europeo; realtà diverse ma accomunate
dal fatto di avere avuto una sinistra fortemente connotata
dal punto di vista ideologico. Qui il matrimonio tra sinistra
e “borghesia dei valori” è stato, in primo luogo, un matrimonio
d’interesse; per diventare però ben presto un matrimonio
d’amore. Chiave di volta del mutamento, la caduta del muro
di Berlino. Evento che, in sintesi, ha liberato la sinistra dal
suo secolare passato ideologico e la borghesia dalle sue altrettanto
secolari paure; portando, di conseguenza, alla loro unione
sul terreno non già dei progetti ma delle comuni sensibilità,
della sostituzione della politica con il moralismo; insomma,
per dirla con il gergo di oggi, del “buonismo”.
A segnarne le vie la borghesia liberale e post-moderna; quella
della cultura e delle professioni, del respiro internazionalista
e della sensibilità morale e istituzionale, della buona
volontà e del rimorso, del terzomondismo e della aspirazione
alla pace. Una classe dirigente con tantissime qualità. Ma
anche con “limiti di visuale” abbastanza evidenti. A partire
dalla sua pressoché totale incapacità di misurarsi con il mondo
reale; e quindi con il male e con il conflitto. Il suo approccio
alle cose non ha nulla a che vedere con quello del vecchio
popolo di sinistra. L’una e l’altro parlano lingue diverse e
vedono cose diverse. E non sono perciò in grado di comunicare.
Allo stesso modo e per le stesse ragioni per cui l’Europa
non è in grado di comunicare con i suoi popoli.
Conclusioni? Nessuna. Salvo a dire che non è e non può essere
all’ordine del giorno per la sinistra né un cambiamento di
campo né un ritorno al passato. C’è, semmai, un approccio da
arricchire e una posizione da ricalibrare. E rendersi conto del
problema sarebbe, allo stato, un buon passo avanti.