venerdì 29 agosto 2014

Elio Veltri: L' evasione fiscale imperversa ma Renzi non vede, non sente e non parla

L' evasione fiscale imperversa ma Renzi non vede, non sente e non parla La guardia di finanza calcola che l'evasione da esportazione illecita di capitali equivale al 29% del totale dell'evasione del paese. Quindi, ogni anno da 50 a 70 miliardi di euro sotratti allo Stato, volano verso la Svizzera, il Lussemburgo, paradiso fiscale governato per venti anni dal neo-presidente della Commissione Europea, e verso altri paradisi fiscali. Il governo non se ne occupa e tace e così fanno in Parlamento maggioranza e opposizione. Tutti zitti perchè gli evasori votano, sono circa 15 milioni e nessuno vuole rinunciare ai loro voti. Ma qui stiamo parlando dei grandi evasori annidati nell'economia sommersa e criminale, pari a 600 miliardi di PIL, che non sono certo milioni. Lo Stato riesce a snidarli con difficoltà, ma anche quando ci riesce, non è capace o non vuole farsi pagare. Qualche dato fa capire meglio la situazione. Il governo Letta, rispondendo a due “question time”, aveva informato il Parlamento che dal 2000 al 2012 su 807 miliardi di tasse accertate e messe a ruolo, lo Stato aveva incassato 69 miliardi pari a 9 euro su 100. Oltre 100 miliardi non erano esigibili per fallimenti vari e considerati altri impedimenti lo Stato rimaneva creditore di 540 miliardi di euro. Ma ministri, burocrati e Agenzia delle entrate hanno lasciato capire che quei soldi lo Stato non li avrebbe mai incassati. Questo perchè normalmente a fine contenzioso incassa il 3-4% di quanto dovrebbe. In qualsiasi paese europeo e negli Stati Uniti un governo che si comportasse allo stesso modo dovrebbe dimettersi. In Italia non succede nulla perchè non si riesce nemmeno a parlarne seriamente. Se si esclude Report di Milena Gabanelli, la televisione ignora il problema. Eppure i debitori con debiti maggiori di 500 mila euro valgono il 40% delle riscossioni complessive. Quindi non stiamo parlando del bar sotto casa e nemmeno di imprese familiari. Altro dato: chi deve al fisco più di 50 mila euro rappresenta circa il 3% delle rateizzazioni ma il 53% degli importi da incassare mentre i piccoli debiti fino a 5000 euro rappresentano l'11,3% dei debiti complessivi delle rateizzazioni in corso pari a 25,5 miliardi. . I dati confermano che facendo pagare le tasse ai grandi e medi evasori si possono trovare i soldi da investire in scuola,ricerca, innovazione e servizi pubblici essenziali. Una politica che ricava le risorse per mandare avanti il paese quasi esclusivamente dai redditi fissi sovverte anche i pilastri della democrazia liberale e la sua regola centenaria:” No representation without taxation”. Oltre a quelle dell'etica pubblica e della decenza quando include nel PIL i proventi del traffico di droga, della prostituzione e tratta egli esseri umani, del contrabbando. Ma questa è una vergogna anche europea. Elio Veltri- Presidente Comitato provvisorio Costituente Socialista

giovedì 28 agosto 2014

FORMICA: RENZI? STA PERDENTO TUTTE LE SUE (FINTE) BATTAGLIE

FORMICA: RENZI? STA PERDENTO TUTTE LE SUE (FINTE) BATTAGLIE

Felice Besostri: Dibattersi invece di dibattere

Dibattersi invece di dibattere L’approvazione da parte del Senato del complesso di di emendamenti alla Costituzione vigente, in particolare ai titoli I-Parlamento e –V Le Regioni, le Province, i Comuni della Parte Seconda potrebbe passare alla storia, come un esempio di dedizione dei Senatori al supremo interesse della Nazione, come del resto sarebbe loro dovere costituzionale ex art.67 V Cost., invece che alla loro sorte personale. Infatti hanno deciso di auto sopprimersi, senza sopprimere la Camera di cui fanno parte. Sappiamo, che non è così: senza un intervento pesante del Governo e un atteggiamento collaborativo del Presidente del Senato all’urgenza posta dal Presidente del Consiglio dei Ministri l’approvazione definitiva sarebbe slittata all’autunno ed il testo finale, nelle votazioni con scrutinio segreto avrebbe potuto differire. Se il testo approvato dal senato dovese corrispondere al testo finale della riforma costituzionale, sarebbe preoccupante in quanto ci sono veri e propri svarioni, che come quello introdotto dall’art. 117, che” Spetta alle Regioni la potestà legislativa in materia di rappresentanza in Parlamento delle minoranze linguistiche ”

Lavorare meno, lavorare tutti / alter / Sezioni / Home - Sbilanciamoci

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Economisti, quale futuro dopo la critica? / alter / Sezioni / Home - Sbilanciamoci

Economisti, quale futuro dopo la critica? / alter / Sezioni / Home - Sbilanciamoci

La favola dell'equità e dello sviluppo / italie / Sezioni / Home - Sbilanciamoci

La favola dell'equità e dello sviluppo / italie / Sezioni / Home - Sbilanciamoci

Lombardia: 55mila tute blu in cassaintegrazione - Rassegna.it

Lombardia: 55mila tute blu in cassaintegrazione - Rassegna.it

Città metropolitana Milano | Rifiuti, trasporti, acqua | Società partecipate

Città metropolitana Milano | Rifiuti, trasporti, acqua | Società partecipate

Policy Network - Trade unions in the new economy

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Policy Network - The Italian left a crossroads: Where now for the PD?

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Renzi nel vicolo cieco del contro-riformismo europeo - micromega-online - micromega

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OLTRE IL FETICCIO DEL 3 PER CENTO

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Vigevani: “Parliamo allora del Riformismo” | labour

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Privatizzazioni Enel Eni, in autunno cessione del 5% e del 4,34%. Il governo conta di ricavare 5 miliardi

Privatizzazioni Enel Eni, in autunno cessione del 5% e del 4,34%. Il governo conta di ricavare 5 miliardi

Per uscire dalla crisi pensano a meno diritti e meno libertà - Eddyburg.it

Per uscire dalla crisi pensano a meno diritti e meno libertà - Eddyburg.it

Un ultimo giro di Valls?

Un ultimo giro di Valls?

mercoledì 27 agosto 2014

Gufi o parolai?

Scadenzario del Governo Renzi | Lavoce.info

Cosa blocca gli investimenti pubblici | Claudio Virno

Cosa blocca gli investimenti pubblici | Claudio Virno

In Europa Renzi gioca in difesa

In Europa Renzi gioca in difesa

Gianni Cuperlo: il problema lavoro

La riflessione di Gianni Cuperlo, che trovate su Facebook - è interessante; anche se il problema dell'Italia è che il mix di interventi di cui ha bisogno è complesso; e quindi . diciamo così - i due diversi "approcci" alla crisi vanno calibrati, e non si escludono reciprocamente. FMM Ho letto i vostri commenti al post di ieri e volevo ringraziarvi dell'attenzione e cura che rivolgete a questo spazio. Oggi pensavo di tornare per un istante all'economia. Continuano i commenti al discorso di Mario Draghi dell'altro giorno, ma non è su questo che volevo soffermarmi. Le nubi sull'autunno si addensano e non basterà la battuta di spirito del premier sull'estate piovosa a toglierci dagli impicci. Penso alla nota di correzione del Def fissata al primo di ottobre, e poi subito dopo la legge di stabilità che a metà mese deve passare il vaglio della commissione di Bruxelles. L'emergenza è sempre la stessa, creare lavoro. Allora proviamo a ragionare di questo. Ci sono due modi per aggredire la creazione di lavoro. Uno è insistere sul fatto che le economie uscite meglio dalla crisi in termini di occupazione sono state quelle con più flessibilità (come quella tedesca, si dice sempre). L'altro mette in risalto un aspetto diverso. E cioè che non è bastata l'azione sulla flessibilità del mercato del lavoro a rendere più competitive alcune economie. La verità è che sono serviti investimenti pubblici e privati senza i quali non sarebbe aumentata la produttività, e dunque la crescita sarebbe stata semplicemente impossibile. Sono proprio due modi di approcciare la crisi. Il primo ha tra i suoi seguaci una lunga schiera di analisti ed esponenti della politica (da Ichino, Alesina, Giavazzi alla destra di Forza Italia e Ncd). Il secondo comincia a farsi largo anche sul piano teorico come dimostrano i saggi (spesso citati qui sopra) di Mariana Mazzucato o Thomas Piketty (a proposito, ma Bompiani si spiccia a mandare in libreria la traduzione?). Ora, per la verità anche l'uso disinvolto del modello tedesco merita qualche osservazione. È vero che in questi anni i salari in Germania sono stati tenuti a freno (e la cosa non è stata priva di conseguenze sul versante della domanda interna) ma quella è stata la conseguenza di un accordo tra capitale e lavoro per preservare i livelli occupazionali durante l'unificazione del paese nei primi anni ’90. Quell'accordo peraltro prevedeva di mantenere i livelli occupazionali, ma insieme a una riduzione dell'orario di lavoro (35 ore) e a investimenti in infrastrutture, ricerca e innovazione. Sono questi investimenti che hanno consentito alla Germania di distanziare altri paesi sul versante della produttività. Il vero disastro con il quale misurarsi non è, dunque, il costo del lavoro, ma la produttività. E infatti, se consideriamo il costo unitario del lavoro come la somma di due componenti (costo del lavoro e produttività) risulta evidente che la differenza più marcata tra paesi diversi non è tanto (parlando dell'Europa) nel costo del lavoro (in Germania i contributi sociali sono più alti), ma nel rapporto con la produttività. Noi negli ultimi 15 anni abbiamo avuto una crescita della produttività pari a zero (o addirittura negativa). Il punto (come scrive la solita Mazzucato) è che una maggiore produttività non si ottiene pagando meno i lavoratori. Si ottiene investendo in formazione, tecnologie, innovazione. Si ottiene anche coinvolgendo le forze sociali in una strategia di sviluppo (come è stata la strategia verde per l'economia tedesca, che implica modelli nuovi di produzione con investimenti consistenti). Per capirci, una nuova economia non è il prodotto di un decreto ministeriale ma di una visione che la politica dovrebbe coltivare. Senza investimenti nel pubblico e nel privato, senza un nuovo patto tra capitale e lavoro, continueremo a spendere meno in settori vitali come ricerca e sviluppo, investiremo meno nella formazione del capitale umano, preferiremo incentivare e sovvenzionare le imprese anziché investire in modo strategico in alcune aree a forte potenzialità di crescita (ma questi sono tutti concetti che qui sopra avete già avuto modo di incrociare, diciamo che repetita etc). Bene, se di fronte a questi problemi la risposta continuerà a essere solamente "liberalizzare, privatizzare, modificare costantemente la disciplina contrattuale del mercato del lavoro" non riusciremo a risolvere la crisi. E allora, giustissimo ridurre gli sprechi, introdurre elementi di equità e giustizia nel sistema previdenziale (a proposito, ricordatemi che devo parlarvi della categoria dei marittimi!), razionalizzare la burocrazia. Ma tutto questo deve essere accompagnato da investimenti massicci (una stima ragionevole parla del 2,5% del Pil dell'Ue). Servono nuove collaborazioni tra pubblico e privato per incrementare la produttività, garantire posti di lavoro e opportunità. E' la sola via per contrastare quella che già alcuni definiscono "una stagnazione secolare". La mia opinione è che il percorso del Jobs act debba collocarsi in questa dimensione. Si tratta di un disegno di legge che contiene cinque deleghe di ampia portata (revisione degli ammortizzatori sociali, politiche attive, semplificazione nella gestione dei contratti, riordino delle forme contrattuali, tutele per la maternità). Il governo ha preso l'impegno perché il pacchetto sia approvato entro l'anno. Poi il governo avrà sei mesi di tempo per esercitare le cinque deleghe. Vuol dire che le norme saranno pronte tra la primavera e l'estate del 2015. Sono tempi che non aiutano se pensiamo ai 3 milioni e 153.000 disoccupati effettivi di giugno (700.000 sono giovani tra i 15 ai 24 anni, vuol dire il 43,7%). Il che vuol dire che bisogna accelerare il riordino dei servizi per l'impiego e la costituzione dell'Agenzia nazionale per l'occupazione alla quale verranno attribuite le competenze gestionali delle politiche attive. Conosco io (e conoscete voi) i dati dell'impatto dei servizi per il lavoro nel nostro paese. Al Senato prima della pausa estiva la commissione Lavoro ha esaminato gli emendamenti a cinque dei sei articoli, avendo accantonato l'articolo quattro sul riordino delle forme contrattuali che impatta sulla disciplina dei licenziamenti e quindi sull'applicazione dell'articolo 18. Penso sia ragionevole la strada di una verifica che preveda l'introduzione del contratto unico a tutele crescenti ma con la piena e integrale applicazione dello Statuto dei lavoratori dopo il periodo di prova quantificato sino a tre anni di durata (per capirci, il modello Damiano). Ok, in questo quadro sui giornali di stamane vengono indicate le linee guida della "rivoluzione" della scuola. Mai più precari e supplenti, criteri meritocratici e premianti la professionalità degli insegnanti, l'intervento diretto di finanziamenti privati nel sostegno ai laboratori delle scuole pubbliche, effettiva garanzia della parità. Se capisco bene, l'intero pacchetto verrà approvato dal consiglio dei ministri di venerdì prossimo e quindi è giusto attendere di vedere gli atti e le deliberazioni del governo.

martedì 26 agosto 2014

Draghi il "prigioniero" della Bundesbank e l'incubo deflazione - la Repubblica.it

Draghi il "prigioniero" della Bundesbank e l'incubo deflazione - la Repubblica.it

Lettre ouverte d'Aurélie Filippetti à François Hollande et Manuel Valls (lundi 25 août 2014)

Lettre ouverte d'Aurélie Filippetti à François Hollande et Manuel Valls (lundi 25 août 2014)

Pier Paolo Pecchiari: Prepariamoci alla battaglia contro il semi-presidenzialismo

..."La razionalizzazione del parlamentarismo, imposta brutalmente nel 1958, il sistema elettorale maggioritario e infine l'elezione del Presidente della Repubblica a suffragio universale hanno prodotto l'effetto atteso: la stabilità del potere esecutivo. Ma questo risultato è stato ottenuto pagando un costo esorbitante in termini di democrazia: l'esercizio solitario del potere da parte di chi occupa il vertice dello Stato, e la sua conseguenza immediata, la scomparsa del principio di responsabilità politica. La celebrazione quinquennale delle elezioni presidenziali ha perso la sua capacità di impulso carismatico. Il Parlamento, che si è trasformato in un club di anziani maschi bianchi, borghesi e sessuagenari. che pensano solo ad accumulare mandati, non assomiglia più ai Francesi e alle Francesi. La legge elettorale aggrava la situazione: l'insieme dei deputati, destra e sinistra insieme, rappresenta a mala pena la metà degli iscritti ai registri elettorali"... A quanto pare, la crisi di governo in Francia ha avuto anche diversi effetti collaterali. Tra questi, il riaccendersi del dibattito sulla necessità di superare il modello di tipo semi-presidenziale. Un modello francese qui da noi si vorrebbe copiare - come al solito, con più di cinquant'anni di ritardo... In questo intervento - per la verità di qualche tempo fa - di Bastien François, direttore del Dipartimento di Scienze Politiche alla Sorbona, tutti i pericoli di una strada sulla quale ci stiamo allegramente incamminando, e che altri vorrebbero abbandonare perché hanno capito che termina in un vicolo cieco. http://www.lemonde.fr/.../changer-de-regime-avec-une-vie...

PERCHE’ LA SINISTRA: SCUOLA: LA PERICOLOSITA' DELL'IDEOLOGIA di Franco Astengo

PERCHE’ LA SINISTRA: SCUOLA: LA PERICOLOSITA' DELL'IDEOLOGIA di Franco Astengo

François Hollande’s Terrible, Horrible, No Good, Very Bad Week

François Hollande’s Terrible, Horrible, No Good, Very Bad Week

Sereno variabile. Renzi e i venti caldi d’autunno sul PD

Sereno variabile. Renzi e i venti caldi d’autunno sul PD

sabato 23 agosto 2014

Why We Need A More Substantive European Democracy

Why We Need A More Substantive European Democracy

Franco Astengo: Identità e posizionamento dei partiti politici

IDENTITA’ E POSIZIONAMENTO DEI SOGGETTI POLITICI: AGGIORNARE LA “TEORIA DELLE FRATTURE”? di Franco Astengo dal blog: http://sinistrainparlamento.blogspot.it La proposta che si sta tentando da tempo di avanzare per la formazione di una nuova soggettività politica della sinistra italiana d’alternativa e di opposizione ha necessità di essere motivata andando “oltre”, per quanto possibile, alle pur evidenti ragioni legate al fallimento dei soggetti esistenti, risultati incapaci di promuovere e realizzare quel livello di presenza politica che sarebbe risultata necessaria per fronteggiare l’emergenza della controffensiva dell’avversario e il mutamento complessivo di scenario verificatosi nell’insieme del sistema politico. Queste ragioni, però, non sono sufficienti: occorre, infatti, andare alle radici del meccanismo dell’aggregazione politica, recuperandone insieme significati ed effetti aggiornandoli ai cambiamenti culturali, sociali, tecnologici, di costume verificatisi nel tempo. Gli scienziati politici, al proposito, hanno sempre usato due prospettive definite l’una come primordiale e l’altra come strumentale. La prospettiva primordiale ha visto nei partiti i rappresentanti naturali di persone che hanno interessi comuni. Con il formarsi di gruppi intorno a queste fratture d’interesse i partiti politici sono emersi e si sono evoluti proprio per rappresentarle. La visione strumentale della formazione dei partiti li considera, invece, squadre di persone interessate a ottenere cariche pubbliche: questo tipo di visione è stato così focalizzato sul ruolo delle élite e dei cosiddetti “imprenditori politici”. Queste due prospettive della formazione dei partiti ricordano da vicino quelli che gli economisti chiamerebbero fattori della domanda e fattori dell’offerta. La prospettiva primordiale dà per scontata la domanda sociale di rappresentazione di determinati interessi e spiega l’esistenza dei partiti politici come risposta a queste istanze. Per contro, la prospettiva strumentale, sulla falsariga della “legge di Say” in economia, afferma che “l’offerta crea una sua domanda”. Così come il marketing e la pubblicità possono influenzare i gusti dei consumatori, gli imprenditori politici (come abbiamo ben visto, in particolare, nell’ultima fase storica) contribuiscono a creare la domanda di determinate politiche e di determinate ideologie. Come avviene per l’offerta e per la domanda, si scopre che capire le origini dei partiti politici significa riconoscere l’interazione tra le forze primordiali e delle forze strumentali. In larga misura sono state le domande sociali di rappresentazione a ispirare la formazione dei partiti politici. Queste domande, tuttavia, sono state incanalate con modalità efficaci e significative da istituzioni politiche che hanno strutturato l’ambiente degli aspiranti imprenditori politici e degli elettori. Si tratta quindi di analizzare com’è avvenuta, e come può avvenire nel futuro, l’interazione tra le forze sociali (primordiali) e le forze istituzionali (strumentali) per determinare le possibili identità delle formazioni politiche. Prestando attenzione a un punto fondamentale: la funzione principale del partito politico rimane quella di rappresentare, formulare e promuovere gli interessi e le cause dei suoi appartenenti. Con buona pace delle proclamazioni relative al “superamento dei concetti di destra e di sinistra” questi interessi e questa cause, al di là della retorica, sono sempre condivisi, per loro stessa natura, solo da una parte della popolazione complessiva. Per questo motivo la classificazione “classica” delle diversità tra i partiti politici si è sempre realizzata usando quella che è stata definita “teoria delle fratture”, via via attualizzata nel tempo con il mutare delle condizioni culturali, sociali, tecnologiche. Quella “teoria delle fratture” che si chiede oggi di aggiornare alla luce di quanto avvenuto negli ultimi tempi. E’ evidente, in questo, che il riferimento non è soltanto semplicisticamente al sistema politico italiano, ma è a questo che dal nostro punto di vista ci rivolgiamo per inserire la nostra proposta di nuova soggettività politica della sinistra d’alternativa e di opposizione: questo intervento è dunque rivolto a promuovere questa precisa eventualità. Il più importante aggiornamento nella “teoria delle fratture” è avvenuto nel 1967 per opera di Lipset e Rokkan, attraverso la divisione tra “fratture post-industriali” e la “frattura di classe” che aveva assunto assoluta rilevanza durante la rivoluzione industriale alla fine del XIX secolo. Con la “frattura di classe” gli attori sociali si contrappongono in base a interessi economici divergenti provocando un conflitto di tipo “verticale” tra attori che si guadagnano da vivere con il proprio lavoro e attori che si guadagnano da vivere attraverso lo sfruttamento della proprietà o del capitale. La definizione più netta e precisa della “frattura di classe” è sicuramente quella di Karl Marx contenuta nel testo “La povertà della filosofia” del 1847 “gli individui fanno parte di una classe in sé in virtù della relazione obiettiva che intrattengono con i mezzi di produzione”. Si può dire che per gran parte del XX secolo la “frattura di classe” abbia rappresentato un punto di riferimento stabile nelle dinamiche dei diversi sistemi politici, anche oltre le differenziazioni teoriche e ideologiche e del formarsi di “ceti politici” di tipo professionale che, alla fine, hanno potuto perseguire obiettivi distinti da quelli della classe che intendevano rappresentare, come ben descritto da Michels nella sua elaborazione circa “la legge ferrea dell’oligarchia” e nelle analisi sulla politica come professione elaborate da Max Weber. Era così emersa un’ipotesi di “congelamento” delle fratture esistenti anche per spiegare perché i partiti politici che dominavano le elezioni negli anni’60 del XX secolo erano gli stessi partiti che avevano dominato le elezioni decenni prima, negli anni’20 o ’30 ed egualmente per spiegare l’accumulo di consenso realizzato, comunque, dai partiti al potere nei regimi dell’Est europeo a cosiddetta “rivoluzione avvenuta” o di “socialismo reale”. L’ipotesi del “congelamento” viene messa in discussione a partire dalla fine degli anni’80 con l’emergere di nuovi fenomeni sociali quali quelli dell’ambientalismo e dell’immigrazione al punto che Inglehart nel 1997 afferma come si sia di fronte a un mutamento di valori all’interno delle società industriali avanzate, passando da valori “materialisti” a valori “post materialisti”. Da allora si è assistito ad un declino nella rilevanza delle fratture più tradizionali e all’emergere appunto di una non meglio definita frattura “post-materialista”, in quadro di generale richiesta di espansione della libertà umana. A questo punto è facile individuare, sotto questo profilo, le ragioni teoriche di ciò che è accaduto nell’ultimo decennio del secolo scorso rispetto allo sconvolgimento di sistemi politici consolidati, alla caduta dei regimi dell’Est europeo, al mutamento complessivo di paradigma nella natura dei partiti politici con il rovesciarsi del rapporto tra gli interessi dei ceti politici professionalizzati (governabilità, personalizzazione) e quelli dei rappresentati in nome delle “fratture sociali” persistenti. Nel frattempo si è realizzato un altro rovesciamento “storico” sul piano della comunicazione di massa e del rapporto tra questo e il consumo individuale: una novità fondamentale che ha dato vita al fenomeno della cosiddetta “globalizzazione”, esplosa in particolare nella prima parte di questo decennio del X XI secolo. Su questa base si sono verificati due fenomeni di portata assolutamente epocale: quello del passaggio da un’idea del collettivo sociale all’individualismo di massa (sulla base del quale la democrazia ha assunto le vesti della cosiddetta “democrazia del pubblico”) e dello smarrimento da parte dei partiti politici dell’idea della rappresentanza. Due fenomeni che hanno determinato il formarsi di nuove élite e di nuovi intrecci tra economia e politica al fine di determinare livelli diversi da quelli della governabilità democratica novecentesca. Si stanno così affermando nuovi modelli di governabilità autoritaria in economia come in politica e su questa base, è stato attuato, il tentativo della sola superpotenza rimasta in campo per un lungo periodo di “esportazione della democrazia” attraverso la guerra. All’interno di questo quadro, sommariamente descritto, l’opposizione è stata affidata, in generale e a prescindere dalla diversa qualità e composizione dei sistemi politici, alla protesta movimentista, all’idea che le “moltitudini” potessero provocare con i loro sommovimenti un mutamento di equilibri, spostando, sul piano teorico, la realtà della “frattura di classe” verso una ricerca di richiesta di restituzione di non meglio precisati “beni comuni”, intesi soprattutto come valori ambientali e di disponibilità essenziali per la vita umana. Mentre questo quadro sta mutando e la globalizzazione sembra essersi arrestata tornando d’imperio sulla scena del mondo il primato della geopolitica e la contrapposizione a livello planetario non si è riusciti ad invertire la tendenza proprio nel definire un aggiornamento teorico relativo proprio alla realtà delle “fratture” esistenti, sulla base del quale riaggregare primordialmente interessi specifici. Sembrano due le grandi questioni sul tappeto: quello del rapporto tra consumo del pianeta in termini complessivi di suolo e di risorse e la prospettiva di vivibilità del genere umano e quella della capacità cognitiva, in termini globali di formazione, informazione, capacità di trasmissione di notizie e cultura (e quindi di educazione globale) che le nuove tecnologie hanno prepotentemente messo in campo nel corso degli ultimi anni. Sono questi i punti di riflessione sui quali soffermarsi: nel momento in cui appare necessario muoversi sul terreno di una nuova dimensione collettiva dell’agire politico da strutturare organizzativamente qui ed ora dove ci troviamo concretamente, come riuscire a far sì che il contesto di interessi che legano la classe che s’intende rappresentare a questo tipo di fenomeni appena descritti assuma una veste politica definita, sia sul piano teorico di riferimento sia rispetto ad un progetto di radicale trasformazione sociale e politica. A questo punto appare indispensabile lavorare su di un aggiornamento della “teoria delle fratture” del livello di quello che appunto fu elaborato al momento della comparsa dell’insostituibile e comunque fondamentale “frattura di classe”.

giovedì 21 agosto 2014

spazio lib-lab » Il disco rotto di Draghi, dei draghiani, e dei neoliberisti.

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TIFARE PER GUFI E CIVETTE ? - R.Saviano - Renzi e il suo operato - | Sindacalmente

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Il suicidio dell'austerità / globi / Sezioni / Home - Sbilanciamoci

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La guerra tra Israele e Hamas a Gaza, nel contesto - rivista italiana di geopolitica - Limes

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Né rosiconi né ingenui: ci stanno portando verso una democrazia vigilata | Pensalibero.it

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I problemi dell’industria europea | Economia e Politica

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L’America, l'Europa e la nuova sfida irachena | Aspenia online

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La vittoria di Erdoğan e le incognite del nuovo ruolo | Aspenia online

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Hollande ovvero il fatalismo della “crisi perpetua”

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Gim Cassano: Riformismo

Riformismo: un termine sul quale occorre fare chiarezza, e del quale la sinistra deve sapersi riappropriare. In un recente ed interessante scritto, dal titolo “Parlare agli italiani”, il Segretario del PSI Riccardo Nencini, muovendo da una considerazione storica, cerca di aggiornare alla realtà di oggi il concetto di riformismo, per un verso tenendo conto del dato empirico del grande consenso ottenuto da Renzi, e dall’altro affermando per i socialisti italiani il compito di esser “partecipi del processo fondativo di una nuova storia riformista. Legati da un disegno condiviso alla sinistra riformista ma liberi, alternativi ai movimenti radicali, con un’identità marcata nelle aule parlamentari, nei comuni e nelle regioni…..A cominciare dalla legge elettorale.” In sostanza, se non ho mal interpretato, si indica nel criterio riformista la bussola sulla quale orientare le trasformazioni di cui il Paese ha bisogno, ed in un’alleanza politica così orientata lo strumento per attuarle. Nel rivendicare l’eredità di una tradizione importante, Nencini inizia col constatare come, nell’Italia del secondo dopoguerra il riformismo si sia espresso attraverso la presenza, l’attività, la caparbietà, di settori minoritari di diversi partiti politici ed attraverso presenze nella cultura e nella società, ma esterne e spesso distanti dai partiti politici della prima repubblica. Verissimo. E altrettanto vero è il fatto che il PSI di quei tempi, a prescindere da ogni giudizio che si possa dare sulle sue vicende, rappresentò comunque il perno politico ed operativo del riformismo italiano del secondo dopoguerra. Ma a ciò è doveroso aggiungere che, guardando a quegli anni, nei quali il Paese andava ammodernandosi e nei quali, pur tra errori e contraddizioni, furono introdotte riforme significative che andavano nel senso della modernità, dell’apertura della società, dell’eguaglianza e dell’allargamento dei diritti individuali, civili, sociali, dobbiamo constatare che quella funzione di perno e di polo di attrazione per il riformismo italiano che il PSI seppe svolgere, fu tanto maggiore quanto più il PSI di allora seppe svolgere un ruolo proprio e “border-line” rispetto alle due ortodossie allora imperanti, conducendo in via autonoma le proprie battaglie politiche, che più di una volta risultarono più coerenti e determinate rispetto alle posizioni del maggior partito della sinistra italiana. E tale capacità non sempre e non necessariamente si trovò a coincidere con la presenza socialista nella famosa “stanza dei bottoni”. Ed ancora, va aggiunta la considerazione che, ad accomunare le forze riformiste in alleanze di scopo che più volte si trovarono a non coincidere con le maggioranze di governo fu la comune propensione ad una mentalità critica, che si manifestava sia nella valutazione delle realtà politiche, sociali, economiche, che in atteggiamenti sovente eretici nei confronti delle culture politiche di origine e dei partiti di appartenenza. Allora, ove si vogliano dare valutazioni corrette sul piano storico e, guardando alle prospettive attuali, su quello politico, occorre chiedersi di quale riformismo si sta oggi parlando, atteso che l’attuale effettiva maggioranza politica -quella del patto del Nazzareno che, con qualche distinguo e non sostanziali richieste di modifica, sinora respinte, vede il sostegno non determinante, e forse poco convinto, del PSI di oggi- si autodefinisce come riformista in riferimento a proposte ed indirizzi che non hanno nulla a che fare, nel metodo e nei fini, con la tradizione del riformismo italiano. Trovo che sia necessaria una grande chiarezza al riguardo, atteso che, per parte loro, troppo ampi settori della sinistra italiana sembrano essersi del tutto dimenticati di questo termine (e questa non è l’ultima delle ragioni del drammatico declino della sinistra), lasciandolo in mano a coloro che hanno trovato comode e facili intese con la destra interpretando il riformismo unicamente come prassi moderata, non sostenuta da adeguati strumenti concettuali, e finalizzata nella migliore delle ipotesi ad una sorta di manutenzione ordinaria destinata alla razionalizzazione e consolidamento degli equilibri esistenti, più che alla loro trasformazione. Tant’è che oggi, cosa inconcepibile sino a vent’anni fa, si parla indifferentemente di “riformismo di destra” e di “riformismo di sinistra”. Viene quindi naturale lo stimolo a meditare su un termine -quello di riformismo, appunto- il cui significato, non solo in Italia, è mutato profondamente nel corso degli ultimi decenni, sino ad acquisire connotazioni addirittura opposte a quelle che una consuetudine fondata sull’esperienza storica ha sempre assegnato a tale termine. Basti pensare che oggi assistiamo persino all’incongruenza semantica del gruppo conservatore al Parlamento Europeo, che si è dato la denominazione di ECRG (European Conservatives and Reformists Group). * * * * * Nella storia del pensiero politico, sotto la dizione di riformismo sono stati compresi concetti riferibili tanto al merito ed alle finalità, quanto agli strumenti ed ai metodi. Dalla Riforma protestante in avanti, in fasi storiche e con riferimento a situazioni politiche e sociali diversissime, il concetto di “riforma” e quelli connessi di riformista e riformismo sono stati sempre collegati ad idee di modernizzazione, di progresso, di liberazione ed emancipazione. Sono idee che hanno improntato il superamento del tardo feudalesimo nobiliare, dell’assolutismo regio, del potere ecclesiastico, l’affermarsi della Rivoluzione industriale, l’avvio del moderno costituzionalismo e la marcia in avanti del Terzo Stato prima e del Quarto Stato poi. L’evoluzione del parlamentarismo (basti ricordare il Reform Act del 1832), dello stato liberale, della democrazia e del suffragio universale, l’affermazione dei diritti dei lavoratori, l’avvio di forme di democrazia più avanzate in termini di diritti sociali, sono stati altrettanti filoni e tappe sui quali si sono esercitati e sono stati messi alla prova pensiero e metodi riformisti. In epoche più recenti, riformismo ha significato apertura della società, rimozione di concezioni ed istituti giuridici risalenti ai secoli precedenti, messa in discussione delle istituzioni chiuse, generalizzazione e parificazione dei diritti civili e sociali tra uomo e donna, sviluppo ed estensione dei meccanismi di protezione sociale e del welfare, tentativi di dare concretezza ai concetti di pari opportunità e di equità. In una parola, estensione del concetto di democrazia dalla sfera civile a quella sociale. Ciò ha coinciso con la formazione dei partiti operai, lo sviluppo politico della sinistra e la sua partecipazione a pieno titolo al dibattito pubblico ed alle attività di governo. In quanto agli strumenti ed ai metodi, poche affermazioni sono prive di fondamento quanto quella che riformismo significhi comunque e sempre avversione al radicalismo e rifiuto pregiudiziale del concetto di rivolta. Nella storia moderna, il riformismo si è caratterizzato come metodo distinto dall’azione rivoluzionaria non tanto per il rifiuto dell’azione violenta, quanto per la ricerca preventiva del massimo consenso politico, restando la rivolta come ultima ratio da adottare nei confronti di sistemi che non consentano il manifestarsi dell’azione politica. Al riguardo, va ricordato come diverse Costituzioni, ed in Europa quella francese e quella tedesca prevedano il diritto-dovere alla resistenza contro l’oppressione; anche nella nostra Costituente vi fu un’ampia discussione (Mortati, Lussu, Calamandrei) su questo punto, tant’è che la formulazione originaria da parte della Commissione dei 75 prevedeva (Art.50) la seguente formulazione: “Ogni cittadino ha il dovere di essere fedele alla Repubblica, di osservarne la Costituzione e le leggi, di adempiere con disciplina ed onore le funzioni che gli sono affidate. Quando i poteri pubblici violino le libertà fondamentali ed i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all’oppressione è diritto e dovere del cittadino”. Poi fu approvata la più banale formulazione espressa dall’Art. 54. (Per inciso, con la principale motivazione che la presenza di forti ed adeguate istituzioni di garanzia -proprio quelle che gli autori delle attuali riforme intendono ridimensionare- rendeva superflua la codificazione di tale ultimo diritto-dovere riservato ai cittadini, che si sarebbe potuto trovare a confliggere con tali istituzioni). Piuttosto, a distinguere l’azione riformista da quella rivoluzionaria, sta il fatto che le concezioni ed i metodi riformisti rifuggono da fini comportanti la conclusione della storia e l’idea di sostituire al vecchio ordine un modello sociale rigidamente predeterminato e non suscettibile di evoluzione. Il riformismo porta con sé l’idea di una società in evoluzione verso nuovi, ma non definitivi, equilibri. Ed è insita alle concezioni riformiste la coerenza tra fini e metodi, per cui l’evolvere verso concezioni sociali più aperte ed avanzate non può farsi col sostituire a strutture sociali, economiche, giuridiche, tanto superate quanto rigide, nuovi modelli altrettanto rigidi; e deve invece attuarsi attraverso processi che ne consentano il progressivo riadeguamento. A sostegno di queste affermazioni stanno la Rivoluzione Francese e quella Americana, entrambe alla radice del moderno riformismo, pur essendosi entrambe manifestate come ribellioni (un discorso a parte riguarda la parentesi del Terrore). Cosa che non può dirsi per il processo sul quale si andò formando l’Unione Sovietica, che, una volta portato a crollare il vecchio ordine, fu caratterizzato dal tentativo di progettare e costruire sin nei dettagli una nuova e definitiva società ideale, sacrificando a tale scopo ogni risorsa umana e materiale. In termini concettuali, gli approcci riformisti possono essere considerati come affini all’evolversi dell’epistemologia e della filosofia della scienza. Alla pari dei metodi in uso nelle scienze, il metodo riformista incorpora il pensiero concettuale (teorie scientifiche per l’una ed ideologia per l’altro). E, come è andato avvenendo col definirsi del metodo scientifico, la verifica sperimentale, cioè il divenire della società e dell’economia, se correttamente e razionalmente interpretato, induce la necessità di ridefinizioni dell’apparato concettuale. Di fronte a concezioni ideologiche chiuse e, come il sistema tolemaico, tendenti a fornire ogni spiegazione all’interno di sé stesse e prescindendo dalle verifiche empiriche, l’atteggiamento riformista è dapprima galileiano, nel senso di mettere in dubbio la teoria, e poi newtoniano, nel senso di ridefinirla razionalmente in base alle constatazioni effettuate; pronto a rimetterla ulteriormente in discussione di fronte all’inevitabile manifestarsi di nuovi eventi. Il che non significa affatto farsi fautori dell’abbandono del pensiero teorico e dell’ideologia, come alcuni sostengono e praticano: significa invece valorizzarla facendone l’uso più appropriato ed utile, non riducendola a dogma passibile solo di esegesi, ma rendendola strumento ed oggetto di pensiero critico. E’ evidente che, nell’evolversi del pensiero e delle condizioni politiche, questa concezione del riformismo, che non esclude affatto, ma anzi richiede il supporto di un robusto apparato concettuale e del radicalismo come atteggiamento politico, dovesse naturalmente scontrarsi con le posizioni dei reazionari, dei restauratori, dei conservatori di turno. Di coloro, cioè, che negavano l’idea stessa di trasformazione sociale in nome della difesa dei privilegi di casta e dei particolarismi o in nome della difesa degli interessi di classe, sostenendo sostanzialmente la concezione di uno Stato cui spettasse di tutelare un ordine naturale delle cose sancito dalla tradizione. Agli avversari “naturali” dei riformisti, schierati sul fronte della conservazione, si è poi aggiunta quella parte della sinistra che, sull’onda della Rivoluzione d’Ottobre, si è mossa da concezioni massimaliste che comunque potevano mantenere un rapporto di compatibilità con la prassi riformista, all’adesione incondizionata ai principii ed ai metodi della Terza Internazionale, abbandonando il riformismo come metodo e come concezione culturale; cogliendone la natura alternativa al leninismo, allo stalinismo, alla logica del partito-guida, le concezioni ed i metodi riformisti sono stati interpretati e bollati come sinonimo di moderatismo avverso ad ogni trasformazione radicale. Anche se i partiti comunisti dell’occidente -quello italiano in primis- nel loro pragmatismo, in più di un’occasione hanno assecondato spinte e forze riformiste, a volte anche scavalcandole nella ricerca di equilibri temporanei con le forze conservatrici, il termine “riformismo” è rimasto assente dal lessico ufficiale dei partiti comunisti, e pronunziato quasi con imbarazzo da altri; in Italia, sino agli anni del CentroSinistra. Si inscrive in questo clima la sintetica descrizione del riformismo italiano del dopoguerra, che Riccardo Nencini ha dato nell’incipit del suo scritto, evidentemente riferita ad un periodo successivo al tramonto del Partito d’Azione: “Isole comuniste, scogli liberaldemocratici, esperienze cattolico-sociali, interi arcipelaghi socialisti”. Il distacco semantico e concettuale nei confronti del riformismo attuato da una parte della sinistra, maggioritaria in Italia, che non aveva visto negli obiettivi e nei metodi riformisti una risposta al conservatorismo ed al moderatismo, e vi aveva invece visto un’alternativa radicale alla logica del sistema binario DC-PCI, ha fatto sì che, in via del tutto inappropriata, si sia aperta la strada alla concezione di un riformismo “debole” e tale da poter rappresentare anche processi involutivi rispetto ai contenuti ed ai metodi che la storia politica ha sempre definiti come riformisti. Così è avvenuto che, dopo il diffondersi di istanze radicalmente conservatrici in politica, fondate su un liberismo ideologizzato avverso a Keynes in economia ed a Beveridge sul piano sociale, e volte ad annullare la legittimità della sussistenza dei diritti sociali in una società moderna, quali quelle avviate dalla Thatcher e da Reagan, e seguite poi con minor coerenza da altri (tra cui la destra italiana), venissero a diffondersi sotto il nome di riformismo concezioni politiche deboli, svuotate anche dichiaratamente di pensiero, e rinunciatarie nell’azione. In Italia, queste concezioni hanno condotto ad interpretare il termine riformismo in un senso del tutto riduttivo, unicamente come il contrario di radicalismo, rinunziando a priori ad ogni tentativo di rimuovere le arretratezze, le chiusure, l’immobilità, le iniquità del Paese e, in particolare, rinunziando a rivitalizzarne l’economia e la società. E, nella migliore delle ipotesi, cercando di attutirne qualcuno degli effetti senza rimuoverne le cause. Sono state quindi definite come riformiste concezioni incapaci di rappresentare un’alternativa compiuta e credibile alle forze di destra, ed anzi spesso alla ricerca di intese con questa, e da questa sovente condivise. Intese che erano rivolte ad annacquare e ridimensionare i processi di liberalizzazione, democratizzazione, apertura civile, sociale ed economica che avevano caratterizzato le democrazie industriali sino agli anni ’70. Tale è stata la parabola del PD, sino ad arrivare al culmine raggiunto con l’avvento di Renzi e con il patto di mutuo soccorso del Nazzareno, che sancisce la resa culturale e politica a concezioni antiparlamentari ed antidemocratiche facenti parte del patrimonio di una destra estranea ai processi che hanno portato alla nostra Costituzione, ma del tutto estranee alla storia del nostro riformismo e della nostra democrazia. Si sta così consumando la mistificazione dell’autoattribuirsi della qualifica di riformisti da parte di coloro che, dopo anni di denigrazioni, hanno intrapreso lo smantellamento formale e sostanziale del miglior risultato del riformismo italiano (quello vero, di cui si è detto sopra): la Costituzione della Repubblica Italiana. Oltre venti anni sono stati così perduti in un lento ma costante e progressivo declino che si misura sul piano di tutti gli indicatori economici e sociali, sul piano della disaffezione degli elettori e del dilagare del populismo, per finire con lo sfociare nello smantellamento di alcuni pilastri istituzionali della nostra democrazia, dopo che -appunto nel corso di questo ventennio- ne erano state ampiamente corrose le basi sociali ed economiche. Essendo questo ragionamento centrato sui metodi della politica, non intendo in questa sede entrare in ragionamenti di prospettiva politica a breve. Ma, giunti a questo punto, una domanda ed una conclusione si impongono: La domanda, indotta dal testo che ha avviato questo ragionamento, è la seguente: “a quale delle due concezioni di riformismo che sono state qui sopra esaminate intende riferirsi Riccardo Nencini: a quella grande tradizione riformista all’interno della quale egli rivendica giustamente la centralità dei socialisti di allora, o alla distorsione che oggi ne vien fatta, e nella quale i socialisti di oggi sono tutt’altro che determinanti?”. La conclusione, che in effetti rappresenta la sintesi del ragionamento che qui è stato svolto, sta invece nella tesi che, se la sinistra italiana vuol riprendere la propria capacità di iniziativa e ricostruire un rapporto con i cittadini e gli elettori, deve avere il coraggio e la capacità di riappropriarsi di un’eredità, quella riformista, che le spetta e che ha caratterizzato le sue maggiori e più durature affermazioni. Il che significa saper reinterpretare criticamente, oltre che la sua storia, anche il suo modo d’essere ed il suo farsi forza politica. E saper assumere i connotati galileiani e newtoniani di cui si è detto sopra. E’ questo l’approccio col quale il sottoscritto ha dato il suo contributo a “Iniziativa 21 Giugno”. Gim Cassano (Alleanza Lib-Lab), 21-08-2014

giovedì 14 agosto 2014

Franco Astengo: A cinquant'anni dalla morte di Togliatti

A CINQUANT’ANNI DALLA MORTE DI PALMIRO TOGLIATTI: PCI, LE RAGIONI DI UNA IDENTITA’ E DI UN DECLINO di Franco Astengo dal blog: http://sinistrainparlamento.blogspot.it Le pagine culturali del “Corriere della Sera di Mercoledì 13 Agosto pubblicano, a cinquant’anni dalla morte di Palmiro Togliatti, un’ampia analisi sull’opera politica del segretario del PCI firmata da Ernesto Galli della Loggia. L’assunto principale contenuto nel testo è riassunto molto efficacemente nel “catenaccio” che chiude il titolo: “Ma il crollo dell’URSS ha affossato la sua eredità politica”. Galli della Loggia dunque tiene fede al sillogismo classico: “ nonostante il tentativo di costruzione di una identità nazionale del PCI, il legame con il sistema sovietico è sempre stato decisivo per il Partito fino al punto da trascinarne via la stessa identità al momento del suo crollo”. Una tesi fortemente opinabile al riguardo della quale è possibile avanzare due obiezioni: la prima quella riguardante il PCI quale forma originale del comunismo italiano e la seconda da ricercarsi nella specificazione della complessità relativa alle cause del declino e poi della sparizione del partito. Una cosa però è certa e condivisibile: entrambi i possibili eredi di quel Partito, da un lato il PDS e dall’altro Rifondazione Comunista hanno recato, nella propria formazione, i caratteri distintivi e precipui del complesso della storia del Partito Comunista. Entrambi, PDS e Rifondazione Comunista, hanno seguito le vie dell’elettoralismo, della personalizzazione, della governabilità finendo così con il mancare quella necessità di presenza originale e specifica che, all’interno di un sistema politico, dovrebbe rappresentare la ragione di fondo di esistenza di un soggetto comunista capace di muoversi sulle coordinate di fondo dell’internazionalismo, della lotta di classe e della democrazia progressiva per proporre, sia sul piano interno sia su quello internazionale, un’alternativa insieme politica, sociale, di sistema. La ragione di questa mancata presenza dei comunisti sulla scena politica italiana è stata dovuta all’interruzione, al vero e proprio “salto nella storia”, compiuta nell’itinerario politico di quella che è stata la “sinistra comunista” fuori e dentro il PCI. Una storia comunista in Italia avrebbe dovuto riprendere da quel punto, invece, ci fu per ragioni oggettive e soggettive un brusco arretramento sul piano dell’analisi, dell’elaborazione , della proposta politica. Da quell’interruzione sarebbe necessario, pur in questa fase difficile, riprendere il ragionamento e l’azione dei comunisti: senza alcuna velleità di rifare il PCI, ma cercando di comprendere appieno motivazioni e possibilità di una rinnovata presenza della sinistra comunista in Italia. Per questo motivo si ripropongono di seguito alcuni lavori già presentati in passato sulla base dei quali proporre un invito alla riflessione rivolta a quanti, intellettuali, quadri politici, militanti intendano riflettere su di un cammino già percorso e sulla possibilità di riprenderlo, per vie diverse probabilmente, ma riprenderlo davvero. Di seguito i tre testi, riguardanti 1) IL PCI forma politica del comunismo italiano; 2) Quali allora le ragioni della caduta e della vera e propria sparizione di identità della forma politica del PCI? 3) Manifesto per un’area della sinistra comunista. Grazie in anticipo a quanti vorranno leggere e riflettere su queste pagine e, in particolare, a coloro che vorranno fornire un segnale di interlocuzione. IL PCI FORMA POLITICA DEL COMUNISMO ITALIANO La ragione per la quale si può considerare il PCI quale unica forma politica compiuta del comunismo italiano risiede in una ragione teorica, tutta interna al pensiero gramsciano: Gramsci, infatti, rifonda l’autonomia del marxismo basandone le coordinate di fondo su di una “filosofia della prassi” divenuta sinonimo di produzione di soggettività politica, di critica della concezione del mondo della classe dominante ed elaborazione di un’ideologia congrua alle condizioni di vita dei gruppi sociali subalterni. Questo tipo di elaborazione consentì l’operazione portata avanti dal gruppo dirigente del Partito nell’immediato dopoguerra, per specifico impulso soprattutto di Palmiro Togliatti. Il prestigio acquisito dal PCI nell’organizzazione dell’antifascismo militante e nella guerra di Liberazione, nonché l’essenziale contributo dell’Unione Sovietica alla sconfitta del nazismo, furono all’origine, in quel periodo, di un rinnovato interesse per il marxismo. La ripresa del marxismo, pur traendo alimento da forti referenti storico – sociali, fu processo non facile sul piano teorico. Nell’URSS di Stalin, durante gli anni ’30 – ’40 la sintesi engelsiana del marxismo era stata trasformata in dottrina dello Stato fondata sull’opposizione tra teoria materialistica e teoria idealistica della conoscenza. Le leggi scientifiche del materialismo storico furono considerate un’applicazione particolare del materialismo dialettico, in quanto filosofia che compendiava le leggi di movimento della realtà naturale e sociale. La marxiana critica dell’economia politica fu sostituita da una scienza economica socialista capace di calcolare i prezzi e di allocare razionalmente le risorse nell’ambito di un sistema pianificato. Le sorti del socialismo furono, così, identificate con i sostenuti ritmi di sviluppo delle forze produttive e i successi politici ed economici della “patria del socialismo” furono chiamati a verificare la validità della teoria marxista-leninista. L’autonomia teorica del marxismo italiano, e di conseguenza della sua forma-partito, rispetto al quadro fin qui disegnato fu avviata da Togliatti con la pubblicazione dei “Quaderni del Carcere” avvenuta tra il 1948 e il 1951: principiò, in allora, la costruzione di una genealogia del marxismo italiano partendo addirittura da Vico, passando da De Sanctis, Bertrando Spaventa, Labriola, Croce fino a pervenire a Gramsci. Questa operazione culturale conseguì almeno tre risultati: mise in ombra il materialismo dialettico sovietico, fornì la piattaforma per l’elaborazione strategica del “partito nuovo” aprendo il solco teorico su cui basare la “via italiana al socialismo” tesa alla costruzione della “democrazia progressiva” e difendeva, infine, nel clima ideologico della guerra fredda, la continuità della cultura democratica progressista italiana, conquistando una generazione di intellettuali di cultura laica, storicista e umanistica a posizioni genericamente marxiste, senza provocare “lacerazioni troppo nette”. Al primo convegno di studi gramsciani Eugenio Garin, Palmiro Togliatti e Cesare Luporini sottolinearono che Gramsci aveva tradotto in italiano l’eredità valida di Marx e che il suo pensiero era profondamente radicato nella cultura e nella realtà nazionale. In quella sede fu fortemente criticato l’economicismo, attribuendo importanza alle ideologie e alla funzione degli intellettuali. Gramsci collocava, infatti (almeno nella stesura togliattiana dei “Quaderni” antecedente all’edizione integrale curata da Gerratana nel 1977) la politica al vertice delle attività umane, sviluppando la dottrina leninista del partito estendendo lo storicismo integrale in direzione di un’originale teoria delle sovrastrutture e respingendo la teoria della conoscenza come riflesso. La concezione del marxismo in Gramsci è quella di considerarlo non un metodo, ma una concezione del mondo rivolta a cogliere le possibilità storicamente date nella prassi sociale. Il più valido spunto critico a questo tipo di impostazione venne, dopo il ’56 da Raniero Panzieri e dal gruppo dei “Quaderni Rossi”: Panzieri fu promotore di una riscoperta della democrazia consiliare e del primato del “soggetto classe” sul predicato partito, critico tanto dell’ideologia della stagnazione quanto dell’ideologia tecnocratica della programmazione, che riduceva la questione sociale a un problema tecnico e identificava il capitalismo con la società industriale e l’illimitato sviluppo della produttività. Panzieri era fortemente critico con l’impostazione togliattiana della celebrazione del nazional-popolare, del recupero storico-culturale della tradizione democratica e soprattutto dello “scarto evidente, nei partiti storici della sinistra, fra il primato esteriore dell’ideologia e la pratica quotidiana di pura amministrazione”. La scomparsa prematura di Panzieri, il disinteresse del PSI ormai impegnato nell’operazione centrosinistra (la “politique d’abord di Nenni) la debolezza teorica e politica dello PSIUP non consentirono a questi importanti spunti di analisi di rappresentare la base per una soggettività politica rappresentativa di un vero e proprio contraltare teorico allo storicismo togliattiano. Non risultò neppure all’altezza di quel confronto il punto di dibattito apertosi al momento della scomparsa di Togliatti, ad iniziativa di quella che poi sarebbe stata definita “sinistra comunista”: iniziativa avviata essenzialmente grazie ad una riflessione di Rossana Rossanda e Lucio Magri che rimproverava, sostanzialmente, allo storicismo di aver oscurato il nocciolo teorico di Labriola e Gramsci (Magri riprende il tema nel “Sarto di Ulm”) e di aver annacquato il marxismo nel quadro di una tradizione dai contorni imprecisi rivendicando un primato del politico sull’economico che aveva smarrito il nesso tra teoria e prassi, tra scienza e storia, oscillando così tra il riferimento di una realtà di pura empiria (attribuita all’ala amendoliana del partito) e di un semplice finalismo volontaristico. Restarono così punti irrisolti di dibattito che forse avrebbero dovuto essere sviluppati con una capacità critica portata molto più a fondo, ma emersero limiti forti di vero e proprio politicismo al punto che, con gli anni’70, si sviluppò una sorta di “primato della politica” che portò, sulla base del prevalere del concetto di governabilità, al collasso della teoria: ben in precedenza alla stagione degli anni’80 che portò alla liquidazione del partito. Per questi motivi di fondo: autonomia teorica dal modello sovietico, primato della politica sull’economia senza alcuna visione meccanicistica in questo senso, assunzione della concezione gramsciana del rapporto tra struttura e sovrastruttura, sovrapposizione del partito alla classe (nella versione togliattiana del partito nuovo) il PCI è stato il solo soggetto politico rappresentativo del comunismo italiano. Il resto (anche nella critica di Panzieri) ha ruotato attorno. Quali allora le ragioni della caduta e della vera e propria sparizione di identità della forma politica del PCI? Dall'inizio degli anni'80 l'emergere di questioni e problemi sui quali sarebbe stato giusto sollecitare un più audace e coraggioso rinnovamento, così come nell'elaborazione che nella proposta furono, invece, assunti come fattori da interpretare in senso di una maggiore omologazione, sia nei comportamenti politici, sia negli orientamenti culturali e ideali che, in quel momento, raccoglievano i più facili consensi. Cominciava, in sostanza, a far breccia, anche nel PCI o almeno in settori rilevanti del Partito, la grande offensiva ideale e politica neoconservatrice che, proprio in quegli anni'80, favorita del precipitare della crisi del sistema comunista in tutto l'Est europeo, sia dal logoramento e dall'esaurimento anche delle migliori esperienze socialdemocratiche dell'Europa Occidentale, si sviluppò con impeto in Europa come in America (sotto l'insegna del reaganian – tachterismo), e i paesi dell'Est come in quelli dell'Ovest. Andò così maturando, anche nella realtà italiana, una sconfitta che, prima ancora che politica, risultò essere culturale e ideale. A questo punto debbono essere richiamate almeno tre posizioni (le più esemplificative) che hanno posto in luce come in pochi anni, anche in un paese come l'Italia considerato paradigmatico di un “caso” proprio perché vi si trovava presente il più grande partito Comunista d'Occidente, quest’offensiva “neocons” avesse modificato, in modo radicale, idee e convinzioni diffuse nell'area dell'opinione pubblica progressista, compresa buona parte della sinistra d'opposizione, con conseguenze fortemente negative che poi si sarebbero manifestate, anche sul piano delle scelte e dei comportamenti politici: 1) In primo luogo cominciò a raccogliere consensi, trovando ascolto anche in larghi settori della sinistra politica e sindacale, la tesi che la crisi delle politiche di pianificazione e di programmazione (sia nelle forme della pianificazione centralizzata dei paesi di “socialismo reale” dell'Europa dell'Est, sia nelle forme programmatorie delle politiche keynesiane e delle esperienze di Stato Sociale, sviluppatesi a Ovest e nel Nord Europa, principale per impulso delle grandi formazioni socialdemocratiche) non solo poneva alle forze riformatrici seri problemi di ripensamento, ma costituiva una prova quasi definitiva dell'impraticabilità di serie alternative alle regole dominanti del liberismo, del privatismo, del cosiddetto “libero mercato”, dell'individualismo consumistico. Non a caso l'idea di riaffermare o ricostruire un “punto di vista di sinistra” in economia (a partire, per esempio, dai problemi dell'occupazione o della tutela ambientale o del definire una diversa gerarchia di priorità e di finalità nella produzione e dei consumi) incontrava difficoltà via, via, più estese e anzi veniva rigettata, quasi pregiudizialmente, nell'opinione più diffusa, come astratta e velleitaria. La conseguenza è che diventava quasi un luogo comune affermare che il banco di prova per dimostrare la maturità di governo della sinistra risiedeva, ormai, nella capacità di far valere come scelta prioritaria, senza concessioni a ideologismi solidaristici o a interessi corporativi, il rispetto dei vincoli “oggettivi” delle compatibilità finanziarie e monetarie (da ciò è derivata l'accettazione acritica dei parametri imposti per l'unificazione europea, dal trattato di Maastricht: acriticità che impedito di vedere in tempo le possibilità di rivedere il patto di stabilità, fino alla crisi che oggi investe, appunto, gli equilibri politici ed economici del processo di allargamento dell'Europa a 25). Tornando però al periodo di avvio del declino del PCI deve essere, ancora, fatto rilevare che il diffondersi di queste posizioni di accettazione dell'impostazione neo-liberista ben al di là della tradizionale area moderata, avvenuta tanto più in una fase di intense ristrutturazioni (a partire dai 35 giorni della Fiat del 1980) che già tendevano, in allora, a ridurre e a rendere più precaria l'occupazione, ad accentuare la flessibilità della risorsa lavoro (fino alle esasperazioni attuali) e della risorsa ambiente, a diminuire i vincoli e i costi sociali che pesavano sulla produzione, abbia avuto il risultato pratico di contribuire a indebolire la tutela del mondo del lavoro e a modificare, a svantaggio della sinistra, i rapporti di forza nella struttura produttiva e sociale. Non a caso, proprio a partire da quella fase, è stato possibile parlare dell'affermazione di quello che è stato definito “pensiero unico” ispirato, appunto, dalla teoria neoliberista; 2) In secondo luogo non si può sottovalutare il peso che ebbe, nel corso degli anni'80 l'insistente campagna sulla “crisi” e sulla “morte” delle ideologie. Una campagna che ebbe effetti rilevanti sugli orientamenti di larga parte dell'opinione pubblica. E' quasi inutile ricordare quanto di ideologico vi fosse, e continui a esserci, alla base della tesi della “crisi” e della “morte” delle ideologie. Rimane il fatto che proprio quella campagna propagandistica appena ricordata finì con l'essere largamente accettata anche a sinistra, non solo come critica dei “partiti ideologici” (e partiti ideologici per eccellenza erano considerati, in Italia, la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista), ma anche come demistificazione dell'idea stessa di una finalizzazione ideale e morale dell'azione politica. Alle “finalità”, e al loro presunto retroterra ideologico, andava così contrapposta l'idea della presunta “concretezza” dell'apertura al nuovo, al moderno. Al punto da presentare, sulla scena del confronto politico, una inedita contraddizione tra “vecchio” e “nuovo”. Una contraddizione assunta, al punto, da considerare il cosiddetto “nuovismo” come criterio di commisurazione della validità dell'iniziativa politica. Non c'è bisogno di ricordare, sia pure a distanza di oltre vent’anni, quanto peso abbia avuto una simile posizione nella fase di passaggio del PCI al PDS, cioè dal vecchio “partito ideologico di massa” alla “cosa” di cui non si riconosceva né il nome, né il programma, e neppure le finalità e i contenuti; 3) Il terzo punto riguarda, infine, il fatto che la critica alla degenerazione del sistema dei partiti avesse assunto, via, via, nel corso del decennio, anche in settori, via, via più estesi del gruppo dirigente comunista, un mutamento di segno. Si era passati, infatti, dalla domanda di “rinnovamento della politica”, così come era stata formulata da Berlinguer, a una proposta di mutamento del solo “sistema politico” (inteso in senso stretto) attraverso il cambiamento delle regole istituzionali ed elettorali. Si spalancò così, in quel modo, la porta alla deriva decisionista, in particolare all'idea che bastasse “sbloccare” il sistema politico per realizzare l'alternanza e mettere così fine alla spartizione dello Stato, alla corruzione, al malgoverno. Per “sbloccare il sistema politico” il PCI avrebbe dovuto, così, mettere in discussione se stesso, ponendo fine al “partito diverso”, omogeneizzandosi agli altri partiti. Erano dunque mature le condizioni per portare a compimento la storia del Partito Comunista Italiano. Tutto questo è avvenuto mentre la crisi della democrazia italiana era giunta, verso la fine degli anni'80, a un punto di estrema gravità. La grande occasione che si era pur presentata nel corso del decennio precedente era andata perduta, per cause oggettive e soggettive, senza che si riuscisse a dispiegare quella capacità di promuovere un radicale rinnovamento nel modo di governare, del costume, dello spirito pubblico, del senso dello Stato di cui il paese avrebbe avuto estremo bisogno, ma che, ancora una volta era stato mancato. IL PCI fu così liquidato in fretta, senza offrire ad alcuno la possibilità di riflettere su di un lasciato politico che andava ormai completamente perduto (come dimostra la traiettoria senza parabola compiuta da Rifondazione Comunista che, addirittura, sta concludendo la propria storia all’interno di un contenitore elettorale moderatamente critico di un non meglio precisato “liberismo” dopo aver attraversato le frontiere della personalizzazione, della governabilità, del movimentismo). Lo scioglimento del PCI rappresentò un punto di vero squilibrio per l’intero sistema politico, cui seguirono altri momenti di sconvolgimento determinati dall’implosione dei grandi partiti di massa avvenuta poco tempo dopo: i suoi eredi, mutate diverse denominazioni da PDS, a DS e PD e collegandosi con alcuni dei residui del vecchio apparato del partito cattolico, hanno accettato “in toto” i meccanismi fondamentali di quell’eterna “transizione italiana” apertasi con lo scioglimento del partito, dal maggioritario, al presidenzialismo (esercitato direttamente, ponendosi ai limiti della Costituzione Repubblicana dal primo Capo dello Stato proveniente dalla storia del PCI), all’accettazione delle formule liberiste che sono state e stanno all’origine della grande crisi che stiamo vivendo. Il PD, infatti (usando addirittura ed incredibilmente la struttura delle “primarie” per la selezione del gruppo dirigente, inteso come gruppo “elettorale”) si è reso pienamente competitivo sul terreno di quella concezione esaustiva della “governabilità” oggi esasperata dalla messa in atto di una vera er propria svolta autoritaria fondata sullo svuotamento definitivo della Costituzione Repubblicana. E’ stata così soffocata l’idea della necessità di un partito capace insieme di sviluppare pedagogia, radicamento sociale, rappresentatività politica della classe: è questo il vuoto più grande che, pur nella consapevolezza di un declino forse irreversibile attraversato nell’ultima fase della sua esistenza, il PCI ha lasciato. MANIFESTO PER UN’AREA DELLA SINISTRA COMUNISTA 1) Emerge, in Italia e fuori d’Italia, l’esigenza di lavorare sia sul terreno teorico sia su quello immediatamente politico, per la ricostruzione di una soggettività di sinistra comunista, collegata a precise istanze che derivano dalla nostra storia, all’identificazione nell’attualità di precisi filoni culturali di riferimento, alla progettazione di adeguate iniziative politiche sia al riguardo della struttura del soggetto sia sul piano progettuale – programmatico. La qualità stessa della gestione capitalistica della crisi (che abbiamo tante volte analizzata come orientata nel senso complessivo della “ricollocazione di classe” ed espressione di una “nuova repressione”) impone un discorso di questo tipo; 2) Un lavoro da impostare seguendo filoni ben precisi di orientamento proprio sul piano teorico: partendo, ovviamente, dall’Italia perché qui siamo chiamati ad agire. Ripropongo, quindi, l’utilizzo – per quanto possibile – il filone della “sinistra comunista” italiana da Gramsci a Ingrao al sindacato dei consigli al “Manifesto” (direi che l’arco temporale di riferimento può essere identificato tra le Tesi di Lione del 1926 e la relazione di Magri ad Arco nel 1990). E’ evidente che, pur considerata tutta l’importanza dell’elaborazione portata avanti dalla sinistra comunista in Italia, occorra – anche sul piano dello studio – un collegamento con riferimenti internazionali posti sul piano più alto nella storia del marxismo al di fuori dei filoni emersi dalla Rivoluzione d’Ottobre: Luxemburg, Pannekoek e la sinistra socialdemocratica, in particolare l’austromarxismo e l’elaborazione (torno in Italia) di Panzieri e dei “Quaderni Rossi”. Senza cadere nel sociologismo della Scuola di Francoforte (origine, a mio giudizio, della mancata “incidenza politica” del ’68) e tenendo fermi due punti: il prevalere della tensione etico – politica sulla banalità dell’economicismo e la capacità, sempre e comunque, di un’espressione piena di “critica della modernità”. “Critica alla modernità” che deve essere espressa anche rispetto all’utilizzo di massa dell’innovazione tecnologica che sta verificandosi all’interno del filone del “consumismo individualistico” e dell’isolamento soggettivo; 3) Il primo orizzonte da scrutare riguarda la visione internazionalista nella lotta per la liberazione dei popoli. Senza offrire alcun modello (è questa la differenza con la lotta anticoloniale della prima metà del ‘900 fino agli anni’60 quando si compì la liberazione dell’Africa) è necessario mantenere questo tipo di tensione internazionalista rispetto alle grandi lotte popolari in atto, a tutte le latitudini, per l’affrancamento dalla gestione capitalistica della crisi e la fuoriuscita dai meccanismi di vero e proprio “soffocamento” della democrazia. Ognuno con le proprie specificità: senza cadere, quindi, nell’errore del considerare il tutto “movimento dei movimenti” e collocarsi acriticamente al loro livello (questo sì sarebbe semplicemente adeguamento a una presunta “modernità”); 4) Per quel che riguarda il “caso italiano” (dizione da rivalutare: in senso opposto però al significato che aveva assunto tra gli anni’60 – ’70) sono almeno tre i punti sui quali soffermarci prioritariamente: il primo riguarda l’omologazione culturale tra le forze maggioritarie del sistema politico, sulla base del quale si sta costruendo un vero e proprio “regime” (al contrario, tanto per far un esempio spicciolo, di ciò che accadde all’epoca della solidarietà nazionale e della linea della fermezza rispetto al terrorismo: uscirne fu comunque un merito di Berlinguer che non può essere, nella critica complessiva all’operato dell’area centrista del PCI, sottaciuto); il secondo riguarda la degenerazione nella qualità della democrazia italiana, sia rispetto al tema europeo (che va affrontato specificatamente come non faccio in quest’occasione) sia rispetto alla logica della riduzione del rapporto tra politica e società in nome dell’eccesso di domanda (presidenzialismo, centralità del governo, legge elettorale: tanto per toccare i punti nevralgici di questa strategia riassumibile, alla fine, nella logica espressa da JP Morgan al riguardo della Costituzione e nella sostanziale indifferenza o malcelata soddisfazione di tutti per la verticale espressione di disaffezione al voto. Emblematiche su questo punto le dichiarazioni di D’Alimonte); il terzo riguarda il deserto politico esistente nell’area della sinistra alternativa. Ma movimentismo e rivendicazionismo che appaiono essere, alla fine, l’altra faccia della medaglia ( o forse la complementarietà degli elementi, davvero rozzi, che hanno portato al successo del movimento 5 stelle) debbono essere affrontati con rigore sulla base di un’analisi delle nuove dimensioni di classe e con la precisione dei riferimenti teorici e politici. 5) Il solo punto di partenza risiede nell’espressione piena di un’identità dalla quale è possibile far discendere una visione di egemonia politica innovando anche fortemente il tema della strutturazione del soggetto politico. In questa direzione si muove la proposta della “via consiliare” che in questa occasione viene molto schematicamente ribadita. ”. Una “via consiliare”, intesa quale riferimento del tutto interno alla storia del movimento comunista e operaio, da Rosa Luxemburg ad Antonio Gramsci, considerata quale riferimento possibile per una effettiva democratizzazione del processo di interscambio politico sia a livello orizzontale, sia a livello verticale nella logica di recupero di un compito del partito come “intellettuale collettivo” promotore di una rivoluzione intellettuale e morale, fondata sull’integrità rivoluzionaria dei suoi militanti.

Renzo Penna: Riformare la Costituzione con Verdini? | labour

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mercoledì 13 agosto 2014

Pil, la doccia gelata viene dall'estero - Pagina99.it

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Caro premier, ecco cosa può fare lo Stato - Repubblica.it

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Levy Economics Institute | The Eurozone Crisis, Greece, and the Experience of Austerity

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Il bluff di Renzi e i silenzi del Pd - Eddyburg.it

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Il nuovo senato e i problemi dell’italicum - Eddyburg.it

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I sindacati europei cercano una nuova via | La Prima Pietra

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Michael J. Koplow and Jordan Chandler Hirsch | Why Withdrawing From the West Bank Would Make Israel Safer | Foreign Affairs

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Erdoğan And The Paradox Of Populism

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martedì 12 agosto 2014

Ilvo Diamanti: Il piglio del premier e il valore del Pd

Il piglio del premier e il valore del Pd di ILVO DIAMANTI la repubblica 11 agosto 201418 Commenti Viviamo tempi di democrazia "immediata". Dove le "mediazioni" e i "mediatori" sono più deboli. I partiti, le istituzioni rappresentative, le organizzazioni di interesse, ma anche i giornali e i giornalisti. Sono messi in discussione. Mentre hanno conquistato rilievo la rete, i blog e i blogger. Così si è allargato lo spazio della relazione diretta fra leader e cittadini, fra cittadini e leader. Attraverso la rete. Ma anche la TV. Il dualismo fra Renzi e Grillo, alle ultime elezioni europee, ne fornisce un riassunto fedele. E conferma i limiti della rete, quando è il principale, se non unico, canale di comunicazione politica. Mentre Renzi interpreta, meglio degli altri, quel modello di "democrazia personale", ancor più che "personalizzata", che si è affermata in Italia. Ma anche altrove, in Europa. Lo ha osservato, nel suo editoriale di ieri, Eugenio Scalfari. Il quale, una settimana fa, aveva già parlato di "egemonia individuale". Una tendenza che, a mio avviso, non va confusa con l'autoritarismo. Sul piano della "personalità" (per echeggiare Adorno), il tipo "autoritario" delinea, infatti, una sorta di "fascismo potenziale". Ebbene, io fatico a cogliere, in questi tempi e nel leader che li orienta, il marchio del fascismo potenziale. Anche se, come ho scritto, avrei affidato la riforma del Senato e, dunque, la modifica della Costituzione, a un'Assemblea Costituente eletta dai cittadini. Tuttavia, questa semplificazione istituzionale non mi sembra annunci una svolta "autoritaria". Ma conferma, semmai, la tensione fra diversi tipi di "democrazia". Tuttavia, questa semplificazione istituzionale non mi sembra annunci una svolta "autoritaria". Nonostante che lo stesso Renzi, intervistato dal Financial Times, si spinga ad affermare che "nemmeno i dittatori riescono a fare le cose così in fretta...". Questa stessa affermazione conferma, piuttosto, la necessità del premier di marcare la sua diversità, rispetto agli altri. Il suo piglio "decisionista" insieme alla sua ricerca di consenso sociale. Il che conferma la tensione fra diversi tipi di "democrazia", che agita questa fase di cambiamento. D'altronde, la democrazia rappresentativa riflette l'equilibrio instabile fra istanze di governo - legittimo - e partecipazione - diretta - dei cittadini. Ciò che, in fondo, Scalfari definisce "oligarchia democraticamente eletta". E che Bernard Manin chiama "aristocrazia democratica", perché l'elezione esprime, necessariamente, un'èlite. Non è, quindi, fonte di "democrazia in diretta" (per citare un recente saggio di Nadia Urbinati). Ma, semmai, "indiretta". Per tornare al presente, noi viviamo in tempi di "democrazia ibrida", "mediata" da diversi "media", che spingono in direzioni contrastanti. La tv e la rete, in particolare. Alimentano, da un lato, la "democrazia del pubblico" (come la chiama Manin), dove i cittadini sono spettatori. Dall'altro, la "contro-democrazia" (come la chiama Rosanvallon). La democrazia (diretta) del controllo e della sorveglianza. Al tempo della democrazia ibrida, per governare, occorre, dunque, controllare diversi modelli e luoghi di consenso e partecipazione. Non solo la televisione e la rete, ma anche la piazza. Per questo Grillo, nella recente campagna elettorale, oltre a presidiare la rete, è andato da Bruno Vespa, ma anche, di nuovo, a Piazza San Giovanni. Per questo Berlusconi oggi è "periferico". Rinchiuso nella tivù, oltre che, per alcuni mesi, in casa. In-credibile sui nuovi media. E, inoltre, inefficace nella mobilitazione sociale, perché il suo partito non c'è praticamente più. Per questo, infine, oggi Renzi si propone come leader di successo. Perché è in grado di dialogare con i diversi media e i diversi modelli di democrazia. Abile a comunicare in televisione, ma anche sui social media. Consigliato da esperti di marketing politico e da blogger di grande competenza. Infine, o meglio: anzitutto, Renzi dispone della principale "struttura" della democrazia rappresentativa. Il Partito. Anzi: il Partito democratico. Io, da tempo, lo definisco PdR. Partito democratico di Renzi. O Partito di Renzi. Per marcare la connotazione "personale" che ha assunto. Tuttavia, occorre chiarirlo con forza, oltre alla R c'è il Pd. Perché se Renzi ha allargato la platea del Pd, è anche vero l'inverso. Il Pd ha offerto a Renzi una base elettorale ampia, fedele e radicata. Che lo ha votato e lo voterebbe anche se non gli piace. Per "fedeltà". Così è avvenuto, in fondo, anche al Senato, negli ultimi giorni. Quandola riforma è stata approvata con il voto di gran parte dei senatori del Pd. Nonostante il dissenso interno. Possiamo, comunque, fornire qualche indice più preciso di queste componenti. Anzitutto, possiamo ragionare sulla differenza tra il risultato alle politiche del 2013 e alle europee del 2014. (Per quanto si tratti di un indizio molto approssimativo e precario). La progressione del Pd, nelle due occasioni, è di circa 15 punti percentuali. Anche se isoliamo i comuni maggiori dove si è votato lo scorso 25 maggio, però, si osserva una tendenza simile. Alle Europee, infatti, il Pd ha ottenuto circa il 44%, alle comunali il 29%. Di nuovo: 15 punti di differenza. Sul piano demoscopico, possiamo utilizzare un sondaggio condotto da Demos la settimana dopo le recenti elezioni su un campione nazionale. Messi di fronte all'alternativa tra leader e partito, gli elettori del Pd che si definiscono anzitutto "renziani" sono circa il 41%. Quelli che, pur indicando un leader preferito, si dicono anzitutto "elettori del Pd" sono il 34%. Ma il 19% non indica un leader preferito e può, quindi, essere considerato un leader orientato al partito. Renzi, dunque, ha allargato il "pubblico" del Pd di oltre un terzo. Ha svuotato Scelta Civica e l'UdC, ha intercettato una quota significativa della base di FI e alcune componenti del M5s. Parallelamente, il Pd ha perduto una parte consistente del suo elettorato "ideologico", a favore di quello "personale". Che oggi pesa, mediamente, più che negli altri partiti. Tuttavia, si tratta di un valore aggiunto, che si somma a una base "fedele" molto più ampia rispetto agli altri partiti. Per questo oggi la leadership di Renzi prevale in modo tanto evidente. Perché nel PdR coabita oltre un terzo di elettori che vota per Renzi, anche se non ama il Pd. Mentre circa il 60% voterebbe per il Pd comunque. Anche "nonostante" Renzi. Nessun altro partito, in questa democrazia personale, dispone di un leader tanto attraente come Renzi. Ma nessun altro leader dispone di un partito vero - l'unico sulla piazza - come il Pd. È questo il plusvalore del PdR. Oltre alla R, anzi: prima, c'è il Pd. E questo costituisce un grande vantaggio competitivo. Ma, per Renzi, anche un grande rischio: fino a quando sarà in grado di tenere insieme, uniti e coerenti, questi due "partiti"?

La locomotiva d’Europa s’inceppa, ma i tedeschi rinnovano la fiducia alla Cancelliera

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La ripresa che non c’è e la BCE bella addormentata

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lunedì 11 agosto 2014

Il New Deal di Ferragosto

Il New Deal di Ferragosto

Luciano Belli Paci: Ostellino e Renzi

> > > Questo pezzo di Ostellino di oggi mi pare la migliore > risposta alle domande retoriche di Vicario. Ostellino non > è proprio sospettabile di ostilità pregiudiziale né nei > confronti di Renzi né nei confronti di Berlusconi, anzi, > eppure anche lui denuncia un serio rischio per la nostra > democrazia. Ora i casi sono due: o abbiamo tutti le > allucinazioni come dice la novella statista aretina, > oppure un problema esiste. Nessuno nel dibattito del > Circolo Rosselli sospetta, mi pare, che vi sia un disegno > totalitario da parte del bullo fiorentino. C'è, > piuttosto, un problema di insipienza, di faciloneria, di > ansia da prestazione, di esibizionismo, di > sopravvalutazione di sé. Il punto è che un pericolo per > la salute della democrazia repubblicana non diventa meno > grave per il fatto che viene arrecato in modo > preterintenzionale. E gli amici di Renzi farebbero bene a > farlo riflettere, invece di suonare la grancassa, prima > che si arrivi all'irreparabile . > > LBP > > SENATO, LE RIFORME E L'EQUILIBRIO DEL PAESE - Corsera - > Sabato 9 agosto 2014 > > Sabato 09 Agosto 2014 07:46 > > Valutazione > attuale:http://www.ilbenecomunenewsletter.it/templates/joomspirit_18/images/rating_star_blank.pnghttp://www.ilbenecomunenewsletter.it/templates/joomspirit_18/images/rating_star_blank.pnghttp://www.ilbenecomunenewsletter.it/templates/joomspirit_18/images/rating_star_blank.pnghttp://www.ilbenecomunenewsletter.it/templates/joomspirit_18/images/rating_star_blank.pnghttp://www.ilbenecomunenewsletter.it/templates/joomspirit_18/images/rating_star_blank.png > / 0 > ScarsoOttimo > > http://www.ilbenecomunenewsletter.it/images/stories/ostellino.jpg > > http://www.ilbenecomunenewsletter.it/images/stories/0908-cors.1.jpg > > di PIERO OSTELLINO > > Chi accusa il Movimento 5 stelle di non essere > propriamente l'Opposizione (britannica) di Sua Maestà non > ha tutti i torti. > > Ma non può neppure negare che l'opposizione grillina a > Renzi non abbia un fondamento di verità. L'articolo 10 di > riforma dell'articolo 72 della Costituzione dice che «il > governo può chiedere alla Camera dei deputati di > deliberare che un disegno di legge sia iscritto con > priorità all'ordine del giorno e sottoposto alla votazione > entro 60 giorni dalla richiesta, ovvero entro un termine > inferiore determinato in base al regolamento tenuto conto > della complessità della materia. Decorso il termine il > testo proposto dal governo, su sua richiesta, è posto in > votazione, senza modifiche, articolo per articolo con > votazione finale» (Senato della Repubblica, atto n° 1429, > punto i, lettera b). > > È evidente che, così concepito, questo aspetto della > cosiddetta riforma del Senato si propone di evitare gli > ingorghi prodotti dal numero eccessivo di emendamenti che > avevano caratterizzato, e ritardato, finora, > l'approvazione delle leggi da parte del Parlamento e di > accelerarne i lavori. Se esso, però, non è anche un > maldestro tentativo di esautoramento del Parlamento non so > in quale altro modo lo si dovrebbe chiamare. Del resto, > pare in sintonia sia con la vocazione monopolistica > «padronale» di Berlusconi, sia con la disinvolta e cinica > superficialità del giovane fiorentino - prigioniero delle > proprie stesse chiacchiere - che fa da battistrada al > totalitarismo latente di un partito, il Pd, che non ha > ripensato criticamente il proprio passato comunista. > L'articolo conferisce all'esecutivo nuovi e più poteri, > sottraendoli al legislativo, che fa da contrappeso al > governo. La nostra democrazia è su un crinale; ancora un > passo e precipita nel totalitarismo. L'analogia con il > 1922, per quanto forzata, non dovrebbe essere > sottovalutata. Avevo scritto che Matteo Renzi è un innocuo > chiacchierone. Spero di essermi sbagliato. Ma è troppo > pieno di sé e - poiché glielo fanno credere - tanto > convinto del proprio salvifico destino, per essere un > «incidente di percorso». A me pare, perciò, che Giorgio > Napolitano rischi di assomigliare a Facta e di ripetere > l'errore di Vittorio Emanuele III - che si era opposto > allo stato d'assedio contro la marcia su Roma perché aveva > creduto a chi, anche sul versante liberale, l'aveva > ritenuta un modo di rimettere ordine a un sistema politico > indebolito - e che, un volta che avesse assolto il proprio > compito sarebbe stato facile ricondurre Mussolini > nell'alveo della democrazia. > > Non pretendo neppure di rifare il verso a Giovanni > Amendola e a Piero Gobetti, che s'erano esposti ai > pericoli del caso. Faccio il mio mestiere di giornalista, > fra molti che non lo fanno, pensando, sulla scorta della > funzione che Tocqueville assegna al giornalismo in una > democrazia liberale, che non sia sbagliato gridare «al > lupo autoritario» se le circostanze lo suggeriscano e > ancora lo si possa fare. Credo lo si debba fare sopratutto > quando si è ancora in tempo. Perche prima o poi, il lupo > arriva e, di solito, non e' più tempo per rimediare... > postellino@corriere.it

domenica 10 agosto 2014

spazio lib-lab » L’Italia è in recessione; ma qual’è la notizia?

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Inequality Is a Drag - NYTimes.com

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Il coraggio di cambiare: il nuovo Uruguay di Pepe Mujica - micromega-online - micromega

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Investimenti: in Spagna crescono, in Italia no | Linkiesta.it

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Fabian Society » How Europe can be the future once again

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Italia in piena depressione: la ricreazione è finita. | cambiailmondo

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Perché Renzi deve piacere meno | Avanti!

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PERCHE’ LA SINISTRA: DOPO LA LETTERA DI DRAGHI: IL CONCETTO DI SOVRANITA' E IL MUTAMENTO NEL RUOLO DELLO STATO di Franco Astengo

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sabato 9 agosto 2014

Gim Cassano: La maggioranza del Nazzareno

La maggioranza del Nazzareno ha imposto la “sua” riforma. Intanto, l’Italia affonda. Con 183 voti a favore e 4 astensioni, su 187 presenti in aula (M5S, SEL, Lega non hanno partecipato al voto), il Senato ha approvato le riforme istituzionali che Berlusconi e Renzi hanno dapprima concordato, e poi imposto al Paese. Per illustrare il clima di tronfio conformismo che si sta respirando, basta citare due tra le dichiarazioni rilasciate subito dopo il voto: la prima, che spicca per la sua surreale ridicolaggine, è quella della senatrice Anna Finocchiaro, che ha dichiarato: “il voto ci consegna un Senato forte”. A quale forza si riferisce l’acuta senatrice, parlando di un senato che si vuol rendere del tutto superfluo nella mancanza di funzioni proprie, nella marginalità, nella squallida composizione, nella non rappresentatività? La seconda è il consueto tweet del boyscout di Rignano che, apprezzando l’esito del voto, ha cinguettato: “nessuno più fermerà le riforme”. Appunto: nessuno più fermerà i contraenti del patto del Nazzareno. Più che un cinguettio, questo appare come un minaccioso avvertimento. Intanto, il Paese va a fondo, e le parole di Draghi, nella loro brutalità, indicano quale sia il grado di considerazione che negli ambienti europei si ha delle cosiddette riforme italiane. In quasi sei mesi, il governo della discontinuità, a parte il “bonus” degli 80 euro, certo non sgradito a chi lo ha ricevuto, ma privo di alcuna efficacia anticiclica e caratterizzato da uno spudorato sapore preelettorale, non ha partorito alcunchè per affrontare le difficoltà economiche del Paese. Neanche un’idea. Il nostro riformatore ha incontrato i partners europei ed affrontato il semestre di presidenza italiana senza una strategia di politica economica, di qualsiasi segno essa potesse essere, e limitandosi a perorare genericamente la causa di un’Italia che stava facendo i compiti per propria convinzione e non per obblighi imposti. Ma in cosa consistano questi compiti, nessuno lo sa, in Europa, ed in Italia. Se poi per “compiti” e per riforme tali da rimettere in marcia il Paese e tali da persuadere l’Europa che qui si stia facendo sul serio, si intendevano i contenuti del voto di oggi al Senato, allora c’è da interrogarsi sul suo stato di salute mentale.questi compitiqqquesti Per il resto, ottenendone un neanche tanto garbato rifiuto, il nostro ha cercato di ottenere che in una qualche maniera vengano allentati i vincoli che di fatto penalizzano gli investimenti pubblici. Ma senza indicare strategie, priorità, coperture. Difatto, oggi non esiste alcuna linea di politica economica: il Paese vero si arrabatta come può, senza che da parte del governo si indichi una strada, rigorista od espansiva che questa possa essere. Si ha la fondata convinzione che la vera maggioranza non sia quella di governo, ma quella che fa capo al Patto del Nazzareno, buona per assicurare congiuntamente ai suoi contraenti quell’occupazione del potere che per vent’anni nessuno dei due era riuscito da solo ad accapararsi stabilmente. Ma del tutto inadeguata a dare una qualsivoglia risposta alla questione centrale che oggi si pone: quella di rimettere in marcia il Paese. Si sono annunciati per il prossimo futuro provvedimenti dei quali non si sapeva quali potessero essere le coperture; si è pasticciato sulla spending revue; si sono fatte stime sul PIL regolarmente smentite dai fatti. Nel frattempo, il clima di sfiducia attorno al sistema-Italia va montando: lo spread che, checchè se ne dica, qualcosa indica, ha ripreso a muoversi; la Borsa Italiana non attira più; l’occupazione continua a inanellare record negativi; la Fiat se ne va, Merloni vende, Alitalia viene salvata dagli arabi, ma a caro prezzo per noi. Non si affrontano le questioni cruciali, per la semplice ragione che questa maggioranza (e meno che mai quella del Nazzareno) non ha le idee, la cultura politica, i riferimenti sociali che le consentano di affrontarle. Non esistendo una credibile alternativa di sinistra, questa maggioranza ha gioco facile nel proseguire in una sorta di “io, speriamo che me la cavo” senza parlare di radicali tagli alla spesa corrente, di patrimoniale, di pianificazione e di investimenti. In compenso, si elimina il Senato e si creano le premesse perché chi governa possa farlo prescindendo dall’opposizione, da ogni idea di bilanciamento dei poteri, e dal gioco politico di una democrazia nella quale i cittadini possano far sentire la loro voce. E si ha la sensazione che la rozza ed approssimata urgenza con la quale si stanno traducendo in legge gli accordi del Nazzareno sia in realtà finalizzata alla necessità di far presto passare, senza discussione né opposizione, ed attraverso procedure sottratte al gioco democratico, politiche economiche eterodirette, che faranno pagare ai più il costo non dell’uscita dalla recessione, ma del suo perdurare in termini che però siano finanziariamente compatibili con gli interessi dei pochi e della parte forte dell’Europa. Gim Cassano, 08-08-2014 (347-3013770, gim.cassano@tiscali.it)

mercoledì 6 agosto 2014

Renata Targetti Lenti: Il “capitalismo patrimoniale” secondo Thomas Piketty

Il “capitalismo patrimoniale” secondo Thomas Piketty 06.08.14 Renata Targetti Lenti lavoce.info Piketty riporta al centro del dibattito il tema della disuguaglianza. E di come questa si perpetua di generazione in generazione, con un capitalismo patrimoniale che si fonda sull’accumulazione, da parte di pochi, di rendite dovute a beni ereditati. Classe media in declino e freni alla crescita. UN’ANALISI DELLA DISUGUAGLIANZA Capital in the Twenty-First Century di Thomas Piketty è un contributo importante al pensiero economico. (1) Riporta al centro del dibattito economico e politico il tema della diseguaglianza e della sua perpetuazione tra generazioni attraverso la trasmissione ereditaria delle diverse forme di capitale fisico, finanziario e umano, in una impostazione che può essere definita “classica”. L’analisi di Piketty è rivolta a spiegare il ruolo dell’accumulazione di capitale e della distribuzione del reddito sul e nel processo di crescita dell’economia. L’esito distributivo viene ricondotto a un conflitto tra categorie di percettori, più numerose ed eterogenee rispetto a quelle prese in considerazione da Ricardo o Marx. Non solo i lavoratori si contrappongono ai percettori di redditi da capitale e di rendite ma, all’interno di questa categoria, si distinguono i percettori di rendite finanziarie rispetto a quelli da proprietà immobiliare. Si deve a Piketty l’avere sviluppato, insieme a due colleghi (Anthony Atkinson a Cambridge ed Emmanuel Saez a Berkeley) una metodologia per ricostruire il livello di diseguaglianza nella distribuzione non solo dei redditi, ma anche della ricchezza nel lungo periodo, tanto in quei paesi occidentali dove esiste da tempo un’imposta personale sui redditi, quanto in Cina, in India e in molte nazioni dell’America latina. Raramente, in precedenza, l’analisi della diseguaglianza era stata effettuata nel lungo periodo: anche quando lo si era preso in considerazione, le stime della diseguaglianza riguardavano infatti solo i redditi, e quasi mai la ricchezza. Il conflitto distributivo appare a Piketty particolarmente rilevante quanto ci si riferisce all’1 per cento più ricco. L’attenzione per tali percettori è un fenomeno molto recente. Per effettuare questa analisi è necessario infatti adottare specifici metodi di stima, condizionati dalle differenze fra i regimi fiscali e fra i tassi di evasione. In particolare, occorre risolvere problemi di comparabilità tra paesi, con particolare riferimento alla stima dei redditi finanziari. L’analisi di Piketty mostra come i redditi più elevati costituiscano una quota significativa del reddito nazionale e del totale delle entrate fiscali, anche se i rispettivi percettori rappresentano una percentuale molto modesta della popolazione. Il gruppo dell’1 per cento più ricco non comprende d’altra parte solo percettori di redditi da capitale, ma anche di redditi da lavoro. Tra le possibili spiegazioni della crescita dei redditi più elevati si deve annoverare, dunque, anche il funzionamento del mercato internazionale del lavoro. I compensi più alti di alcune categorie di lavoratori come i manager e le cosiddette “superstar”, sono fissati dalle stesse categorie manageriali sulla base di criteri molto diversi da quelli prevalenti nel mercato del lavoro. Negli Stati Uniti (definito paese a diseguaglianza elevata) il reddito disponibile dell’1 per cento più ricco della popolazione è stato stimato, nel 2010, pari a ben il 20 per cento del totale (dati pubblicati dal Congressional Budget Office) essendo cresciuto tra il 2009 e il 2010 con una velocità ben superiore a quella di qualsiasi altro gruppo. In parallelo all’arricchimento progressivo dell’ultimo percentile, si è ridotto il peso della classe “media” (definita come quella che corrisponde al secondo, terzo, e quarto “quintile”, complessivamente al 60 per cento dei percettori): ha ricevuto, nel 2012, una quota pari al solo 45,7 per cento. QUANDO IL PASSATO DIVORA IL FUTURO In un sistema caratterizzato da quello che Piketty definisce il “capitalismo patrimoniale”, fondato sull’accumulazione, da parte di pochi, di redditi costituiti da rendite improduttive, e cioè provenienti da beni ereditati piuttosto che da beni accumulati con il risparmio originato dai redditi da lavoro, “il passato divora il futuro”. Se il processo di crescita del prodotto netto rallenta a causa di fattori esogeni (demografici o tecnologici) e il capitale cresce più rapidamente del reddito nazionale, i redditi da capitale assumono un’importanza sempre maggiore rispetto ai redditi da lavoro. Non solo aumenta la diseguaglianza, ma si innesta un circolo vizioso tra diseguaglianza e crescita. L’accesso ai gradi più elevati dell’istruzione è infatti costoso e le categorie più povere, ma oggi anche gran parte della “classe media”, ne vengono escluse, provocando un impoverimento del capitale umano. Piketty documenta come per circa un trentennio, dalla ricostruzione post-bellica agli anni Settanta (la cosiddetta “golden age”), il rapido processo di industrializzazione, insieme a politiche fiscali e di spesa pubblica progressive, abbia favorito la crescita della classe media, il consolidamento della democrazia e una crescita elevata in tutti gli Stati occidentali. Questa fase si è invertita a partire dalla fine dello scorso secolo. In parallelo all’aumento della diseguaglianza si è osservato un rallentamento della crescita, se non un vero e proprio declino, almeno in alcuni paesi. Secondo Piketty, tuttavia, un aumento della diseguaglianza finisce con il frenare la crescita anziché stimolarla. La pubblicazione di Il Capitale nel XXI secolo è stata accolta da recensioni molto positive su numerosi quotidiani e settimanali. Recentemente, tuttavia, sono apparse alcune critiche, sollecitate da un intervento di Chris Giles, responsabile della parte economica del Financial Times,circa l’attendibilità delle fonti dei dati nonché della correttezza di alcune stime. I rilievi critici sono stati seguiti da altrettanto numerosi articoli in difesa di Piketty. Lo stesso Piketty ha risposto sottolineando come le analisi delle relazioni tra diseguaglianza e crescita, pur basate su di un’abbondante evidenza empirica, non possano che essere il risultato di un’inferenza imperfetta, dal momento che appartengono all’ambito delle scienze sociali. (1) Piketty, T. Capital in the Twenty-First Century, Cambridge, MA.: Belknap Press, Harvard University Press, april 2014, pagg. 696, $39,95, eBook $27,46. Spending review tra tecnica e politica Non sappiamo quale sarà il futuro di Carlo Cottarelli, dopo il suo attacco frontale alle scelte del Parlamento. Una vicenda che mette in luce un nodo irrisolto: il difficile rapporto tra tecnici e politici quando si affrontano tagli di spesa. Un… La recessione infinita Tornerà il segno più, diceva l’ex premier Enrico Letta all’inizio di settembre 2013, parlando delle prospettive 2014. Prima di lui, anche gli altri primi ministri degli ultimi anni erano stati ottimisti per il futuro (nel caso di Silvio Berlusconi,… Giovani che scelgono con i piedi I primi dati sulle adesioni alla Garanzia giovani segnalano un alto numero di iscrizioni interregionali. I motivi possono essere i più svariati. Ma rimandano una richiesta di scelte politiche coraggiose. 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