sabato 20 giugno 2015

Franco Astengo: Migranti, guerra, fame

MIGRANTI, GUERRA, FAME: MANCA IL CORAGGIO PER UNA GRANDE INIZIATIVA INTERNAZIONALE di Franco Astengo Circa sessanta milioni di persone, in condizioni disperate, stanno cercando di fuggire dagli scenari di guerra e di fame che contraddistinguono tante parti del mondo. Come il solito, secondo il vecchio detto cinese, lo stupido guarda al dito e non alla luna e il fenomeno viene catalogato come quello dei “migranti” che fanno paura, sono brutti, sporchi, cattivi, turbano gli equilibri costituiti. Così si discute di “quote”, qui nel piccolo laghetto mediterraneo mentre gli scenari bellici sono ben più ampi: investono l’Africa del Nord e quella sub-sahariana, il Medio Oriente, l’Asia Centrale, il Sud-Est asiatico. E’ il segno del completo fallimento della politica estera USA (quella interna è ben segnata dall’eccidio di Charleston) quale unica “superpotenza” presunta esportatrice di democrazia sulla punta delle baionette. Si sta ristabilendo un pericoloso equilibrio bipolare con la nuova Russia a vocazione imperiale che si sta cercando di accerchiare (come ai vecchi tempi dell’URSS) fomentando la guerra in Ucraina e andando a svolgere manovre NATO ai suoi confini. Si tornano a dispiegare missili in Europa come ai tempi dei Pershing e degli SS20, fautori Reagan e Breznev. Non c’è soltanto la guerra ma anche la fame: ribolle, come sempre, la frontiera tra Messico e USA e quella tra Bolivia e Argentina attraversate da torme di “desperados” che, poi, quando riescono a passare le frontiere sono schiavizzati dai nuovi padroni. La presuntuosa Europa, mentre non trova pochi soldi per la Grecia, si diletta a discutere prigioniera dei banchieri e dei burocrati, senza riuscire a prendere un minimo di iniziativa a livello internazionale. Una classe politica arrogante, mediocre, priva di respiro culturale. Una classe politica nel suo complesso frutto del degrado che i soggetti eredi delle grandi idee del '900 hanno subito nella logica della spettacolarizzazione, della contesa “agonistica” per il potere, dell’omologazione nell’idea della ricchezza per la ricchezza allo scopo di alimentare il consumismo individualistico hanno prodotto nel vecchio Continente. L’ONU, per quel che poteva valere anche in passato, appare soggetto completamente scomparso sul piano politico, privo di funzioni e di capacità di intermediazione e confronto. Mancano capacità e coraggio per una grande iniziativa internazionale che principi dall’affermare la necessità della pace e il ristabilimento di giusti equilibri. Gli esempi, però nella storia ci sono e qualche volta, se ci fossero governanti all’altezza sufficientemente illuminati, un’azione non velleitaria potrebbe essere intrapresa. Torniamo allora al passato, allo scopo di rievocarne alcuni passaggi. In un mondo dominato ormai, dopo la fine della seconda guerra mondiale, dalla logica dei due blocchi contrapposti: quello occidentale raccolto attorno agli USA, e quello orientale egemonizzato dall’URSS si svilupparono, nel decennio intercorso tra il 1950 (anno di inizio della guerra di Corea) e il 1960 (con il completamento, salvo alcune sanguinose eccezioni come l’Algeria, del processo di decolonizzazione in Africa) si compirono alcuni eventi assolutamente fondamentali per il prosieguo del processo storico a livello planetario. Assieme alla fine irreversibile del vecchio colonialismo si possono ricordare l’entrata in crisi della “guerra fredda”, la ricostituzione della potenza economica dell’Europa Occidentale e del Giappone, l’emergere della Cina comunista. Quattro paesi rimanevano ancora in possesso di imperi coloniali: la Gran Bretagna, la Francia, il Belgio e il Portogallo. A simboleggiare l’anacronismo coloniale è utile ricordare come i primi tre paesi abbiano assistito in questo decennio alla fine dei loro Imperi (una fine subita dai britannici in modo assai meno drammatico rispetto ai francesi) e che l’ultimo paese coloniale, fino al 1975, sia rimasto il povero Portogallo di Salazar e Caetano. La fine del colonialismo corrispose a una serie di imperativi storici: dopo la seconda guerra mondiale apparve chiaro che la nuova forma di dominio mondiale non passava più attraverso le forme coloniali, bensì attraverso la costituzione di immense sfere di influenza che, includendo paesi sviluppati o meno, non avevano più nulla a che fare con le colonie. In questo senso agirono le due grandi potenze: USA e URSS. L’influenza statunitense nel mondo si esprimeva esportando capitali, tecnologia, fornendo aiuti di vario tipo e condizionando le linee politiche degli Stati subalterni, come in Europa Occidentale, oppure saccheggiando risorse e materie prime attraverso una combinazione di sfruttamento economico e di controllo politico sui governi, come in America Latina. Questa logica esercitata dagli USA rappresentava una nuova forma di imperialismo, che non si basava più sul possesso diretto dei territori dipendenti, bensì sul controllo in senso politico ed economico, così da creare una dipendenza fra Stato guida e Stati di secondo o terzo rango. Il sistema neo – imperialista era molto articolato e andava da una complessa politica di alleanza e di condizionamento verso grandi paesi fino alla politica brutale in paesi sotto governi- fantoccio in Asia e in America Latina. Alla sfera di influenza statunitense, basata sull’imperialismo di tipo nuovo, corrispondeva quella sovietica, nella quale l’URSS, pur nemica del vecchio colonialismo e dell’imperialismo di nuovo conio di marca statunitense, realizzava una sua forma di ferreo dominio sui paesi minori, che si manifestava nel controllo politico ed economico e nell’utilizzazione delle risorse dei piccoli e medi Stati dell’Est europeo (certo in una misura meno brutale e massiccia di quanto non facessero gli USA verso i paesi più deboli della loro sfera d’influenza). Il primato sovietico nel campo socialista poggiava, analogamente a quello statunitense, sul monopolio delle superarmi e dei più avanzati settori tecnico – scientifici. La decolonizzazione, con il sorgere conseguente di numerosi Stati nuovi, portò al delinearsi di un nuovo mondo che fu battezzato con un’espressione poi corrente per un lungo periodo eppur vaga “Terzo Mondo”. Un “Terzo Mondo” variegato per storia, economia, struttura politica eppure accomunato da alcune grandi tendenze di fondo: la necessità di svilupparsi in tempi rapidi e la diffusa tendenza al “neutralismo”. In quest’ambito si svilupparono alcune iniziative clamorose che misero in luce proprio queste tendenze “neutraliste”. Dopo la conferenza di Colombo (Ceylon) del 1954, nel corso della quale India, Pakistan, Birmania, Ceylon e Indonesia presero posizione per la fine della corsa all’armamento nucleare, contro il colonialismo, a favore della pace e della distensione ebbe grandissima importanza la Conferenza di Bandung (Indonesia), la quale fra il 18 e il 24 aprile 1955 riunì 29 stati che per la maggior parte erano neutrali. La conferenza era il frutto delle discussioni sviluppatesi tra alcuni paesi asiatici durante la fase finale della crisi indocinese, e dopo la firma, nel settembre del 1954, del trattato istitutivo della SEATO (l’omologo sul fronte del Pacifico, della NATO). Originariamente la conferenza di Bandung non era ispirata da un comune progetto tra i paesi partecipanti di non allineamento rispetto agli schieramenti della guerra fredda, dato che fra i paesi invitati erano presenti tanto il Pakistan, ben legato all’Occidente dal trattato della SEATO e dalla sua politica generale, quanto la Cina, in quel momento schierata con l’URSS, o le Filippine e il Giappone, capisaldi degli USA nel Pacifico. L’estensione del campo asiatico a quello afro-asiatico ebbe luogo quando si pose la questione di invitare alcuni paesi arabi e africani di recente indipendenza o di importanza risolutiva per l’ampliamento dei consensi: così l’invito fu esteso all’Egitto, alla Siria, al Libano, alla Liberia, al Sudan, all’Etiopia e al Ghana. Complessivamente a Bandung furono presenti 29 delegazioni, eterogenee quanto alla provenienza e anche rispetto alla loro linea di politica internazionale ma tutte sensibili al tema degli schieramenti in relazione allo scontro sovietico – americano e ai costi impropri che la logica dello scontro proiettava su tutto il globo, deformando le possibili iniziative di sviluppo come, ad esempio, il cosiddetto “piano di Colombo”, che era stato lanciato nel 1950 su iniziativa britannica, nell’ambito dei paesi asiatici del Commonwealth, e dal quale avevano tratto ispirazione gli stessi promotori della Conferenza di Bandung per dare maggiore evidenza al problema dello sviluppo economico rispetto a quello dei conflitti militari. In realtà il proposito iniziale fu modificato durante i lavori dal ruolo dominante assunto da alcuni dei partecipanti, come Nehru, Sukarno, Nasser, U Nu e Chou En Lai, che riuscirono a sovrapporre alle tematiche di schieramento nelle quali i 29 partecipanti erano impegnati l’analisi di alcuni principi generali che avrebbero dovuto costituire come una sorta di guida del “non allineamento”. Il diritto di autodeterminazione nazionale e la condanna del colonialismo ebbero un posto importante nel dibattito, sebbene sul secondo tema si verificassero gli scontri polemici più duri, dato che i Paesi più vicini agli USA, come il Pakistan, posero la questione della condanna come forze imperialistiche dell’URSS e degli altri paesi comunisti. Un altro punto importante fu rappresentato dall’impegno, sancito in linea di principio, di “astenersi dal partecipare ad accordi di difesa collettiva volti a servire gli interessi particolari delle grandi potenze”. Era questa la formula del “non allineamento”, la cui formula consentì però una vasta gamma di interpretazioni. In generale la conferenza ebbe un forte valore simbolico, offrendo anche forti spunti di dibattito e intervento ai movimenti della sinistra critica in Occidente, in quanto vi furono affermati principi del futuro ordinamento internazionale come il forte impegno a favore dell’indipendenza dei popoli coloniali, che avrebbe avuto larga eco nel mondo, così come ebbe grande risonanza l’annuncio di una nascente coalizione neutralistica (alla quale avrebbero poi aderito anche la Jugoslavia e Cuba, al momento della rivoluzione castrista). Certo non mancarono le contraddizioni, ma gli esiti risultarono fortemente positivi (soprattutto se comparati alla situazione odierna). Prevaleva la Politica con la P maiuscola, al contrario di oggi dove alla Pietas del Papa si contrappongono soltanto egoismi di ogni natura. Un quadro drammatico, sconsolante, foriero di ulteriori sciagure.

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