giovedì 25 agosto 2016

Franco Astengo: L'attimo

L’ATTIMO di Franco Astengo E’ facile, e da più parti lo si sta già facendo, avviare la discussione sul post – terremoto scrivendo di costruzioni anti – sismiche, di piano nazionale di riqualificazione del territorio, di funzionalità della protezione civile, di mezzi e risorse a disposizione. Sarebbe banale, anche se sempre necessario, riflettere sull’attimo fuggente alla rovescia, il contrario del carpe diem: quando il diem afferra la vita delle persone e la azzera, non tanto e non solo sottraendo il soffio vitale, ma mandando all’aria il bilancio di intere esistenze, l’accumulo di cose semplici e il lascito di pensieri profondi di quelli che segnano il cammino dell’individuo. L’attimo provoca l’abbandono, il sentirsi trafitto sul sentiero della vita,l’abbandonarsi alla fatalità come meta estrema dell’ingegnarsi umano. Tutto questo è vero, è stato detto tante volte, rappresenta il bagaglio dell’ovvietà che pure in ogni simile occasione va disfatto e ritrovato. Probabilmente, però, occasioni come questa – proprio in relazione al momento storico che non è mai specifico e insieme non è mai il banale scorrere del fiume – fanno sì che risulti possibile una riflessione sulla folle corsa che la modernità impone alla ricerca di un verticismo assoluto nella detenzione del potere, nell’assolutismo dell’io come essere esaustivo della finalità umana come punto di ricerca dell’assolutismo politico. Emerge un contrasto evidente, si sente uno stridore terribile proprio tra questa ricerca della verticalità del potere assoluto e l’orizzontalità piatta dello scorrere della vita umana. Una orizzontalità perenne, che si perpetua nonostante le deviazioni improvvise che un itinerario di vita trova strada facendo. Questi frangenti impongono di tornare a riflettere proprio sull’appiattirsi delle relazioni, sull’impossibilità di riconoscere un ordine e un comando che appaiono inutili nel loro vano dimostrarsi. L’orizzontalità dell’essere reclama il collettivo, il “noi”, e respinge l’io. Non si tratta di un richiamo, pur doveroso, all’uguaglianza e alla solidarietà ma qualcosa di più profondo di rifiuto dell’esercizio dell’io in funzione della sopraffazione dell’altro. L’ingiustizia come fattore della convivenza sociale, elemento essenziale del verticismo politico, non può essere accettata quando l’attimo livella le esistenze e appiattisce il divenire della storia indirizzandolo verso l’assenza di esito. L’attimo fa sparire il potere come arroganza e suoi epigoni si aggirano orfani e smarriti in cerca della zattera di una telecamera. L’Occidente , residuo invertebrato della “politica di potenza”, sembra arrendersi all’ineluttabile e non basta più una teodicea laica per giustificare l’imposizione del proprio governo verso altri. Sarà difficile evitare un rinnovamento del nichilismo, come forma estrema della propria soggettiva affermazione di fronte al dramma collettivo. Tornare dal soggettivo all’oggettivo, dall’individuale al collettivo, dal non riconoscimento del potere all’esercizio di una gestione sociale delle risorse disponibili, non sarà semplice in una società che abbiamo voluto organizzata “in pianura”. Il terremoto impiega un secondo a distruggere individualismo e consumo. Costruire un’alternativa sarà compito lungo e arduo: avremo bisogno soprattutto di motivare un senso, un indirizzo, un destino. La politica come destino riprendeva tempo addietro Antonio Peduzzi da Karl Lowith. Ecco, appunto: la politica come destino non come potere.

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