venerdì 31 marzo 2017

Franco Astengo: Nazionalismo

NAZIONALISMO di Franco Astengo Stiamo assistendo al rapido passaggio dall’ineluttabilità di un superamento dello “Stato Nazione” e della velocità apparentemente impressa ai processi di cessione di sovranità a organismi sovranazionali (dall’UE ai vari trattati di commercio e libero scambio) al ritorno imperioso dei Nazionalismi. Un vero e proprio “salto nella Storia” guidato addirittura dalla superpotenza che, a partire dall’ultimo decennio del XX secolo, si era addirittura arrogata il compito di “esportatrice della democrazia” e di “solo gendarme del mondo”. Adesso invece gli USA riscoprono tutta la strumentazione nazionalista sia sul piano economico, sia – in previsione ma già annunciata – militare. Il fenomeno è in evidente ascesa e nell’Occidente, complice anche il fallimento dei processi geo politici tentati in varie direzioni, assume le forme di movimenti politici che se anche non riusciranno a realizzare obiettivi di governo hanno già portato a mutamenti culturali di grande rilievo e, per quel che riguarda l’Europa, al riaprirsi (se mai potesse essere considerata chiusa) della “faglia” Est /Ovest: un punto di rottura ben determinato tenuto anche conto del fatto che a Oriente, in molti paesi importanti, le forze nazionaliste hanno assunto un ruolo di governo e come sia in atto un confronto bellico in un paese di grandi dimensioni e collocato al centro di quel settore strategico come l’Ucraina. E’ bene quindi ripassare il concetto classico di “Nazionalismo” perché attraverso questa rilettura è possibile riprendere piena consapevolezza dei pericoli in atto (fondamentale sotto quest’aspetto il testo “Nazioni e Nazionalismo di Ernest Gellner oltre ai lavori di Stuart Woolf ed E.J. Hobsbawm). Un’assoluta identificazione con la nazione e con l’interesse nazionale ha rappresentato, almeno a partire dalla seconda rivoluzione industriale, il tratto più tipico del nazionalismo. L’ideologia propriamente nazionalista è stata adoperata, a suo tempo, per contrastare il processo di emancipazione e d’integrazione delle masse (con precipua propensione di utilizzo del nazionalismo in funzione antisocialista). Alle masse sarà così proposta da parte dei nazionalisti la piena identificazione con il destino dello Stato. Da questo principio sono derivati due fenomeni: 1) Quello dell’autoritarismo in difesa dell’interesse nazionale 2) Quello della guerra conseguente al primo come identificazione dell’interesse nazionale con l’intervento armato. Il nazionalismo è stato accompagnato, in passato, dall’emanazione di leggi antisociali e illiberali addirittura di origine biologista (leggi razziali, leggi di discriminazione di genere) e presupponenti, in fondo, a una vocazione di tipo colonialista (vi sono esempi da questo punto di vista riguardanti il ruolo di paesi Europei in Africa nei tempi più recenti come la Francia nel Mali e lo stesso comportamento italiano in Libia che ci ha fatto rievocare il 1911). Si tratta di tensioni di natura che possono essere ben considerate di natura neofascista e che si accompagnano con l’idea personalistica – assolutistica di detenzione del potere politico: un fenomeno che, in Italia, si presenta ancora sulla scena con estrema pericolosità anche dopo aver respinto il tentativo di modifica della Costituzione attraverso il voto del 4 dicembre 2016. E’ evidente che a questo stato di cose, che si lega all’assoluto fallimento degli obiettivi di governo della fase estrema della globalizzazione portati avanti dai Paesi occidentali al di là delle specifiche formule politiche di maggioranza o di minoranza, e dall’arretramento che è derivato proprio dall’acquisizione acritica da ciò che si stava imponendo attraverso la gestione del ciclo capitalistico, sulle condizioni materiali di vita e di sicurezza sociale per popoli interi. Sarebbe necessario, allora, rispondere portando avanti sul piano internazionale movimenti in grado di contrastare efficacemente prima di tutto il riemergere dei pericoli di guerra e in secondo luogo le ragioni universali della solidarietà e dell’uguaglianza. Ragioni che risultano essenziali per definire un nuovo quadro di progresso:termine sicuramente ambiguo che è però possibile usare di nuovo in questo momento proprio per sottolineare l’esigenza di alterità rispetto al processo di arretramento storico in atto. Ragioni che non dispongono, nell’attualità, di una sufficiente progettualità e di un’adeguata strutturazione sul piano politico.

L’Italia ha bisogno di sentire “qualcosa di sinistra” - Menabò di Etica ed Economia

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L’impatto della crisi sulla disuguaglianza salariale in Italia - Menabò di Etica ed Economia

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Di cosa ci parla la Flat Tax del governo

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facciamosinistra!: Disobbedire a chi ripete che non c’è alternativa. Intervista a Yanis Varoufakis

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"PER UN SOCIALISMO NON SUBALTERNO" di MAURIZIO GIANCOLA

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mercoledì 29 marzo 2017

Europa, 60 mal portati - SOLDI E POTERE - Blog - Repubblica.it

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Le sfide della sinistra nella crisi europea - Sbilanciamoci.info

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Ue, serve una rifondazione costituzionale - Sbilanciamoci.info

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Il Jobs Act: una cura inefficace per una diagnosi errata

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BOTTONE EXPO E ASOLA CITTÀ STUDI | Bernardo Notarangelo - ArcipelagoMilano

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LA GAMBA TESA DELLE FERROVIE DELLO STATO E IL PROTOCOLLO DI URBANISTICA | Luca Beltrami Gadola - ArcipelagoMilano

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lunedì 27 marzo 2017

Policy Network - What does Emmanuel Macron's ascendancy mean for the French left?

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Scrive Felice Besostri: Gramellini e i socialisti | Avanti!

Scrive Felice Besostri: Gramellini e i socialisti | Avanti!

Felice Besostri: Le elezioni in Saarland

Le elezioni in Saarland un test a dimensione ridotta per le elezioni federali tedesche Alla vigilia del voto le previsioni attestavano una vittoria della SPD con il 32,5%, che sommato al 12,8% della Linke davano una vittoria ad una possibile coalizione di sinistra, perché la CDU sarebbe stata sì il primo partito con il 36%, ma senza alleati in quanto sia i liberali della FDP che i Verdi non avrebbero superato la soglia del 5%: esclusa una Jamaica Koalition, essendo i colori dei partiti nero(CDU), giallo(FDP) e verde gli stessi della bandiera della patria del reggae, che governò la Saar dal 2009 al 2012. Nel 2012 si sostituì al governo una Grosse Koalition CDU-SPD con 37 seggi su 51, cioè superiore ai due terzi. La realtà è stata altra, perché la CDU ha preso il 40,7% (+5,5), la SPD il 29,6%(-1) e la Linke 12,9%(-.3,2). La sinistra passa dal 46, 7% del 2012 al 44,3% e i Verdi escono dal Landtag con il 4%( -1). Una maggioranza relativa di destra esiste sulla carta CDU+ AfD con il 46,8% e 27 seggi, ma politicamente impraticabile perché CDU e AfD sono alternative alle elezioni federali. Il sistema di riparto dei seggi, per i partiti sopra soglia, favorisce il partito, più grande e perciò SPD con 17 seggi e la Linke con 7 hanno lo stesso numero di seggi della CDU, cioè 24, pur avendo un 4% in più. Le ridottissime dimensioni della Saar non ne fanno un test significativo per le prossime elezioni federali, se non la conferma che l’AfD sarà rappresentata nel Bundestag, come la è ormai in 11 dei 16 Land tedeschi e che i liberali sono a rischio di esclusione. La partita CDU-SPD si gioca anche su questo e sulla capacità di Verdi e Linke di stare nella stessa coalizione. Se la Saar fosse il modello non si potrebbe essere ottimisti. I rapporti tra Linke e i Verdi, già al tempo di Oskar Lafontaine candidato a Ministerpresident del Land nel 2009, sono pessimi ed infatti malgrado una Linke al 21, 3% ed una SPD al 24,5% e i Verdi al 5,9% un chiaro 51,7% il risultato fu un governo CDU, FDP e Verdi. Le Jamaica Koalition non hanno funzionato, anche nella Saar non si completò la legislatura e nel 2012 si andò ad elezioni anticipate, ma in linea di principio i Verdi non sono incompatibili con un’alleanza con la CDU di Angela Merkel. Al successo CDU ci sono spiegazioni locali la Ministerpresident è popolare e un buon governo alternativo non era credibile. I socialdemocratici erano reduci da una Grosse Koalition a guida democristana. La Linke ha disperso in pochi anni un consenso del 21%, mai raggiunto in un Land dell’Ovest.S I Verdi, infine, non hanno dato prova di essere affidabili per un governo stabile. Se a ciò si aggiunge, che settori di opinione pubblica sono dell'idea, dimostrata dalla più alta percentuale di votanti degli ultimi 15 anni, che per arginare l'estrema destra la cosa tatticamente più saggi sia rinforzare Mutti, cioè Angela Merkel. Un voto CDU-CSU a spese dei liberali è anche un'ottima assicurazione contro una maggioranza rosso-rosso-verde. Aspettiamo le elezioni di maggio con il 7 lo Schleswig-Holstein , ma soprattutto il 14 con la Nordrhein-Westfalen e i suoi quasi 20 milioni di abitanti. Felice Besostri

domenica 26 marzo 2017

La riproposizione del socialismo | Salvatore Biasco

La riproposizione del socialismo | Salvatore Biasco

Felice Besostri: Lettera al sen. Manconi

Luigi Manconi merita rispetto anche se sbaglia e avrà motivo di ricredersi presto, se la Giunta delle elezioni farà con urgenza quello che avrebbe dovuto fare fin dall’inizio, cioè trattare in via prioritaria la questione dell’ineleggibilità sopravvenuta conseguente alla sua cancellazione dalle liste elettorali. Per essere Senatore ai sensi dell’art. 58 Cost bisogna essere elettore con 40 anni compiuti. Il dr. Minzolini è stato cancellato dalle liste elettorali del Comune di Roma il 3 marzo 2016, gli è andata bene tutto sommato: è ancora a Palazzo Madama con prerogative ed indennità che non gli spettano. La Severino è una legge malfatta e tra i tanti errori è quello di aver richiamato l’art. 66 Cost. per la decadenza. Le norme della Costituzione si applicano per forza propria e non perché richiamate da una legge ordinaria; per di più si tratta di un decreto legislativo confezionato dal Governo sulla base di una norma di delegazione, che tale riferimento non faceva. Nel Porcellum e nell’Italicum, l’esproprio delle prerogative presidenziali - operato con l’attribuzione di un premio di maggioranza di 340 seggi ad una lista o coalizione che indicava il nome di un capo, che per di più poteva figurare nel simbolo con l’aggiunta della carica - era stato mascherato con un richiamo all’art. 92 Cost. Chi è interdetto dai pubblici uffici non può ricoprire cariche pubbliche per l’art. 28 Codice Penale, non per la Severino, e non può percepire alcun emolumento dalla P.A. La sospensione condizionale della pena, che molti dei dissenzienti dalla decadenza ritenevano che gli fosse stata ingiustamente negata, non avrebbe sospeso la pena accessoria: quindi diventava ineleggibile anche con una condanna a due anni, cioè con la Severino inapplicabile. Manconi che si occupa di difesa dei diritti umani, anche dei detenuti, mi è stato vicino, uno dei pochi, quando ho iniziato una battaglia giuridica per la concessione della grazia a Bompressi: per questo gli sarò sempre grato e non lo additerei mai al pubblico ludibrio. Le cause, nelle quali è impegnato, non gli hanno lasciato il tempo di approfondire. Lui crede di aver votato contro la relazione per i motivi espressi nella lettera, cioè l’esistenza di altri giudicati contraddittori, la presenza del magistrato ex parlamentare di centro-sinistra nel collegio giudicante, la mancata concessione della condizionale, la pena superiore a quella chiesta dal PM; ma in realtà ha semplicemente votato a favore di un OdG d di non approvazione della relazione della Giunta, presentato ai sensi dell’art. 135-ter del Senato, che a quelle motivazioni non fa il minimo cenno. Quell’Odg non doveva neppure essere messo in votazione perché non rispondente ai requisiti dell’art. 135-ter Reg. Sen.: soprattutto, non è motivato. Se il Senato pretende di giudicare, dovrebbe sapere che un giudizio deve a pena di annullamento essere motivato. Quell’ordine del giorno non lo era. In caso di conflitto di attribuzione sollevato dall’ordine giudiziario, un suo accoglimento esporrebbe il Senato a una magra figura, che farebbe il paio con la nipote di Mubarak. Caro Manconi dovevi riflettere o chiedere che l’OdG fosse modificato, inserendovi le tue motivazioni o comunque delle motivazioni purchessia: almeno si salvava la forma. Felice Besostri

Franco Astengo: Democrazia consensuale, democrazia dissociativa

Democrazia consensuale Democrazia dissociativa di Franco Astengo Sono evidenti i punti di fallimento fatti registrare dall’intera classe politica negli ultimi 25 anni, dal momento cioè della liquefazione della “repubblica dei partiti” dovuta al combinato disposto fra trattato di Maastricht, Tangentopoli, caduta del muro di Berlino. Proviamo a elencarli sommariamente: il tentativo d’imposizione del modello di “democrazia dissociativa” (bipolarismo, sistema elettorale maggioritario, partito personale), la costrizione dell’intero sistema dentro la gabbia del monetarismo dell’Unione Europea; il tentativo di risolvere il nodo della cessione di sovranità dello “Stato – Nazione” attraverso il regionalismo . Particolare attenzione andrebbe prestata agli esiti della modifica del titolo V della Costituzione, rivelatasi un vero e proprio colpo mortale al funzionamento democratico sia dal punto di vista della promozione di una voracissima e del tutto impreparata classe politica e dell’estensione senza limiti del deficit pubblico. In più, attraverso l’elezione diretta di Sindaci e Presidenti di Provincia e di Regione si è verificato il fenomeno di una esaltazione dal basso della personalizzazione della politica del tutto ingiustificata e mortificante il ruolo dei consessi elettivi periferici che hanno così perduto ruolo e qualità d’intervento, causando un pauroso abbassamento nell’insieme dei rapporti sociali delle istituzioni. Tutto questo meccanismo, pasticciato e dilettantesco che ha cercato di reggere il Paese dal 1994 al 2016, è stato bruscamente stoppato dall’esito referendario del 4 Dicembre, al riguardo del quale sono fin qui mancate risposte anche minime. In questo modo si è inoltre dato origine al fenomeno di un riallineamento del sistema politico esaltante evidenti “ritorni all’indietro” rispetto alla stessa traccia di rapporto tra sistema politico e società dettato dalla Costituzione Repubblicana (emergono infatti con grande forza quei soggetti definiti sommariamente, con linguaggio giornalistico, populisti e nazionalisti: non certo un frutto del caso). Per economia del discorso, in questa occasione, rimangono fuori dall’analisi i guasti gravissimi provocati dal sistema dei “media”, in particolare dal settore televisivo, e l’utilizzo in politica del tutto strumentale delle nuove tecnologie che non sono servite a produrre nuova pedagogia bensì soltanto a gigantesco veicolo di mistificazione del messaggio (in questo caso la responsabilità diretta è di coloro che hanno guidato le forze politiche e, in buona parte, hanno cercato soltanto ci coartare e mistificare i messaggi). Sembrano inoltre venuti a mancare, nell’espressione di cultura politica del paese, i termini concreti di un’analisi seria del sistema democratico. Proviamo a ripassare alcuni passaggi principiando dai tipi di democrazia, visti attraverso il lavoro classico di Arend Lijphart. Lijphart prendendo come criterio la cultura politica (omogenea o eterogenea), e il comportamento delle èlite (coesivo o competitivo), ha fatto risalire 4 tipi di democrazia: 1)Consociativa: cultura politica eterogenea, èlite portata al compromesso; 2)Spoliticizzata: cultura politica omogenea, èlite coesa; 3)centripeta: cultura politica omogenea, ma èlite in conflitto; 4)centrifuga: cultura politica eterogenea ed èlite in conflitto. Lijphart ha rivisto e riformulato una classificazione di tipi di democrazia stavolta prendendo come criterio le caratteristiche istituzionali dividendo democrazie maggioritarie (conflittuali o consensuali) e democrazie proporzionali (conflittuali e consensuali). Il risultato è il seguente: Proporzionale consensuale (Germania Austria Paesi Bassi ); proporzionale conflittuale(Italia dal dopo guerra al 93, ) ; maggioritario consensuale(Gran Bretagna fino al 79); maggioritario conflittuale (Italia 93) .Caratteristiche del modello maggioritario (o modello Westminster): Il governo detiene una solida maggioranza; sistema bipartitico; governo centralizzato e unitario; costituzione flessibile; bicameralismo asimmetrico. Caratteristiche del modello consensuale: governo di coalizione, equilibrio tra potere legislativo ed esecutivo, sistema multi partitico, assetto istituzionale decentrato, Costituzione scritta, bicameralismo simmetrico. (Le democrazie contemporanee, Il Mulino; Patterns of Democracy: Governament, Yale University Press) Esaminati questi punti, è il caso allora di esaminare nel dettaglio le caratteristiche necessarie al funzionamento di un sistema politico in generale e quelle peculiari al sistema politico italiano. Caratteristiche confermatesi evidentemente irriducibili, fra l’altro, a un presunto itinerario di “occidentalizzazione”. Un presunta “occidentalizzazione”rivelatasi, ripetiamo, del tutto fallimentare soprattutto dal punto di vista del sostegno di consenso dell’intero sistema. Sistema che alla fine si è trovato ridotto a una minoranza anche nell’espressione di voto e a milioni e milioni di elettrici ed elettori privi di rappresentanza politica. Ed è questo che, volenti o nolenti, deve essere considerato il vero punto di crisi sistemica: 1) E’ mancata nel corso di questi anni la rappresentanza politica delle contraddizioni sociali all’interno di un progetto e di un’organizzazione politica. L’idea di ridurre tutto al melting – pot “centrodestra-centrosinistra” omologati e privi d’identità che non fosse quella del partito personale (sulla base del quale “chiamare alle armi” il proprio elettorato ogni volta sul referendum riguardante una persona) è stata micidiale, assolutamente micidiale; 2) L’incapacità di realizzare un livello di governo, centrale e periferico, attraverso un articolato sistema di alleanza politico – sociali proprio per l’assenza dei relativi soggetti di riferimento (e di conseguenza un corretto funzionamento del rapporto maggioranza / opposizione) si è rivelato del tutto esiziale. I sistemi di alleanza (pensiamo all’Unione nel caso del centrosinistra) si sono rivelati semplicemente la base per spartizioni raffazzonate e senza alcuna volontà di espressione politica che non fosse quella della semplice suddivisione del potere. A questo punto, nel vuoto che si è creato dopo di questo vero e proprio “fallimento sistemico”, è indispensabile riprendere il discorso sulla “democrazia consensuale”in una forma centripeta, di chiara distinzione e confronto tra le forze politiche (anche a livello europeo i guasti sono stati evidenti) . Forze politiche che dovrebbero lavorare per un loro proprio recupero di identità comprendendo come l’Assemblea Costituente non avesse indicato a caso la centralità dei consessi elettivi all’interno della complicata costruzione della democrazia in Italia: centralità dei consessi elettivi che nel caso dei due rami del Parlamento deve significare centralità del loro ruolo legislativo ma soprattutto centralità della loro capacità di incarnare la “significanza politica” (un tema del tutto dimenticato). E’ evidente che, a questo punto, l’unica via percorribile in materia di sistema elettorale è quella del proporzionale: come del resto ha già ribadito due volte la Corte Costituzionale. Un sistema elettorale proporzionale unica via per ricostruire un grado sufficiente di credibilità e di appoggio consensuale a un sistema democratico fondato su di una seria articolazione delle soggettività politiche. Soggettività politiche richiamate, come si diceva all’inizio, a rappresentare le contraddizioni sociali e non le ambizioni particolari di singoli o di gruppi di cordate formatesi attraverso il localismo e il familismo, in una pericolosa commistione di ambizioni personali, tentazioni plebiscitarie, imposizioni verticistiche destinate inevitabilmente a cozzare contro una società ormai organizzata orizzontalmente.

venerdì 24 marzo 2017

Il caro estinto socialdemocratico - Patria Indipendente

Il caro estinto socialdemocratico - Patria Indipendente

Macron, Hamon : quelles bases électorales ? | Fondation Jean-Jaurès

Macron, Hamon : quelles bases électorales ? | Fondation Jean-Jaurès

Come usare male la flessibilità sugli investimenti | Claudio Virno

Come usare male la flessibilità sugli investimenti | Claudio Virno

Franco Astengo: Sessant'anni fa i Trattati di Roma

SESSANT’ANNI FA I TRATTATI DI ROMA : IL DECLINO di Franco Astengo Il trattato che istituisce la Comunità economica europea (TCEE) è il trattato internazionale che ha istituito, appunto, la CEE. è stato firmato il 25 marzo 1957 insieme al trattato che istituisce la Comunità europea dell'energia atomica (TCEEA); insieme, sono detti "Trattati di Roma". La ricorrenza sarà certamente ricordata come una delle tappe più importanti della storia recente e celebrata come un grande momento di crescita democratica nel solco di idee fondamentali per lo sviluppo dell’umanità. Invece sarà bene ricordare alcuni passaggi fondamentali: 1) L’Europa di partenza, quella a sei, non era altro che l’avamposto occidentale in funzione della “cortina di ferro” sulla quale,al centro dell’Europa, si situava il confine del bipolarismo tra le superpotenze; 2) Questo dato dell’avamposto occidentale (e di braccio politico – militare degli USA) ha caratterizzato dall’inizio come una sorta di imprimatur la vicenda dell’unione europea. Da ricordare come quel periodo coincise con l’avvio di un periodo di piena occupazione e di crescita dei salari medi, di affermazione della democrazia rappresentativa e di sviluppo dei sistemi di redistribuzione attraverso la progressività della leva fiscale e del welfare state. Condizioni che apparentemente apparivano come favorevoli e che, in realtà, sono state utilizzate ai fini di una gestione del ciclo capitalistico inauditamente feroce, come vedremo meglio nei punti successivi; 3) Da ricordare che il primo tentativo di unificare politicamente l’Europa era già stato attuato, nel 1954, con la proposta della CED (Comunità Europea di Difesa) verso la quale si realizzò una fortissima opposizione da parte delle sinistre e alla fine fallita per il rifiuto della Francia che vi intravedeva la prospettiva del riarmo della Germania; 4) Al momento della caduta del muro di Berlino e della riunificazione della Germania si verificò un inopinato allargamento ad Est nella convinzione che da quella parte si fosse aperto uno spazio infinito per nuovi mercati sulla base dell’idea del trionfo definitivo di un solo sistema economico – sociale e della affermazione della “fine della storia”. Un allargamento realizzato con cinismo, prosopopea, arroganza (come ammesso oggi da molti osservatori) e che oggi,in condizioni di grande difficoltà, presenta il conto sotto la forma del rinnovarsi della faglia storica Est / Ovest. 5) Contemporaneamente, quasi nello stesso tempo, fu firmato il trattato di Maastricht ispirato dalla filosofia monetarista . In seguito l’istituzione della moneta unica la cui gestione, in Italia, all’inizio diede il via ad una serie di irreparabili storture nella dinamica dei prezzi al consumo; 6) Nonostante alcuni tentativi (ad esempio con il trattato di Lisbona) di rafforzare il ruolo del Parlamento rispetto alla Commissione e al Consiglio questo tentativo può ben essere considerato come fallito e il Parlamento ricopre un ruolo sempre più marginale; 7) Dal mercato unico (1986) al patto di bilancio (2012) passando per il patto di stabilità e crescita (1997) i parlamenti nazionali sono stati soppiantati da un’autorità burocratica al riparo dalla volontà popolare, come previsto e reclamato dall’economista ultraliberista Friederich Hayek. Da quel punto è partita, imposta dall’alto, un’austerità draconiana verso un elettorato impotente, sotto la direzione congiunta della Commissione Europea e della Germania. 8) La vicenda dei migranti, causata in gran parte dall’esplosione di guerre nell’Asia Centrale, in medio Oriente e nel Nord Africa alle quali hanno partecipato i principali stati dell’Unione in veste neo – colonialista e nella scia del globalismo imperiale degli USA, ha fatto esplodere nuovamente la contraddizione Est – Ovest in coincidenza con la ripresa di un ruolo imperiale da parte della Russia , al ritorno della guerra nel cuore del continente,alla mancata assunzione di dimensione multipolare da parte dei cosiddetti BRICS e alla frenata della Cina; 9) Egualmente del tutto insufficiente e del tutto subita la fase di crisi aperta negli USA a cavallo del 2007 in ragione di un assolutamente insensato processo di finanziarizzazione dell’economia (crisi dei subprime) realizzato attraverso il meccanismo dello “scarico” delle contraddizioni verso i più deboli; 10) L’ordine politico che è scaturito dalla crisi del processo di finanziarizzazione dell’economia (in volgare: la crisi dei subprime e dei derivati) è stata caratterizzata dalla deregolamentazione dei flussi finanziari, della privatizzazione dei servizi pubblici e dall’accentuazione delle disuguaglianze sociali. Un ordine politico accettato indistintamente dai governi che si proclamavano di centro – destra e da quelli che si autodefinivano di centro – sinistra; 11) Manca assolutamente una risposta efficace ai fenomeni di recupero del nazionalismo e dell’isolazionismo che provengono addirittura dal cuore dell’Impero in una fase evidente di de-globalizzazione non analizzata per tempo. Nel frattempo abbiamo assistito a fenomeni di vera e propria crisi della rappresentanza politica (Belgio, Spagna, Italia) e di crescita di movimenti sommariamente definiti come populisti e comunque portatori di elementi di vera e propria crisi anche rispetto agli stessi meccanismi della democrazia liberale. 12) Nessuno ammette i gravissimi errori di analisi commessi e i disastri compiuti. Anzi le stesse classi dirigenti si ripresentano impudentemente riproducendo se stesse e costringendo elettrici e elettori a disertare oppure a rivolgersi a improvvisati demagoghi/e. Una classe dirigente che adesso, per non aprire reali processi democratici di ripensamento complessivo, si inventa le “due velocità” (proposta che quando era stata avanzata da alcuni economisti nel passato era stata rifiutata con sdegno soltanto perché non proveniente dal solito circolo dei “sapientoni” del pensiero unico). 13) Nel frattempo è completamente evaporata la tensione internazionalista dei partiti della sinistra, in coincidenza con la perdita di ruolo degli organismi sovranazionali e in particolare dell’ONU, allineatesi a modelli deteriori della personalizzazione e della caduta di ruolo complessivo dei soggetti politici. Caduta collocata, in particolare, sul terreno della rappresentanza che è andata complessivamente in fortissima crisi e in caduta d’identità. Tutto ciò ha determinato una crisi verticale del riformismo (termine inteso soltanto nel’accezione storica, quella “classica” tanto per intenderci della socialdemocrazia stretta nella tenaglia del : né di destra, né di sinistra); 14) Assolutamente insufficiente, infine, la riflessione politica attorno ai due nodi fondamentali del rapporto tra tecnica e politica e tra economia e politica intorno ai quale le forze politiche “europeiste” dimostrano tutti i loro limiti di analisi e di proposta; Questi sembrano i punti, incompleti e sommariamente esposti, in conseguenza dei quali pare ci sia ben poco da festeggiare e quasi tutto da cancellare, ripensando prima di tutto i termini di espressione della democrazia. Democrazia che, a livello europeo, ha sempre significato il dominio degli establishment dei banchieri al servizio del grande capitale, dell’abbattimento del welfare, dell’impoverimento generale. Soprattutto ha fallito la classe dirigente che oggi osa parlare di Europa a 2 velocità e di comando militare unificato senza aver costruito le condizioni per l’esistenza di un Parlamento in grado di discutere e decidere sui provvedimenti economici e – addirittura – sullo stato di guerra e sui trattati di pace. Una classe dirigente che non è stata capace minimamente di interpretare la fase del ciclo definito di “globalizzazione” nel corso del quale si sono alimentate vere e proprie “fratture” di tipo localistico in un quadro generale di paura alimentata dalla crescente difficoltà nelle condizioni materiali di vita per masse sterminate di donne e uomini in interi continenti. Fa impressione infine l’arroganza e l’insipienza con la quale su questi delicati argomenti viene sparso a piene mani ingiustificato ottimismo reiterando con ostinazione scelte profondamente sbagliate con la quali si sono fatti danni enormi alla condizione materiale di vita delle persone: di questo sono responsabili tanto i governanti quanto la maggioranza dei ben pasciuti facitori d’opinione dalle colonne dei giornali e dagli schermi televisivi. Seconda parte: il declino italiano Intanto si prosegue nel declino. Si sviluppa di seguito un solo punto assolutamente esemplificativo di una situazione che riguarda l’insieme della situazione produttiva nel nostro Paese. In questi giorno emergono (anzi si rinnovano)punto di crisi nella struttura portante dell’industria italiana: il caso riguarda l’ex- Lucchini di Piombino, l’antica Magona d’Italia, uno dei siti più storicamente importanti per la produzione dell’acciaio. Dopo promesse varie e dichiarazioni di “area di crisi complessa” adesso lo stabilimento è appetito dagli indiani di Jindal (che sono interessati anche all’Ilva) : dopo la delusione subita dall’approccio tentato e ritirato dall’imprenditore algerino Rebrab adesso sembrerebbe toccare agli indiani mentre i problemi dell’azienda appaiono del tutto irrisolti. La produzione d’acciaio in Italia è apparsa nel 2016 ancora assolutamente insufficiente dopo la caduta verticale fatta registrare nel 2008: siamo a circa 24.000 tonnellate annue (14.000 di laminati lunghi e 10.000 piani) ben lontani dalle oltre 30.000 toccate a cavallo degli anni 2004 – 2006 e l’Italia importa acciaio dall’Unione Europea. Nello stesso tempo del dimostrarsi della crisi di Piombino riesplode la situazione dell’Alcoa di Portovesme, fabbrica d’alluminio, per la quale dopo la delocalizzazione subita nel 2012 ad opera di una multinazionale americana con l’arresto conseguente della produzione, siamo ormai all’esaurimento degli ammortizzatori sociali con il rischio di perdere definitivamente un importantissimo patrimonio industriale oltre a mandare totalmente in crisi l’economia del Sulcis. I due casi, tra i tanti presenti drammaticamente nel nostro Paese, sono accomunati da uno stesso denominatore: sono il frutto, infatti, dell’assenza totale di un piano industriale attraverso il quale l’intervento pubblico avrebbe potuto farsi promotore, regolatore e gestore di un rilancio dell’attività manifatturiera attraverso un’adeguata riconversione sul piano tecnologico , fornendo così una risposta concreta ai bisogni occupazionali. E’ stato in questo campo, della progettazione industriale, dell’innovazione tecnologica, del rilancio dell’attività manifatturiera che i governi italiani hanno fallito il loro compito proprio nell’ambito della redistribuzione del lavoro sul piano europeo e complessivamente internazionale. Sono mancate, da destra e da sinistra, la politica estera e quella dello sviluppo industriale. I dati ci dicono che questo indirizzo può essere perseguito perché esiste, come ben indica il caso dell’acciaio, una domanda di produzione ben precisa. Basta con gli incentivi al consumo posti dalla parte della domanda individuale oppure agli sconti e detassazioni parziali e temporanee per assunzioni di mano d’opera che alla fine si rivelano fantasma come nel caso del job act e degli 80 euro. L’intervento pubblico in economia deve partire dal principio che le leggi del mercato non sono immutabili e supinamente accettabili e che è necessaria l’espressione di una volontà politica per ricreare le condizioni per favorire la vocazione industriale, l’arricchimento del know- how, un livello di produzione adeguato a consolidare e allargare la base occupazionale. E’ stato questo dell’abbandono dell’industria, a partire dagli anni’80 del XX secolo con le privatizzazioni e lo scioglimento dell’IRI , assieme all’inopinata firma dei trattati europei, il vero punto di “crack” del sistema politico i cui esponenti hanno preteso di esaltare la governabilità mentre – nello stesso tempo – stava sottraendo al sistema i veri punti di forza sui quali poggiava un’idea possibile di Stato e di Paese. In conclusione: Quattro abbagli storici hanno determinato questo stato di cose e torniamo così all’oggetto dei sessant’anni dalla firma dei trattati di Roma: 1) quello dell’idea che progressivamente lo “Stato – Nazione” dovesse abdicare alle proprie prerogative derivanti dal sistema westfaliano (ci sono state modifiche, ma non sufficienti a giustificare l’abbandono); 2) quello dell’affermazione di un’egemonia indistinta di un non meglio precisato post – industriale (si trattava invece più semplicemente di una gestione del ciclo imperniata sulla finanziarizzazione progressiva dell’economia e su di un cedimento indiscriminato alla tecnica che ha considerato la politica come propria “dependance”; 3) quello del considerare la caduta del muro di Berlino come la fine della storia pensando a una trasformazione del mondo in un unico gigantesco mercato con un solo gendarme a sorvegliarne l’andamento pronto a intervenire per “esportare la democrazia” 4) l’abbandono dell’idea del lavoro come mezzo di produzione di beni che sarebbe stato sostituito da una composizione del capitale capace di rendere “immateriale” lo sfruttamento con una conseguente pacificazione generale delle contraddizioni che sarebbero state annegate nel consumismo individualistico. Così non è stato e ne stiamo vedendo (e pagando) le conseguenze. Altro che celebrare la firma dei trattati.

Socialist International - Progressive Politics For A Fairer World

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mercoledì 22 marzo 2017

Caso Minzolini, se il voto dei senatori sta al di sopra delle leggi « gianfrancopasquino

Caso Minzolini, se il voto dei senatori sta al di sopra delle leggi « gianfrancopasquino

facciamosinistra!: Francia, perché Hamon mi piace tanto (e quindi perderà)

facciamosinistra!: Francia, perché Hamon mi piace tanto (e quindi perderà)

Giustizialismo e garantismo. Un confronto che non c’è mai stato | Avanti!

Giustizialismo e garantismo. Un confronto che non c’è mai stato | Avanti!

Franco Astengo: Tra governabilità e governance

TRA GOVERNABILITA’ E GOVERNANCE: IL TEMA DELLA RAPPRESENTANZA di Franco Astengo L’esasperazione del concetto di governabilità ben oltre la dizione classica relativa “all’esistenza delle condizioni sociali, economiche e politiche tali da rendere possibile il normale governo di un Paese” è sfociata nel travisamento del tipo di conduzione di governo definita nella globalizzazione come “governance”, cioè come “l’insieme dei principi delle regole e delle procedure che riguardano la gestione e il governo di una società, di un’istituzione, di un fenomeno collettivo”. La “governance” si colloca quindi ben oltre l’idea delle condizioni di governo di un Paese ma bensì quale elemento di equiparazione tra pubblico e privato ed intesa quasi come un “credo” ineludibile che si realizza attraverso un “sistema”. La “governance” si esprime in forma piramidale unificando i diversi livelli di governo all’interno di una logica univoca di espressione del potere. Potere che si realizza attraverso la reciproca dipendenza e omogeneizzazione delle persone, anziché dal confronto tra diverse opzioni politiche di tipo generale espresse in forma collettiva organizzata poi mediate fino a stabilire “equilibri mediani”. In questo quadro la grande dimenticata è la rappresentanza politica attraverso la quale si dovrebbe giungere alla determinazione di maggioranze governanti poste in relazione ad una centralità delle assemblee elettive legiferanti e deliberanti come prescrive con grande chiarezza la Costituzione Repubblicana. Da questa dimenticanza deriva il grande equivoco della fallacia che si concretizza nell’intendimento da parte di minoranze delle espressione di consenso che ricevono. Queste minoranze alla fine, intendono il loro mandato quasi come di tipo plebiscitario credendo di incarnare in se stesse l’intera legittimità giuridico – politica. Minoranze che si esprimono in forme totalitarie quasi come se si sentissero di esprimere l’intero divenire della storia. Da queste condizioni derivano scontri di potere mai posti in relazione ad opzioni alternative sui temi di fondo della complessità delle contraddizioni sociali. Ne deriva una pericolosa omologazione di fondo tra fronti apparentemente opposti e in realtà uniti in questo travisamento dei concetti – base della pur difettante democrazia liberale. Le questioni, in questa fase assolutamente disattese dal confronto politico, sono quindi due: quella della complessità nelle espressioni della rappresentanza che si pone comunque anche se, a questo proposito, appare quasi completato l’esaurimento della politics nella policy e quella dell’effettiva dialettica all’interno del dibattito pubblico.

VICENDA M5, QUOTE ASTALDI E COMUNE DI MILANO | Bruno Rota - ArcipelagoMilano

VICENDA M5, QUOTE ASTALDI E COMUNE DI MILANO | Bruno Rota - ArcipelagoMilano

martedì 21 marzo 2017

Everyone loves Bernie Sanders. Except the Democratic party - Sbilanciamoci.info

Everyone loves Bernie Sanders. Except the Democratic party - Sbilanciamoci.info

Come combattere i paradisi fiscali - micromega-online - micromega

Come combattere i paradisi fiscali - micromega-online - micromega

Paolo Bagnoli: Hanno creato un deserto

hanno creato un deserto paolo bagnoli Da Critica liberale «…il serbatoio della sinistra non ha più benzina anche perché quelli che un tempo sollecitavano un pensiero, stimolavano il partito, non ci sono più. Gli intellettuali sembrano spariti. La classe operaia sta cambiando volto, la borghesia sta scomparendo. Come sparite sono le riviste, spariti i luoghi associativi. Esistono voci che non hanno però la forza di quelle di un tempo». Sono parole di Guglielmo Epifani, socialista, già segretario generale della Cgil e del Pd, consegnate a un’intervista su “il Fatto Quotidiano” del 6 marzo 2017. E sono parole sacrosante perché le cose stanno veramente così e poi, esse, venendo da un politico già responsabile di grandi soggetti, suonano ancora più pesanti. Nessuno peraltro, a quanto ci risulta, le ha tuttavia prese in considerazione ed espresso un giudizio, sviluppato una riflessione a conferma che siamo oramai arrivati a un punto in cui non solo la riflessione, ma nemmeno il dibattito – un dibattito vero, naturalmente – sembra interessare. La politica, ogni giorno di più, perde se stessa. Oggi Epifani non è più nel Pd; forse non sarebbe stato male del motivo per cui ci si è innamorati delle primarie, di Matteo Renzi, del partito della nazione e di proclami propagandistici fatti esclusivamente per mediatizzare il messaggio, ma vuoti di tutto il resto; avesse cercato, cioè, di dare una spiegazione del perché il partito rigeneratore sia rimasto soffocato da se stesso; dalla spirale leaderistica del suo segretario che era anche presidente del consiglio. È chiaro che la sinistra di cui parla Epifani non è quella che il Pd spaccia di essere, ma una realtà storica, sociale, culturale e politica che non esiste più, almeno in Italia. Alla sua decoazione ha contribuito in maniera determinante proprio la nascita del Pd. La sinistra, quella storica per intendersi, pur nelle sue divisioni, differenziazioni e diversità, si configurava come una vera e propria comunità politica, quale luogo storico del mondo del lavoro che perseguiva una nuova civiltà nei rapporti sociali e il riconoscimento della dignità di una vita che valesse la pena di essere vissuta. Ha ragione Epifani. Sembra che oramai non esista più nemmeno un pensiero compiuto della sinistra e nessuno, di coloro che dovrebbero occuparsene, risulta interessato a farlo probabilmente nel convincimento che tanto non ne vale la pena. Infatti, se non esiste una forza politica vera di sinistra a chi finiscono per parlare gli intellettuali 062 20 marzo 2017 10 progressisti o coloro che ritengono semplicemente di avere qualche cosa da dire proprio alla sinistra, se non a se stessi? Che la classe operaia stia cambiando volto non è certo una novità; è dall’inizio degli anni Ottanta che il mondo del lavoro ha cominciato a cambiare. Ma perché il sindacato non lo ha compreso? Parimenti non è una novità che la borghesia, quale ceto civile e campo imprenditoriale, sia oramai agli sgoccioli e forse non è un caso a ciò scollegato che quelli che erano i padroni di una volta oggi siano dei gestori per lo più senza volto di grandi capitali finanziari e che la funzione civile, propria dei ceti borghesi, sia scomparsa rimpiazzata dai faccendieri, facilitatori, occupatori dei poteri di Stato, il tutto al fuori di ogni morale di senso comune. Dobbiamo poi lamentarci di essere uno dei Paesi più corrotti del mondo? Le riviste, a dire il vero non sono del tutto sparite; chi è interessato sa, anche se con qualche difficoltà, dove trovarle, ma certo il loro ambito complessivo si è ristretto e l’attenzione che ricevono è, sul piano dei numeri, molto limitata; quando mai uno dei grandi o piccoli quotidiani italiani anticipa i contenuti di una rivista intesa come la intende Epifani? Mai. Si anticipa, invece, il magazine di riferimento preannunciando le notizie scandalistiche di questo o quel servizio. Anche i luoghi associativi sono scomparsi: se ne sono andati coi partiti nei quali stava la gente e che la organizzavano civilmente e politicamente. La cosa non riguarda solo le vecchie sezioni che avevano una funzione di riferimento e di educazione alla politica molto, ma molto, più alta di quanto si pensi. Oggi il termine “sezione” non è più di moda e le strutture periferiche o rionali si chiamano “circoli”; quando c’erano il Pds e i Ds addirittura “unità di base”. Verrebbe da dire che, se si ha paura delle parole, figuriamoci delle idee e, in effetti, il dibattito politico si è devitalizzato a tutti i livelli. La gente non è più nella politica, quasi sempre è contro la politica, ma , lo stesso concetto di ”gente”, proprio del soggetto partito, è stato sostituito da un fantasma concreto, senza volto e vivo periodicamente, diviso in crociate di gruppi l’un contro l’altro armati: il cosiddetto popolo delle primarie. Non è, caro Epifani, che oggi non ci siano voci sia reali che potenziali che non hanno o non avrebbero tono; ma che autorevolezza possono avere se l’autorevolezza ideale del sistema non esiste più? Se non esiste più il dialogo, se nessuno sta più ad ascoltare nessuno, ma tutti, o quasi, si prodigano a insolentire, proclamare, denunciare, accusare dando corpo a discorsi le cui parole più che uscire dai cervelli sembrano solo prodotte dai polmoni. Hanno creato un deserto e l’hanno chiamato “seconda Repubblica”. Continuiamo a sperare e a credere nella democrazia repubblicana, ma certo ci auguriamo che venga una sua nuova stagione, positiva e costruttiva, anche se non se ne vedono, al momento, nemmeno pallidi segni.

sabato 18 marzo 2017

Anche l'Olanda rottama la Terza via - SOLDI E POTERE - Blog - Repubblica.it

Anche l'Olanda rottama la Terza via - SOLDI E POTERE - Blog - Repubblica.it

La nuova geografia politica olandese e la svolta conservatrice

La nuova geografia politica olandese e la svolta conservatrice

Felice Besostri: La sinistra a scuola di olandese

LA SINISTRA A SCUOLA DI OLANDESE di Felice Besostri I commenti erano scontati a Wilders e al suo PPV non è riuscito il sorpasso: l’Europa è salva. Il risultato va benissimo per la nuova coalizione conservatrice e di destra che domina ora l’Europa e che si è sostituita all’asse PPE-PSE . Questa maggioranza si è collaudata con l’elezione alla presidenza del Parlamento Europeo del forzista PPE Tajani contro il pieddino PSE Pittella e con la riconferma del polacco PPE Tusk alla presidenza del Consiglio Europeo. Se la dialettica politica alla tradizionale contrapposizione sinistra destra, con al massimo in alcuni paesi con il centro come variabile, si sostituisce quella tra responsabili e populisti o tra basso e alto, la destra conservatrice e abbastanza moderata si è assicurata una posizione di rendita. Il popolo di sinistra è attaccato alla democrazia e si oppone all’autorita-totalitarismo. Lo ha dimostrato quando alle presidenziali francesi del 2002 Chirac fu a eletto al secondo turno con 25.537.956 voti e lo 82,21 %, partendo dal 19,88 % del I° turno con Jean M. Le Pen al 16,86 %. Wilders ha perso ma la sua vittoria per diventare primo partito non era realistica. Nel 2010 il suo partito aveva raggiunto il 15,45% e 24 seggi, 4 in più di quelli odierni. Il vincitore Rutte ha perso tra il 2012 e le ultime elezioni 8 seggi e il 5,28%,la seconda maggior perdita di queste elezioni. Se Atene piange Sparta non ride se pensiamo alla sinistra nel suo complesso, soprattutto a causa delle perdite del PvdA ( Partito del Lavoro) con meno 29 seggi rispetto al 2012 e meno 21 rispetto al 2010 e di in percentuale passa dal 24, 34 % al 5,2%. Il PvdA era il secondo partito olandese: è diventato il 7° dei 13 partiti presenti in Parlamento. Due soli partiti al Governo VVD( liberale) e PvdA( socialdemocratico) avevano ala bellezza del 51,59% dei voti, ora (21,30 vvd+ 5,28 PvdA) 26, 58% poco più della metà. Anche in Olanda le sanguinose perdite dei partiti del PSE non vanno che per una frazione alla loro sinistra. Il PS partito socialista di sinistra ha perso poco , ma ha perso lo -0,45, GL(Sinistra verde-Groenlinks) ha guadagnato +6,57, ma il saldo negativo è pesante (19,56-6,57)-12,99%. Alla sinistra il leader dei GL, Jesse Klaver, carismatico e idealista, aggiunge anche il PvdD(Partito animalista) che ha il 3,1% e 5 seggi, ma in termini percentuali la perdita della sinistra si riduce di poco al 11,98%. Il proporzionale puro olandese aveva 11 partiti nella Seconda Camera, ora ne son entrati 13 tra cui il Partito Denk, formato da olandesi di origine turca, già deputati del PvdA fino al 2014 fortemente anti-razzisti e il FvD ( Forum della Democrazia) nazionalista euroscettico. Il sistema proporzionale consente di presentarsi con la propria identità, ma richiede anche la capacità di fare alleanze per governare. Una valutazione più complessa del voti utile tipico del maggioritari dei proporzionali bastardi con premio di maggioranza. Serve credibilità , che il PvdA aveva perduto per l’adesione acritica alle politiche di austerità. Jeroen Dijsselbloem è il laburista olandese presidente dell’Eurogruppo e anche il membro olandese della Commissione Europea, anzi il primo vicepresidente, Frans Timmermans, è un laburista del PvdA. Nella situazione attuale la sinistra europea profondamente divisa non è credibile come alternativa di governo. Lo abbiamo visto in Spagna nel 2016 dove la competizione tra PSOE e Podemos è stata vinta da Rajoy. In quest’anno 2017 vedremo cosa succederà in Francia. Senza i guai giudiziari di Fillon il ballottaggio tra il gollista e la Le Pen era dato per certo. La candidatura del socialista di sinistra Hamon, non ha cambiato la strategia di presentarsi con due candidati, auto elidentesi, con Benoît Hamon e Jean-Luc Mélenchon. In Germania Federale la vittoria teorica della sinistra dipende dal non superamento della soglia del 5% del Partito Liberale FDP. Parlo di vittoria teorica perché già nel 2005 la sinistra di allora SPD, PDS e Verdi con il 49% e337 seggi avevano una maggioranza nel Bundestag, che produsse, invece, la prima Große Koalition SPD-Union. La Spd pagò la scelta nel 2009 ridotta al 23% e passando all’oppo9sizione. Nel 2013 grazie alla comparsa della AfD ( Alleanza per la Germania) all’estrema destra fece uscire la FDP dal Bundestag e sulla carta una nuova maggioranza rosso-rosso-verde era possibile con 320 seggi, ma la Große Koalition fu confermata. La crisi in Europa del condominio PPE PSE ha creato una concorrenza pre-elettorale, che favorisce la SPD senza indebolire la Linke e i Verdi. Nel frattempo i verdi non sono acquisiti a priori ad un’alternativa di sinistra e nella SPD non è stata superata la preclusione federale ad una alleanza rosso-rosso-verde, che invece ha via libera nei Land. Una scelta coerente con una maggioranza numerica di sinistra nel paese leader d’Europa sarebbe un elemento di movimento, che non resterebbe confinato a quel paese. In Italia non si ancora espressa una risposta politica adeguata ai risultati del referendum costituzionale ed alla sentenza del 24 gennaio 2017 di annullamento parziale, ma in parte essenziale, dell’Italikum, getta ombre sia sulla nuova legge elettorale, non c’è una soluzione condivisa a sinistra, che su una strategia politica che se la proposta Pisapia trovasse forza ha come corollario una riedizione, in qualche forma di premio di maggioranza ad una coalizione, cioè ricreare la gabbia nella quale la sinistra si è subordinata al PD. Anche qui l’alternativa che sarà posta agli elettori sarà quella dei responsabili europeisti contro i populisti euroscettici, mettendo nello stesso polpettone M5S e Lega nord.

mercoledì 15 marzo 2017

La velocità dell’Europa | Global Project

La velocità dell’Europa | Global Project

Grecia: cronaca di un fallimento annunciato | Economia e Politica

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I paesi più egualitari d’Europa lo sono sempre meno? - Menabò di Etica ed Economia

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Siamo tutti Keynesiani - Menabò di Etica ed Economia

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Jobs Act tra evidenze empiriche e false verità - Menabò di Etica ed Economia

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BRIGITTE BARDOT E IL CONGRESSO MILANESE DEL PD | Walter Marossi - ArcipelagoMilano

BRIGITTE BARDOT E IL CONGRESSO MILANESE DEL PD | Walter Marossi - ArcipelagoMilano

MILANO M5, NAVIGLI: AMMINISTRARE EFFETTO“RANDOM”? | Luca Beltrami Gadola - ArcipelagoMilano

MILANO M5, NAVIGLI: AMMINISTRARE EFFETTO“RANDOM”? | Luca Beltrami Gadola - ArcipelagoMilano

martedì 14 marzo 2017

Klaver, chi è il giovane olandese che sfida i populismi – Left

Klaver, chi è il giovane olandese che sfida i populismi – Left

La crisi della SPD e le ombre dell'economia tedesca - Pandora Pandora

La crisi della SPD e le ombre dell'economia tedesca - Pandora Pandora

La Flat Tax è vergognosa | Alfiero Grandi

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La gauche en ses défaites - La Vie des idées

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Poca redistribuzione nel bilancio comunitario * | P. Pasimeni e S. Riso

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ATM: la ‘disfida per la Lilla’ | movimentimetropolitani

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Franco D'alfonso: La legge di Murphy

“Se qualcosa può andare male, lo farà” . La “legge di Murphy” 12/03/2017 DI FRANCO D'ALFONSO IN ARCHIVIATO IN:FONDO “Se qualcosa può andare male, lo farà” . La “legge di Murphy” non è opera di un personaggio dei Simpsons, ma di un serissimo scienziato impegnato nelle più audaci sperimentazioni negli anni Cinquanta, quando la fiducia nel progresso e nella scienza era totale : la sua affermazione, scientificamente sostenuta, rappresenta il trionfo dell’ottimismo della ragione e dell’azione sul determinismo fatalista .Il primo passo per realizzare una innovazione in tutti i settori, dalla scienza e la tecnica alla politica e società, è quello di individuare con chiarezza e realismo gli ostacoli che sempre si parano innanzi agli innovatori e di non aspettarsi alcun evento di tipo miracolistico che li rimuova.Negli ultimi tempi i politici della sinistra o del “campo progressista” mondiale non sembrano avere per nulla presente la questione. La catena di eventi avversi dell’ultimo anno , da Brexit a Trump passando per i più “locali” Grillo, Le Pen, Orban e compagnia, sono stati affrontati senza nessun adeguamento di strategie e parole d’ordine, ma sperando che per motivi imprecisati i fattori che ne avevano determinato la nascita ed il successo iniziale fossero un brutto sogno destinato a sparire al risveglio . Il risultato è che Hillary si dedica ai nipotini, Hollande al massimo può candidarsi al ruolo di ispettore Closeau nel prossimo film della serie senza avere ancora capito come mai, mentre Trump declina con puntiglio in pratica tutte le “impossibili” fantasie della campagna elettorale.In Italia siamo nella fase immediatamente precedente al verificarsi dell’irreparabile . Si , è vero , la strategia di Renzi è franata sul referendum ( forse ricordare la legge di Murphy gli sarebbe servito…), i Cinque Stelle inanellano disastri da incapacità politica non solo a Roma senza pagare apparentemente pegno elettorale, economia ed Europa non migliorano la situazione, ma la sensazione è che la partita sia compromessa ma non persa . Ma per vincere serve innovazione politica. Una innovazione coraggiosa, che non si affidi alla fortuna o alle rivincite giocate con le stesse modalità delle sconfitte appena subite o che non spacci il vecchio per nuovo e la radice per la fronda, l’evoluzione nella continuità con la conservazione dell’immobilismo.Negli ultimi giorni in molti – per la verità in troppi come tradizione della sinistra italiana – hanno detto, con modalità e stili diversi, di voler dare vita a nuove ipotesi politiche : ci credono perfino i fondatori seriali di nuovi partiti della Sinistra vera che più vera non si può , giunti con Sinistra Italiana (sempre che nome e partito reggano più di due settimane) alla sesta o settima sigla inchiodata al 2,9 per cento con potenziale al 3,1; così come lo credono gli “scissionisti a tempo” della vecchia scuola Fgci in attesa di riprendersi la “ditta”, che non si rassegnano alla pensione e sognano il nuovo Ulivo con vecchi contadini.. Accanto ai protagonisti delle sconfitte inevitabili della sinistra della cosiddetta “Seconda Repubblica “ ,sono tornati a voler recitare un ruolo da protagonisti gli unici due esponenti della sinistra ad aver tentato innovazione politica e vinto qualche elezione significativa negli ultimi cinque anni, vale a dire Matteo Renzi e Giuliano Pisapia . Lo hanno fatto con toni, stile e concezione del tempo molto differenti ( l’intervallo intercorso tra l’uscita ed il rientro in prima fila per Giuliano è durato un anno , per Matteo un giorno scarso), con parole e proposte ancora più differenti, ma cercando di rispondere alla stessa domanda : quale proposta della sinistra è oggi in grado di dare risposte ai cittadini che si rivolgono a chi promette un impossibile ritorno al passato spacciandolo come speranza del futuro ? La differenza fra il loro tentativo e quello dei “reduci”, secondo la definizione sarcastica di Renzi, per ora è tutta qui . Sia Renzi che Pisapia in questa fase si richiamano al tempo delle elezioni europee e del trionfo delle facce nuove e giovani dei “rottamatori” l’uno, a quello degli arcobaleni arancioni nel cielo di Milano l’altro : esperienze che ancora nell’immaginario collettivo evocano la bellezza della novità coniugata con il fascino del ricordo e delle radici e, soprattutto, degli ultimi veri e propri trionfi elettorali e di popolo per la sinistra, in grado di cancellare la storica invettiva “con questi dirigenti non vinceremo mai” che aleggiava sulla testa di due o tre generazioni di dirigenti politici. La sensazione o meglio la speranza è che questi due tentativi siano però ancora ai titoli iniziali e che non abbiano espresso, diciamo così, che una piccola parte della loro potenzialità. Renzi è tornato al Lingotto dalla Leopolda, con qualche malcelata fatica ha usato un “noi” versione grigia invece del classico roboante “io” ed ha fatto solo “selfie” di gruppo, ma nulla ha detto in merito a qualche idea di cambiamento di politica economica, una delle cause principali della “debacle” del 4 dicembre. Ha fatto poi capire di volere una nuova politica europeista, che certamente non può ridursi alla proposta di elezione diretta del presidente della Commissione. Il rischio che si tratti di cambiamenti negli annunci e non annuncio di cambiamento potrebbe essere reale, anche se in realtà un concetto nuovo lo ha espresso ed è quello di egemonia, mutuato dall’esperienza gramsciana del PCI. Non a caso la prima sessione è stata chiusa da Biagio De Giovanni, che metà platea non sapeva chi fosse, che ha disquisito sul nuovo concetto di egemonia per battere populismo reazionario e liberismo. Siamo quindi sempre alla ricerca di una mitica terza via, che se in Gramsci vedeva l’egemonia di una classe, in Renzi non si capisce su quali valori dovrebbe poggiare. L’intervento migliore al Lingotto lo ha fatto la Bonino, una che con Renzi c’entra poco o nulla, dicendo che l’unica politica possibile è il pragmatismo della Merkel, che da un lato con le due velocità cerca di salvare l’Europa ma dall’altro ha fatto una legge seria sui migranti e ne accoglie un milione e mezzo all’anno. Pisapia ha squadernato i risultati della buona amministrazione di Milano e del modello di alleanza rimasto ben saldo per l’intero ciclo amministrativo, come non succedeva dal secolo scorso, in grado di sopravvivere e continuare oltre il suo sorprendente e non certo perfettamente gestito passo indietro finale . Ha confermato il suo approccio pragmatico indicando come obiettivo possibile ed immediato il consolidamento della legislazione sui diritti civili, dal fine vita all’immigrazione , nonché una buona correzione della legge sui voucher per bloccare gli abusi “orribili” e non certo per sopprimerli, considerando il referendum della Cgil una spinta alla trattativa e non un’arma contro il Governo. Non ha detto praticamente nulla, nemmeno suggestioni, sul programma di cui l’alleanza della “buona politica” dovrà farsi carico una volta nata, rimandando – altro “evergreen” – all’elaborazione delle nuove idee alle “Officine” che stanno per riaprire. La sensazione che gli elementi dell’indispensabile “sogno” da offrire ad una sinistra che si candidi nuovamente a guidare il Paese per quello che dice e fa e non per la paura di quello che dicono e fanno gli avversari politici non siano ancora emersi e che sia dal Lingotto che dal Brancaccio si sia cercato di segnare un nuovo inizio più che indicare una nuova via. Manca ancora quel “quid” che faccia passare entrambi dalla condizione di essere necessari, soprattutto nel nuovo contesto proporzionalista, ma non sufficienti a riportare al successo uno schieramento nitido tenuto insieme da progetti chiari e valori comuni. Non si può giudicare quello che ancora non c’è, ma non si può non notare come al momento sia però assente dalla riflessione dei soli leader credibili oggi disponibili, una valutazione sul valore del territorio come terreno di elaborazione politica ed innovazione sociale, del valore dell’autonomia delle singole comunità come ricchezza creativa contrapposta al provincialismo conservatore. Se Renzi pare culturalmente molto distante da questo modello, Pisapia ha acquisito il valore della partecipazione dal basso e dell’istituzione locale come luogo del dibattito politico e non come sezione staccata di Stato o di partito verticista, ma non pare aver superato la diffidenza tipica della sinistra di derivazione giacobina verso il federalismo politico. Una nuova proposta non potrà nascere senza fare i conti con questa esigenza . E questi conti si fanno a Milano ed in Lombardia.

lunedì 13 marzo 2017

Perché perseverare in politiche economiche irrazionali? - La Città Futura

Perché perseverare in politiche economiche irrazionali? - La Città Futura

“Perder la esperanza no es una opción”

“Perder la esperanza no es una opción”

Legge elettorale, tra Kelsen e Ingrao

Legge elettorale, tra Kelsen e Ingrao

Felice Besostri: Patti chiari e amicizia lunga a sinistra

PATTI CHIARI E AMICIZIA LUNGA Non ho in programma di organizzare una nuova impugnazione collettiva della terza legge elettorale incostituzionale. Non perché sono stanco di farlo, ma perché significa che si sono disattese per la terza volta le sentenze della Corte Costituzionale e, fatto ancora più grave, significa che sono state disattese le indicazioni del popolo italiano il 4 dicembre 2016. I casi sono due o la nuova legge è sostenuta dal PD con una maggioranza di centro-destra ovvero da un nuovo centro-sinistra. Nel primo caso significa che il PD è inaffidabile come partner, nel secondo che il nuovo centro-sinistra è inaffidabile come forza di rinnovamento politico. L’esito del referendum costituzionale e la sentenza della Corte Costituzionale sull’Italikum hanno segnato la fine di un’epoca o, per non esagerare, di un triennio di governo a guida di Matteo Renzi e di scelte politiche in contrasto con ogni idea di centro-sinistra, come politica popolare e di progresso. Hic Rhodus, hic salta: non c’è credibilità senza segni tangibili di un cambiamento di rotta, specialmente da parte di chi abbia contribuito a far approvare l’Italikum con forzature regolamentari e in contrasto con l’art. 72 c. 4 Cost. e abbia sostenuto le ragioni del SI’ alla deforma costituzionale. La cartina di tornasole è la nuova legge elettorale, che non deve essere, almeno per questa volta, una riedizione di leggi, che per la governabilità sacrifichino la rappresentanza in violazione dei principi costituzionali sul diritto di voto, eguale, libero e personale(art. 48 Cost.) e diretto per Camera(art. 56 Cost.) e Senato (art58 Cost.). Ogni premio basato su una soglia percentuale nazionale, che venga spalmato sui collegi viola il principio del voto personale e diretto. Proprio l’Avvocatura dello Stato per difendere davanti alla Corte Costituzionale il premio di maggioranza fissato in 340 seggi , cioè il 55% dei deputati eletti nel territorio nazionale, ha sostenuto che fosse necessario non essendoci alcun obbligo di un eletto di non cambiare casacca. Tuttavia, se così è, non si giustifica il sacrificio della rappresentanza a fronte di una governabilità del tutto aleatoria. Se, invece, il premio di maggioranza fosse vincolante per gli eletti della lista beneficiaria, allora la violazione del divieto di mandato imperativo ex art. 67 Cost. sarebbe patente. Dopo la sentenza n.1/2014 la sola scelta costituzionalmente corretta, visto il riferimento in sentenza agli artt. 61 e 77 c. 2 Cost., sarebbe stata di concedere alle Camere uno spatium deliberandi di 60/70 giorni per adottare una legge elettorale conforme ai principi della Consulta, trascorso inutilmente il quale il Presidente avrebbe dovuto scioglier le Camere per consentirne il rinnovo con una legge di impianto proporzionale a parte le assurde soglie di accesso per il Senato, il doppio di quelle Camera con la metà dei suoi membri. Pensate che con il 4% Camera si poteva eleggere con sicurezza un solo senatore soltanto nelle Regioni, con almeno 25 Senatori, cioè Sicilia, Campania, Lazio e Lombardia e forse coi resti in Veneto e Piemonte. Senza l’abolizione del premio di maggioranza al primo turno diventerebbe forte la tentazione di reintrodurre le coalizioni come beneficiarie del premio di maggioranza. Un nuovo centro-sinistra non sarebbe altro che lo specchietto per le allodole per legittimare un premio di maggioranza al primo turno e confermare i capilista bloccati, logica conseguenza di liste composite di diverse anime (Campo Progressista, ex PD, ex SEL e personalità indipendenti) per garantirsi una quota di eletti: un film già visto con la Sinistra Arcobaleno, cioè un ennesimo tramonto della sinistra altro che sole dell’avvenire di un’alba radiosa. Il referendum è stato vinto dagli elettori ignoti influenzati dalle ragioni del NO, ma non solo, in ogni caso elettori ed elettrici, che si sono recati autonomamente alle urne, senza che nessun comitato o partito ve li conducesse per mano. Se non diamo una risposta politica adeguata alla loro protesta, ritorneranno delusi all’astensione. Malgrado il successo del M5S tra il 1996 e il 2013 sonio scomparsi 3 milioni di voti validi. Non deludiamoli, altrimenti non possiamo prevedere quale direzione prenderanno, quando riemergeranno dalla clandestinità elettorale. Felice Besostri

sabato 11 marzo 2017

Moneta Internazionale - nuovAtlantide.org

Moneta Internazionale - nuovAtlantide.org

A Win for South Korea's Revolution | Dissent Magazine

A Win for South Korea's Revolution | Dissent Magazine

David Ellwood: Debacle laburista

Da Affari internazionali Gran Bretagna Débâcle laburista: la lezione dei seggi dimenticati David Ellwood 08/03/2017 più piccolo più grande È stato il celebre regista Ken Loach ad offrire i commenti più incisivi sui risultati delle elezioni suppletive tenutesi il 23 febbraio in due circoscrizioni fin qui considerate del tutto marginali nello scenario politico inglese: Copeland in Cumbria, nell’estremo nord-ovest del Paese, e Stoke, nei vecchi Midlands industriali. Entrambi i collegi erano considerati da sempre roccaforti del partito laburista: negli ‘80 anni di vita del seggio, Copeland ha sempre mandato un laburista a Westminster; mentre la sinistra ha sempre avuto a Stoke decine di migliaia di voti di vantaggio. Ebbene, se stavolta Copeland ha optato per una signora borghese appartenente al partito conservatore di Theresa May, a Stoke il candidato laburista ha prevalso, ma con un margine di appena 2.600 voti, sul rivale dell’Ukip di Nigel Farage (e con un’affluenza ridotta al 36%). Non solo colpa di Corbyn Sul Guardian, in un raro intervento pubblicato su un quotidiano, Loach (regista che di recente ha diretto I, Daniel Blake, eloquente denuncia della spietatezza del sistema di welfare oggi nel confronto dei suoi tipici ‘clienti’) ha insistito che questi risultati non dipendono solo dalle presunte insufficienze del leader laburista Jeremy Corbyn. Avendo visitato di persona i luoghi delle due “battaglie” (unica personalità di spicco del mondo dei media a farlo), Loach ha concluso che i nuovi scenari politici sono l’eredità perfetta di quella subalternità congenita del New Labour di Tony Blair, Gordon Brown e compagnia verso la filosofia, le priorità e i metodi del thatcherismo. Quindi privatizzazioni, liberalizzazioni, commercializzazioni; le presunte preferenze per il ‘mercato’ e il business a dominare tutto, e il disprezzo per tutto quello che potesse chiamarsi pubblico (sanità, trasporti, case, scuole…). Scrive Loach: ‘Sì,Stoke è stata solidamente laburista da sempre, con i suoi deputati e consiglieri comunali; ma, dopo anni così, il risultato è che in quella città ci sono 60.000 persone che vivono sotto la soglia della povertà, 3.000 famiglie che dipendono dalle organizzazioni caritatevoli per mangiare, 25 milioni di sterline di tasse locali non pagate. Lì, l’Ukip è il secondo partito. E lo stesso può dirsi per Copeland: le vecchie industrie (acciaio, miniere, chimiche) sono scomparse, e non c’è neanche l’ombra di un progetto per sostituirle’. Quindi, non è solo a causa del personaggio Corbyn se i Labour finiscono male in queste località, dice Loach. Aggiunge pure, giustamente, che la Scozia è stata persa dalla sinistra ben prima dell’avvento di Corbyn. Ma le ricette vecchio stile non pagano In realtà, le due circoscrizioni sono totalmente diverse l’una dall’altra, ed è impossibile immaginare come potrebbero riprendersi con le ricette proposte da Corbyn/Loach e ispirate dal laburismo vecchio stile: più Stato dappertutto, più tasse sui ricchi, nazionalizzazioni, centralizzazione. Copeland è una zona prevalentemente rurale, al bordo occidentale del parco nazionale del Lake District, tutta laghi, boschi e pecore, ma con la singolare peculiarità di ospitare sulla sua costa, da più da 60 anni, una vasta installazione nucleare, ormai dedita al riciclaggio delle scorie nucleari. Questo impianto è il maggiore datore di lavoro di tutta l’area, e perciò la gente del luogo lo difende a tutti i costi. Corbyn, naturalmente, è sempre stato contro il nucleare. Stoke, al contrario, è il prodotto della vecchia industrializzazione classica (quindi carbone, acciaio, pneumatici, ma soprattutto ceramica): è stato il perno di tutta la grande industria nazionale in questi settori, conosciuto in tutto l’impero. Si presenta quindi come una città uguale a tante altre nel Regno Unito: Glasgow, Newcastle, Liverpool, Birmingham; realtà governate da sempre dal Labour, e con i problemi di degrado sociale ed economico identici a quelli di Stoke. Loach ha ragione da vendere quando incolpa il New Labour per l’aggravarsi delle condizioni politiche in queste zone, e quando si preoccupa per il futuro della loro rappresentanza politica. Negli Stati Uniti, sono città come Stoke ad aver favorito l’affermazione di Donald Trump; e proprio in Gran Bretagna ad aver spinto per la Brexit (a Stoke quasi il 70% ha scelto il Leave). Qui, però, l’Ukip non ha la minima forza né capacità organizzativa dei repubblicani d’America, e di ciò i laburisti dovrebbero essere grati. Nonostante tutto il rumore creato in questi anni (e il suo “trionfo” nel referendum sull’uscita dall’Ue), l’unico rappresentante dell’Ukip in Parlamento è un transfugo dei Tories, attualmente in rotta con la leadership del partito. Gli errori della sinistra A guastare tutto lo schieramento laburista (senza distinzione fra gli amici e i nemici di Corbyn) è la forma storica, mai contrastata, del loro populismo: un pragmatismo dogmatico che li convince che l’unica cosa che conta è venire incontro a quello che preoccuperebbe ogni giorno la ‘loro’ gente (lavoro, scuola, ospedali, case, pensioni, trasporti). Non si vede quindi l’ombra della capacità intellettuale di fare un passo indietro, e di riflettere sulle cause di fondo delle situazioni che hanno determinato l’evoluzione storica e recente di questi settori. Loach e compagni danno tutta la colpa all’abbraccio del New Labour del dogma del libero mercato, ma Glasgow, Stoke, Newcastle e le altre località hanno cominciato il loro declino ben prima del thatcherismo, anche se l’Iron Lady ha fatto di tutto per accelerare la deindustrializzazione del paese. Proprio come non ha voluto elaborare un proprio discorso sulla transizione verso la società post-industriale, sull’integrazione europea, sulla globalizzazione, sul radicalismo economico e sociale, il partito laburista non è stato neppure capace di fare autocritica sul declino del sistema di governo locale, sulla disgregazione sociale anche nelle “sue” città, e nemmeno sui risultati dei tre governi a guida Blair e Brown. È giusto affermare, come fa Loach, che il problema Corbyn non è quello determinante, anche se nessun leader laburista è mai stato così impopolare tra l’elettorato in generale. Ma senza una radicale riflessione critica sui suoi tanti anni di governo locale e nazionale, nessuna delle proposte specifiche del Labour per affrontare le questioni di oggi, sia quelle immediate sia le versioni più profonde, avranno un minimo di credibilità; e le umiliazioni tipo Copeland e Stoke si moltiplicheranno. David Ellwood, Johns Hopkins University, SAIS Bologna Center.

mercoledì 8 marzo 2017

Liquidità o concreta potenza della diseguaglianza? - Patria Indipendente

Liquidità o concreta potenza della diseguaglianza? - Patria Indipendente

Ferrovie, tutte le tensioni fra Beppe Sala e Atm di Rota su Metro 5 - Formiche.net

Ferrovie, tutte le tensioni fra Beppe Sala e Atm di Rota su Metro 5 - Formiche.net

Luciano Belli Paci: Populismo

POPULISMO E’ fatto di idee semplici e passioni elementari, in radicale protesta contro la tradizione e contro quella cultura e quella classe politica che ne è l’espressione ufficiale. Con il populismo si coagula una nuova sintesi politica che non può essere definita, secondo il comune linguaggio parlamentare, conservatrice o progressista perché supera e mantiene ambedue le posizioni affermando, da un lato una volontà autoritaria, che nella fretta del fare, è sempre insofferente degli impacci e delle remore imposte dalle procedure costituzionali di una democrazia moderna, e dall’ altro, quando arriva al potere manipola le masse con slogan genericamente rivoluzionari. A questo populismo si accompagna un diffuso anti-intellettualismo, un atteggiamento di rivolta contro la ragione critica che è poi una rivolta contro lo specialista, l’esperto, lo studioso in nome di sentimenti o passioni elementari e primitive dei quali si fanno portatori in primo luogo i giovani........... Nicola Matteucci “ Dal Populismo al Compromesso Storico” Edizione della Voce – Roma 1976 p. 50. Scusate ma qui ci sono tutte ma proprio tutte le caratteristiche di Matteo Renzi, è una specie di impressionante identikit disegnato 40 anni prima: · idee semplici e passioni elementari · protesta contro la tradizione e contro quella cultura e quella classe politica che ne è l’espressione ufficiale · sintesi politica che supera e mantiene ambedue le posizioni, quella conservatrice e quella progressista · volontà autoritaria · fretta del fare · insofferenza verso gli impacci e le remore imposte dalle procedure costituzionali di una democrazia moderna · manipolazione delle masse con slogan genericamente rivoluzionari · anti-intellettualismo, atteggiamento di rivolta contro la ragione critica che è poi una rivolta contro lo specialista, l’esperto, lo studioso in nome di sentimenti o passioni elementari e primitive dei quali si fanno portatori in primo luogo i giovani Immagino che qualcuno mi obietterà che per combattere i populismi più temuti una certa dose di populismo ci vuole. Ma proprio qui sta l’errore. La legge aurea per cui tra l’originale e la copia alla fine viene scelto sempre l’originale si conferma anche questa volta. Quelli che continuano a dirci che il PD renziano è comunque il baluardo da puntellare per scongiurare una nuova Weimar scambiano la cura con la malattia: il Pd in questi anni ha svolto una formidabile funzione pedagogica per “sdoganare” tutte queste tossine nel comune sentire del popolo del centro-sinistra, e purtroppo ci è largamente riuscito. L’opera di bonifica sarà lunga e faticosa. Almeno bisognerebbe raggiungere la consapevolezza della necessità di iniziarla, subito. Luciano Belli Paci

Internazionale Socialista. Locatelli vicepresidente | Avanti!

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Voglia di socialismo | Alessio Aringoli

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facciamosinistra!: Incursioni nella sinistra tedesca. Intervista a Andrea Ypsilanti

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La rivista il Mulino: Berlino, 7/3/2017

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La difficile conciliazione tra disuguaglianza economica e giustizia sociale | Avanti!

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martedì 7 marzo 2017

Invece concita, il posto delle vostre storie - Formica e la sinistra scomparsa

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Germania, la sfida delle elezioni - Sbilanciamoci.info

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Europa, la minaccia della disintegrazione - Sbilanciamoci.info

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C’è un limite all’obiezione di coscienza | M. Greco

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Paolo Bagnoli: La patologia della falsa democrazia

la patologia della falsa democrazia Da Critica liberale paolo bagnoli Lo spettacolo di ulteriore devastazione della politica italiana che va in scena in questi giorni ci conferma la modestia del “ceto politico” che ci governa. Altrettanto si può dire per quanto gli gira intorno. Siamo alla conferma di una patologia. Essa si è venuta via via aggravando con la scomparsa dei partiti. Con ciò la Repubblica ha perso i pilastri del suo sostegno e del suo regolare svolgimento. Oggi siamo giunti a un punto talmente basso che il confronto tra le parti si è ridotto a un inseguimento demagogico e distruttivo nel quale escono triturati i meccanismi imprescindibili per una decente tenuta del sistema. All’alzarsi del sipario sul teatro della rappresentazione vediamo che tutti gli attori seguono lo stesso copione dettato dalla mediatizzazione esasperata, dal gesto che può colpire i cittadini e far acquisire consensi, dalla demonizzazione degli avversari politici, da un farisaico moralismo che nasconde l’assenza di qualsiasi morale, dalla mancanza di ogni residuo buon senso e dall’incapacità – cosa assai grave – di saper dare senso alle cose, grandi o piccole che siano. Altro che riforme di cui tutti si riempiono la bocca; pregiudiziale a tutto è la riforma morale e intellettuale del Paese. Dicendolo evochiamo un’espressione che sa bene cosa significhi chi conosce la storia nazionale: un’esigenza con la quale si dovrebbero fare i conti, ma non essendo mai stata affrontata seriamente quale grande problema collettivo, è chiaro che i saldi non tornano mai. Un tempo la classe politica, ad ogni livello, si formava attraverso i partiti quali centri motori del processo democratico. Anche il più sprovveduto amministratore locale aveva un’idea di cultura, idealità e appartenenza che dava sostanza alla rappresentanza e senso all’azione pubblica di governo. Il partito proponeva, offriva, correggeva ed era il garante che i suoi esponenti camminassero nel solco tracciato di un progetto politico. I partiti erano i luoghi del progetto politico che non nasceva da personalità taumaturgiche o da meccanismi populisti, ma da grandi istanze collettive. La perfezione non esiste, ma, sicuramente, il tutto aveva una logica: quella della democrazia politica. Questa, infatti, era la base della politica repubblicana. Una volta che tali presupposti sono stati travolti per lasciare il posto alle improbabilità di questi oltre vent’anni, la Repubblica ha rischiato di 061 06 marzo 2017 5 sbandare sotto il vento gelido di una estesa pratica corruttiva, privatizzazione del potere, formazioni del momento finalizzate solo al mantenimento del proprio spazio di potere o alla conquista del governo, da un trasformismo utilitaristico e miserabile, da un vuoto assoluto di coscienza storica e di cultura politica, da pulsioni neofasciste, separatiste, nuoviste che hanno veicolato germi patogeni nel corpo del Paese; da un ceto politico men che modesto e dal fatto che il potere, prima gestito – talora non sempre bene – nel nome della collettività, venga praticato in nome proprio. Uno sbandamento serio che ha avuto nel tentativo di cambiare la Costituzione il suo punto più alto; un rischio che, meno male, il Paese ha respinto. Il segnale è suonato forte, ma non sembra essere stato udito. Il referendum, tra tante altre cose, ha messo pure a nudo come la leadership naufragata del presidente del consiglio, fosse attorniata da pretoriani di poco spessore politico. Basti pensare all’abolizione delle Provincie elettive e alla riforma della legge elettorale. Entrambe sono state fatte ritenendo che il nuovo progetto costituzionale sarebbe stato approvato. Si è voluta, cioè, vendere la pelle dell’orso prima di averlo preso. Il risultato è che le Provincie sono da ripristinare – tra l’altro quelle” ibride” che sono subentrate costano più delle precedenti – e il Parlamento continua a basarsi su due Camere e non su una sola. Oramai, però, non fa scandalo più niente; la stessa indignazione sembra scomparsa e anche il pudore. E’ mai possibile, per esempio, che si possano passare i parlamentari alla gestione dell’Inps come se fossero non i rappresentanti del popolo, ma degli “impiegati salariati” delle Camere? Tutte le obiezioni relative ai costi sono solo demagogia e gli argomenti di Tito Boeri stanno nell’iperuranio dell’assurdo, ma la questione dimostra la perdita di senso e di dignità della funzione parlamentare; un qualcosa che, in una democrazia, è un tutt’uno con questa. Nel nostro Paese anche le riforme che si riteneva servissero a responsabilizzare e velocizzare lo Stato quali l’elezione diretta dei sindaci e dei presidenti di Regione si sono rivelate corrosive della democrazia. Per quanto concerne i comuni la situazione è più pesante di quella delle Regioni. L’elezione diretta dei sindaci venne politicamente giustificata con il fatto che, dopo il rinnovo di un consiglio comunale, non si poteva aspettare per settimane che i partiti si mettessero d’accordo per eleggere il sindaco e la giunta. Il problema poteva essere risolto stabilendo un tempo entro il quale un’amministrazione, pena il ricorso a nuove elezioni, doveva dotarsi degli organi di governo. Nella nuova dimensione presidenzialista il risultato è che la figura del sindaco ha incarnato il profilo di una democrazia personalistica, il consiglio comunale è stato di fatto evirato dei compiti propri di un’assemblea elettiva e il potere burocratico 061 06 marzo 2017 6 considerevolmente aumentato. La reductio alla personalizzazione ha spersonalizzato gli stessi organi di governo delle città essendo, oramai, le giunte solo organi di servizio del sindaco, del tutto staccati da ogni obbligo di rendicontazione democratica. La nebbia del movimentismo, basata sulla figura imprescindibile del leader e sul mito fittizio della società civile, ha messo la democrazia italiana in una situazione di subalternità rispetto ai soggetti che si contendono il potere: sono i “partiti” dell’oggi. Essi si reggono su dinamiche diverse e sostanzialmente anomale rispetto a ogni regola di trasparenza democratica. Il partito democratico, incardinato sulle primarie, va al congresso immerso nello scandalo di tesseramenti impropri; i 5Stelle si fondano sull’oscurità della democrazia da computer e Forza Italia, da quando esiste, non ha mai fatto un congresso. La storia ci dice come la democrazia non sia un sistema perfetto, ma quando il tasso di inefficienza da fisiologico diviene patologico, allora c’è veramente da allarmarsi.

sabato 4 marzo 2017

Sintesi Futura Umanità | I Pettirossi

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Visco: «Via dal Pd, Renzi ha buttato soldi senza motivo» - nuovAtlantide.org

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INTERNAZIONALE SOCIALISTA LOCATELLI VICEPRESIDENTE | Avanti!

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facciamosinistra!: Psoe al congresso, la linea rossa di Pedro Sánchez

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facciamosinistra!: Il Pse chiude la porta agli scissionisti Pd: è battaglia nel campo dei socialisti europei

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facciamosinistra!: Dalla flessibilità all’iperprecarietà

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Investimenti, progetti collettivi, tasse per i ricchi. L’anima del New Deal

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Roberto Biscardini: Non confondiamo il Psi con il partito di Nencini

BISCARDINI, NON CONFONDIAMO IL PSI CON IL PARTITO DI NENCINI Roberto Biscardini ha commentato così le dichiarazioni di Nencini attuale segretario del Psi: ”Non confondiamo il simbolo glorioso del Psi, con il partito di Nencini. Adesso il Psi, spiace dirlo, rappresenta soltanto una piccola parte dei tanti socialisti la cui maggioranza quella tessera non ce l’ha. Socialisti in cerca di uno sbocco e di un’iniziativa nuova. Nencini ha commesso in questi anni molti errori, in parlamento non parliamone, che hanno sfiancato e svuotato il partito. Ma il più grave, e più recente, è senz’altro quello di aver collocato il partito il 4 dicembre contro il No per fare un favore a Renzi. Non cogliendo da che parte andava il paese e dove stavano i socialisti. Oggi la maggioranza dei socialisti, e dico purtroppo, non si riconoscono più in questo Psi, per la politica che esprime e per come viene gestito. Avanti di questo passo finisce nel virtuale, come il marchio di un negozio senza prodotti sullo scaffale. A marzo il Psi va a congresso. Io, insieme ad altri compagni, che pur la tessera ce l’abbiamo in tasca , non vi parteciperemo. E’ un congresso finto, senza politica, fatto solo per dire che si sta con Renzi e per eludere le ordinanze del Tribunale di Roma che hanno annullato il congresso dello scorso anno a causa di un tesseramento irregolare.”

Continua il lento miglioramento nel mercato del lavoro | M. Pellizzari

Continua il lento miglioramento nel mercato del lavoro | M. Pellizzari

Andrea Ermano: Per una politica di programmi

EDITORIALE Dall'Avvenire dei lavoratori Per una Politica di programmi di Andrea Ermano Che cosa dovrebbero fare i concorrenti alla leadership del PD? Devono puntare a una maggioranza "bulgara" in vista del prossimo congresso di partito? O cercare di assicurarsi un punto di vista consistente sulle cose a venire? Oltre a questi due, c'è sempre un terzo modo di posizionarsi nel confronto politico: l'eliminazione dell'avversario. Tema vecchio di mezzo millennio, di cui scrisse il segretario fiorentino, Nicolò Ma­chia­velli, con mani ancora dolenti, rese storpie dalle gravi torture subite. Tre sono i modi per l'acquisizione del consenso necessario a esercitare il potere: 1) il possesso di una capacità di conoscere il da farsi: gouverner c'est prevoir, dicono i francesi; 2) il possesso di ricchezze tali da consentire le varie forme della regalia; 3) il possesso di forza di fatto sufficiente a battere gli avversari. Il buon governo, secondo una lunga tradizione di pensiero, dipende dall'egemonia culturale del primo fattore: conoscere per deliberare. Senonché, tra l'amore per la conoscenza e il desiderio di ricchezza sussiste una sorta di conflitto delle razionalità, perché un conto è la nozione del bene pubblico, un altro la massimizzazione del profitto in senso privato e particulare. Aut aut. Bisogna allora vedere quale ratio, tra le due "concorrenti", riesce di volta in volta ad aggiudicarsi l'alleanza con il fattore della forza. Ma se la ragione deve allearsi alla forza, e domarla, è allora qui che passa, da Platone a Gramsci, il nervo scoperto dell'egemonia culturale. Perché occorre realizzare l'alleanza, ma anche evitare il prevalere della forza sulla ragione. Altrimenti ne scaturisce una mera eversione, che in termini tecnico-giuridici si può definire "rivoluzione politica", ma che poi, anche se conquista il Palazzo d'Inverno, anche se crea uomini "nuovi" per decreto sovrano, anche se versa sangue a scopo didattico e conquista il cuore dello Stato, in conclusione non muta in nulla ciò che è nei cuori e nelle coscienze degli uomini: un "dio fallito", per dirla con Silone. cid:image003.jpg@01D2936B.E413EAE0 Ma torniamo al PD. Come a ogni tornante della vicenda politica, c'è chi si dà da fare nel libero mercato delle tessere. E c'è chi celebra, o vorrebbe celebrare, costituenti e conferenze programmatiche. Nella Prima repubblica la maggioranza "dorotea" della DC si occupava attentamente delle tessere. Le sinistre, invece, almanaccavano sulle «magnifiche sorti e progressive». Resta memorabile la grande conferenza "dei meriti e dei bisogni", promossa dal PSI, e in particolare da Claudio Martelli, a Rimini nel 1982. Rimini ha rappresentato un esempio di Politica con la "p" maiuscola perché, alla ricerca dei possibili soggetti di un riformismo moderno, focalizzò una maggioranza sociale che ha nel seguito alimentato a sinistra la cultura di governo durante un quarantennio di storia repubblicana. Deinde philosophari. Ma tutto finisce e la crisi planetaria in atto costringe anche la Politica con la "p" maiuscola a una profonda riflessione. Siamo in mezzo a un sisma antropologico. Tre libri sul tema: Breve storia del futuro dell'economista francese Jacques Attali (già consigliere di Mitterrand), Il postumano della filosofa femminista italo-australiana Rosi Braidotti e Homo Deus dello storico israeliano Youval Harari. Il quale riassume la destinazione della storia universale in tre semplici step: i) Homo sapiens conquista il mondo, ii) Homo sapiens dà un senso al mondo, iii) Homo sapiens perde il controllo. cid:image004.jpg@01D2936B.E413EAE0 Kurt Iverson, Vitruvian Robot Attali, Braidotti e Harari sono tre intelletti di prim'ordine, appartenenti a tre generazioni diverse, a tre continenti diversi, a tre discipline diverse, approcciate con metodi di ricerca diversi. Ma concordano su questa diagnosi: siamo a una soglia. Rispetto alla quale soglia occorre ripensare "la vita oltre l'individuo, oltre la specie, oltre la morte" (Braidotti). In effetti, se consideriamo la globalizzazione dal punto di vista dell'ideale cosmopolita, per il quale ogni essere umano è "cittadino del mondo", rischiamo il capogiro. I processi planetari più importanti per la nostra vita – la pace, l'ambiente, il lavoro, la finanza, la giustizia e la legalità, l'alta tecnologia e financo la biologia umana – sembrano sfuggire a ogni "controllo", tanto collettivo quanto individuale. Dopodiché, certo, non ogni speranza è perduta. Se solo riuscissimo a imboccare la prospettiva di una associazione democratica mondiale... Forse lo si potrebbe, perseguendo il principio per cui "il libero sviluppo di ciascuno è condizione del libero sviluppo di tutti". Ma questo, si sa, è ancora Carlo Marx… Dixi et salvavi animam meam (Attali). <> Insomma, per definire una Politica è consigliabile non partire dalla leadership, che serve a poco se è vero che poi si consuma velocemente, in assenza di cultura e programmi. Quindi la via delle conferenze, dei dibatti, delle analisi e del confronto delle idee – per quanto sostanzialmente impervia e apparentemente ingenua – resta la via giusta. Il nucleo di una possibile riflessione programmatica di merito s'im­per­nia, a nostro giudizio e non da oggi, nello sforzo di pensare il com­binato disposto tra un servizio civile universale e l'introduzione, grazie anche a strumenti finanziari innovativi, di un salario di cittadinanza. Buona notizia. In quest'ambito è stato compiuto un passo avanti. Il Governo ha licenziato un decreto legislativo contenente interessanti elementi di novità. L'Italia ha voluto “rafforzare il servizio civile quale strumento di difesa non armata della Patria ai sensi degli artt. 11 e 52 della Costituzione, di educazione alla pace tra i popoli e di promozione dei valori fondativi della Repubblica”, si legge nel comunicato ufficiale. Parrà estemporaneo, ma qui il plauso è doveroso. Un plauso che va ai governi Renzi e Gentiloni, nonché ai ministri Bobba e Poletti. Si tratta di un provvedimento molto rilevante, perché il carattere universale del Servizio allo Stato riporta alla luce della dimensione pubblica il concetto di dovere di cittadinanza, al quale è possibile collegare il diritto a un salario di cittadinanza, tema di cui finalmente s'incomincia a discutere in modo concreto, fuoriuscendo dalla glaciazione del pensiero unico neo-liberista. E qui il merito va al Movimento Cinque Stelle, che prima o poi dovrà scegliere, tuttavia, se stare con la Lega o con il Centro-sinistra. Se il punto archimedeo per una riemersione della Politica sta e cade con le prospettive di una pacifica mobilitazione generale della società, e cioè con la capacità di aggredire collettivamente le vere questioni sul tappeto, allora ogni seria riflessione politico-programmatica dovrebbe prendere le mosse da questo "strumento degli strumenti" che è il servizio civile universale. Ma poi l'elaborazione di un necessario collegamento tra servizio civile e salario di cittadinanza rappresenterà solo un aspetto della questione. Occorrerà pensare altresì la democrazia nel servizio civile, intendendo questo come luogo ospitale verso forme di partecipazione e gestione diretta. Anche l'apertura ai cittadini UE come pure l'apertura agli immigrati, due ragguardevoli misure previste dalle nuove norme, possono preludere a importanti sviluppi, sia nel senso della gestazione di un Servizio civile europeo (causa, questa, per la quale l'Italia deve battersi con energia a Bruxelles), sia in direzione di un Servizio civile migranti, nel quale e grazie al quale promuovere un'accoglienza dignitosa e universale dei profughi, ma, contemporaneamente, orientata al rafforzamento delle strategie di sostegno allo sviluppo.