domenica 30 luglio 2017

Franco Astengo: Europa

DISASTRO EUROPA (e della sinistra europea) di Franco Astengo Timothy Garton Ash, storico oxfordiano e acuto analista fin dagli anni’80 del processo di fuoriuscita dei paesi dell’Europa Centrale dal “socialismo reale” e fautore dell’Europa a 28 (poi 27), scrive in un suo saggio apparso sul numero 5 di Micromega: “Se fossi stato ibernato con la criogenesi nel 2005, sarei scivolato nel mio non – eterno riposo da europeo felice. Con l’ampliamento dell’Unione Europea a includere tante democrazie postcomuniste, il sogno del 1989 dei miei amici dell’Europa Centrale, quello di un “ritorno all’Europa” si stava avverando. Gli Stati membri dell’UE avevano concordato un trattato costituzionale che chiamavano genericamente Costituzione Europea. Il progetto senza precedenti di un’unione monetaria sembrava smentire lo scetticismo espresso in precedenza da me e da tanti altri. Era fantastico poter viaggiare senza alcun impedimento da un capo all’altro del continente, senza controlli di frontiere nella sempre più vasta zona Schengen e con una sola valuta in tasca spendibile in tutta l’eurozona”. Ecco queste affermazioni svolte da un brillante intellettuale cosmopolita testimoniano del grande abbaglio in cui l’establishment culturale e politico dei più importanti paesi europei è incorso subito dopo la caduta del muro di Berlino nell’idea che ormai la strada fosse spianata per il trionfo del capitalismo e l’inglobamento delle aree che erano appartenute alla sfera di influenza sovietica. Si è scambiato per trionfo del liberismo l’apertura di una complessa fase di transizione; si sono ignorate le materialità di un confronto internazionale scivolato presto in una dimensione inedita di conflitto; non si è prevista la grande frenata di quella che era stato frettolosamente definita come “globalizzazione” e il ritorno a nuove forme di suddivisione in blocchi delle sfere di influenza a livello globale; non si è valutato cosa comportasse in pratica un ruolo degli Stati Uniti quale solo “gendarme del mondo” impegnato a “esportare la democrazia” di fronte allo scatenarsi di nuovi livelli di conflittualità nelle aree a più alta tensione; non si è dato conto dello spostarsi verso Oriente delle coordinate di sviluppo e del presentarsi del gigante Cinese nelle vesti inedite di “socialismo – capitalismo”. Tutti fattori che alla fine hanno prodotto l’aumento esponenziale delle disuguaglianze a tutti i livelli e il ripresentarsi di scenari di guerra con il loro relativo corollario di fughe di massa: il nodo dei migranti, insomma, sul quale l’ottimismo per l’inserimento dei Paesi dell’Europa Centrale nel processo europeo è andato in pezzi con grande sofferenza per i paesi più deboli dell’area mediterranea (Grecia, Italia) mentre nel frattempo si era dissolta (tragicamente) la fondamentale unità jugoslava. Il tutto riassunto in pillole e approssimativamente con le scuse giustificate dalla necessità di contenere l’economia del discorso. All’interno di questo quadro la sinistra europea, sia di matrice socialdemocratica sia di origine comunista o post – comunista (come nel caso dell’Italia) ha perso ruolo e significato e soprattutto ha perso una propria visione di prospettiva sovranazionale dividendosi, nei suoi tentativi di ripresa, tra una dimensione sovranista – populista come in Francia, oppure tardo – keynesiana come in Gran Bretagna o – ancora – movimentista sul modello spagnolo. Peggio che dappertutto è andata in Italia in un quadro di smarrimento totale, cedimento a surreali istanze personalistiche clamorosamente smentite dal voto popolare referendario, e da un processo di progressiva marginalizzazione al quale pare non si riesca a porre rimedio. Ma c’è di peggio. Il risultato del capovolgimento di prospettiva verificatosi dal momento dell’ipotetica ibernizzazione di Ash (2005) e del suo altrettanto ipotetico risveglio (2017) offre un panorama europeo privo di una qualsiasi identità in un delirio di cedimento culturale: prova ne sia l’altro grande fraintendimento verificatosi al momento delle elezioni francesi e dell’assunzione alla presidenza di Macron. Quel che appare più grave in questo momento sembra proprio essere il riapparire dei fantasmi dei fascismi che dovevano essere stati esorcizzati da tempo e ridotti a un’estrema marginalizzazione. Invece questi si propongono di nuovo minacciosamente, con adesioni di massa fino a ieri impensabili (ci troviamo di fronte a fenomeni collocati ben oltre il declinante lepenismo) come soluzione di una crisi a quella che è stata definita (Flores D’Arcais) “Weimar continentale”. Il tutto favorito dalla totale assenza di senso storico sia da parte dei gruppi dirigenti, sia a livello profondo nella società del “mordi e fuggi” caratteristico delle giovani generazioni. Ancora il tema dell’individualismo consumistico. Il pane per l’alimentazione di questi neofascismi rampanti è distribuito a mani aperte dalla crescita delle contraddizioni materiali, cui i governi non riescono a far fronte perché troppo legati alle compatibilità imposte dal capitale finanziario che ha assunto, nel frattempo, l’effettiva leadership tra Bruxelles e Francoforte. E’ necessario prendere atto di due punti essenziali: 1) Il progetto europeo è fallito complessivamente e più presto si farà a prenderne atto e meglio sarà per fronteggiare le successive ondate di crisi che si presenteranno; 2) La risposta, a sinistra, non potrà però essere quella sovranista ma di un progetto a dimensione sovranazionale di difesa, aggregazione, rimessa in circolo sulla scena della storia delle storiche categorie sociali di riferimento sulla base di un recupero dell’analisi al riguardo della complessità delle contraddizioni sociali. Occorre recuperare una dimensione nazionale della presenza della sinistra e il ristabilimento di una rete di relazioni comuni a livello sovranazionale (l a struttura politica dell’internazionalismo) in modo che si assuma realisticamente lo stato di cose in atto: diversamente dai clamorosi fraintendimenti verificatisi in passato. La democrazia liberale non funziona più e combattuto il pericolo del ritorno al fascismo. Un’ affermazione che può sembrare esagerata ma è proprio dalla concretezza da questa constatazione che è necessario partire per ricostruire adeguate soggettività politiche. Una ricostruzione che, dal nostro punto di vista, non potrà che principiare dalla centralità del conflitto come risultato di una visione di una società animata dalla contraddizione. Scrive Mélenchon: “La società non sarà mai libera se non sarà egualitaria”. Su questo punto ha ragione e si può aggiungere: la libertà non potrà esserci fino a quando ci sarà chi accumulerà ai danni degli altri. Per questa motivazione fondamentale è prioritario il conflitto sociale e politico e debbono essere ricostruiti i soggetti che il conflitto sostengono e organizzano. Il disastro della sinistra europea è proprio stato avviato dall’abbandono di questo “fondamentale”.

venerdì 28 luglio 2017

Povertà e disuguaglianza in Italia | Economia e Politica

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The Crisis Of The French Socialist Party: Does It Still Have A Future?

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Jobs act: incentivi finiti e giovani ancora precari | F. Beraldi e I. Lagrosa

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Kaczyński’s Threat to Europe by Jacek Rostowski - Project Syndicate

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Why Tax Cuts for the Rich Solve Nothing by Joseph E. Stiglitz - Project Syndicate

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Franco Astengo: Il cammino del gambero

IL CAMMINO DEL GAMBERO? di Franco Astengo Si sta scrivendo molto, e da diverse angolazioni, sull’idea del “ritorno all’indietro”, di un’organizzazione sociale che procede con il “cammino del gambero” nonostante il vertiginoso avanzare dell’innovazione tecnologica. Un avanzamento quello della cosiddetta innovazione tecnologica auto centrato e posto proprio sul terreno della velocità e del ravvicinamento nel tempo (ma non nello spazio) delle relazioni pubbliche e personali. Velocità e riavvicinamento nel tempo delle relazioni pubbliche e personali realizzato attraverso l’innovazione tecnologica che causa un riaffermarsi delle condizioni di disuguaglianza e dominio sul piano culturale evidenziando le “distanze” sociali all’interno delle società occidentali avanzate ma soprattutto a livello planetario (mentre noi clicchiamo come forsennati, 600 milioni di africani sono privi della luce elettrica). Nella sostanza una ulteriore esaltazione dell’individualismo. La “Lettura”, allegato culturale del “Corriere della Sera” ha dedicato addirittura le prime pagine a questo tema soffermandosi, da un lato, sulla “Illusione di una società neofeudale” (prendendo spunto da diverse opere uscite recentemente sul tema) e dall’altro su “Ma il feudalesimo va riabilitato”. Sono tre i nodi di fondi di cui nella fattispecie ci si occupa: 1) La cosiddetta “globalizzazione” intesa come espressione dell’autonomia dell’economia dalla politica. Nell’occhiello del primo articolo si sostiene: “ Il mondo sta uscendo da una crisi decennale che ha segnato la fine della globalizzazione dolce. E sostengono alcuni, soprattutto riguardo all’Europa, sta entrando in una ri-medievalizzazione della vita pubblica: un sistema di sovranità multiple che possa dare origine a un nuovo ordine flessibile, post – coercitivo. Ma il vero modello è il Rinascimento.” Nel testo dell’articolo si aggiunge e chiarisce attorno a questo concetto, prendendo spunto dall’analisi di Ian Zielonka: “Oggi c’è chi parla di una ri-medievalizzazione, soprattutto in Europa. Con questo termine si fa riferimento all’apparente emergenza di una forma di organizzazione politica basata su sovranità multiple, in parte sovrapposte, in parte condivise, in parte in reciproca concorrenza. Sovranità “acefele” senza comando supremo: un sistema basato su scatole cinesi di sovrani (dalle comunità locali ai governi nazionali all’UE e via salendo) ciascuno con le sue quote di risorse. I neo – medievalisti guardano con favore a questi sviluppi e confidano che dal pluralismo di centri, poteri, sovranità possa nascere (almeno in Europa) un nuovo tipo di ordine flessibile, post – coercitivo”. 2) Il tema è dunque quello dell’autonomia del potere nella sua costruzione in rapporto alla molteplicità dello sviluppo sociale. L’idea neo –medievalista andrebbe così in soccorso al fallimento dell’ipotesi di verticalizzazione di un potere raccolto attorno alle logiche economiciste di una globalizzazione “dura” attorno alla quale si era accentrata la “governance” europea. Un tentativo di verticalizzazione del potere non riuscito perché scontratasi con l’emergere del fenomeno contemporaneo dell’estendersi orizzontale di molteplici “autonomie” sociali foriere di una nuova corporativizzazione. Tutto questo mentre sparivano dall’orizzonte politico, le forme di rappresentanza ideologica recanti con sé prospettive e visioni complessive di mutamento storico. 3) Difatti la prima risposta che sta arrivando, in questo senso, è di pieno recupero del concetto di “Stato – Nazione” in una dimensione pienamente sovranista. Per riflettere al meglio su questo stato di cose servirebbe forse una revisione della “Scienza nuova e le tre età della storia” cioè della teoria vichiana dei corsi e ricorsi. Fin qui però resteremmo all’interno della teoria e non riusciremmo a scendere sul terreno della prospettiva politica che, invece, dovrebbe prioritariamente interessarci. In realtà l’idea di una ri-medievalizzazione aleggia intorno a noi ma in una forma diversa del riprodursi del confronto tra verticalizzazione del potere e orizzontalizzazione della società che fu risolto attraverso il processo successivo di feudalesimo, Comuni, Signorie nell’Italia tra il 1000 e il 1400 mentre in Europa si affermavano progressivamente gli Stati – Nazione sotto forma di monarchie assolute. Feudalesimo versus sistema westfaliano? Certo che chi pensava di accantonare in tutta fretta lo “Stato Nazione” si ritrova con molte ragioni di ripensamento. Tutto questo discorso si accompagna con l’incapacità degli strumenti della democrazia cosiddetta “liberale” di accompagnare e governare la realtà concreta della crisi di senso della nostra epoca. E’ necessario ritrovare invece la percezione completa della crisi che stiamo attraversando. ‘ sufficiente assistere al dramma della disoccupazione, ai suicidi per povertà, all’arretramento nelle condizioni materiali di vita nel quotidiano, all’impossibilità del rivolgersi al welfare. Il senso della crisi sta nei negozi chiusi, negli opifici silenti dove non echeggia più il rumore del lavoro, nel ritorno alla “guerra tra i poveri”, all’odio crescente tra gli apparentemente diversi senza che nessuno sia più capace di farli riconoscere tra loro eguali nel gran modo degli sfruttati. Anche Serge Halimi dalle colonne de “Le monde diplomatique” ha scritto di “Medioevo Europeo”. Sì appare proprio un “ritorno al Medioevo” quanto sta accadendo qui nell’Occidente super sviluppato ma non nel senso indicato dai teorici delle forme di governo dell’orizzontalità del potere buone per mantenere il dominio di un “vertice” sempre più lontano e apparentemente inscalfibile fondato sul primato di una persona: Trump, Putin, adesso Macron (domani una nuova versione , diversa dalle precedenti, di Angela Merkel?) stanno lì a dimostrarci l’applicabilità concreta di questa teoria di relazione tra orizzontalità e verticalizzazione. Il senso profondo della crisi lo si avverte nell’assenza del conflitto: ci giunge lontano l’eco di “piazze ribelli” poi normalizzate dallo stridere lento sull’asfalto dei cingoli dei carri armati. Un’eco lontana che non sappiamo raccogliere, rinchiusi qui nella fortezza di un’economia definita “comportamentale” che ci impone i modelli, gli stili di vita, i consumi senza dei quali il nostro individualismo non trova altra strada che annegare nella disperazione. Il senso profondo della crisi corrisponde all’assenza di un’alternativa, nell’omologazione delle culture, nel rendere omaggio all’eterna e intangibile “costituzione del potente”. “Ribellarsi” potrebbe rappresentare l’imperativo d’obbligo: ma come? Il senso profondo della crisi ci impone di riscoprire la politica: la politica, prima di tutto, intesa come ricerca dell’appartenenza alla propria condizione materiale, la politica come studio della situazione umana, dal singolo al collettivo, per cercare, proporre, imporre soluzioni, la politica come sede di rappresentanza degli interessi e dei conflitti. Se ritorno all’indietro c’è, ritorno all’indietro deve essere fino in fondo anche per le grandi masse dei diseredati, colpiti dall’eterno ma mai eguale massacro capitalista, perché ritrovino la scienza, la volontà, la forza di organizzarsi per resistere e cambiare profondamente questa società: pietra su pietra come si scriveva un tempo. Se non si riflette su questo appare inutile e perfino dannoso muoversi sul terreno teorico della ricerca di un nuovo sistema di relazioni di governo tra politica, economia, tecnica: quello che sembra stare tanto a cuore a filosofi e politologi dello “status quo”. La riflessione deve necessariamente portare ad una ricostruzione culturale ponendoci di fronte alla ricerca di un nuovo “senso della storia” proponendoci il ritrovarsi delle espressioni viventi delle grandi contraddizioni sociali in una autonoma dimensione di organizzazione in grado di esprimere una lotta intellettuale, morale e di conseguenza politica.

mercoledì 26 luglio 2017

Il ritorno della questione regionale

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Le sinistre. Con la socialdemocrazia per andare oltre « gianfrancopasquino

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Polonia, riforma della giustizia: nuovi scenari politici e proteste | Reset

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Anna Falcone e Montanari a Milano per la lista unitaria - spaccatura cristallina con Gad Lerner - nuovAtlantide.org

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IL CENTRO SINISTRA IN LOMBARDIA PUÒ VINCERE? | Walter Marossi - ArcipelagoMilano

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MILANO, LA GIUNTA DIVENTA BALNEARE? | Luca Beltrami Gadola - ArcipelagoMilano

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martedì 25 luglio 2017

Paolo Franchi: Il socialismo è malato (ma può anche riprendersi)

Martedì 25 Luglio, 2017CORRIERE DELLA SERA© RIPRODUZIONE RISERVATA il socialismo è malato (ma può anche riprendersi) di Paolo Franchi U n giorno il Politburo stabilì, su proposta di Michail Suslov, di mettere nero su bianco nello statuto del partito che il marxismo-leninismo non era una filosofia, ma una scienza. La decisione fu sottoposta al voto, stancamente unanime, di tutte le strutture del Pcus. Nell’ultima, sperdutissima sezione, però, il compagno Popov, raggelando gli astanti, chiese la parola. Nessun dubbio, per carità, il marxismo–leninismo era una scienza. Ma allora come mai, prima di applicarla agli umani, non la si era sperimentata sui topi? Il riaprirsi del dibattito sulla fine del socialismo e dei partiti socialisti mi ha fatto tornare alla mente questa vecchia barzelletta sovietica. Una ragione c’è. Il socialismo, in tutte le sue varianti, non si presta alle ironie del compagno Popov: perché, a differenza del comunismo, con tutto il rispetto per Karl Marx non è «scientifico». Non ha più da un pezzo un’ortodossia, uno statuto ideologico rigido, un obiettivo finale con cui fare i conti. Il movimento è tutto, il fine è nulla, aveva sostenuto già nel 1899 il revisionista Eduard Bernstein. Se ne ebbe in cambio l’espulsione dalla Spd. Ma settant’anni dopo un altro grande socialdemocratico tedesco, Willy Brandt, parlava con Oriana Fallaci del socialismo come di «un orizzonte che non raggiungeremo mai, e a cui tentiamo di andare sempre più vicino». E il nostro Pietro Nenni, che fino all’ultimo volle essere giudicato «come un militante della classe operaia e del movimento socialista», lo definiva come la lotta incessante «per portare avanti quelli che sono nati indietro». A lungo questa sostanziale indifferenza alla teoria fu considerata (in Italia, ma non solo in Italia; a sinistra, ma non solo a sinistra) un insuperabile limite congenito del movimento socialista. C’era del vero, in questo giudizio, specie in un tempo in cui, a confrontarsi, erano ideologie e visioni del mondo potenti e all’apparenza inossidabili. Ma, adesso che così non è più da un pezzo, questo limite può persino trasformarsi in una potenzialità. Anche se solo a dirlo si rischia di passare per visionari, forse sarebbe il caso di cominciare a discuterne. Il socialismo è morto? Andiamoci piano. Di sicuro gravissimamente malati sono i partiti socialisti e socialdemocratici per come li abbiamo conosciuti, i quali, dopo aver stravinto la lunga guerra a sinistra, sono poi riusciti, uno dopo l’altro, a straperdere la pace. I motivi del disastro sono ovviamente tantissimi, ma qui interessa sottolinearne uno su tutti. E cioè la diffusa convinzione (addirittura ostentata, negli anni Novanta del secolo scorso, con un fastidioso entusiasmo da neofiti) che, caduta l’Unione Sovietica, anche la stagione della battaglia per «portare avanti quelli che sono nati indietro» fosse finita una volta per tutte, assieme a quella del compromesso democratico tra capitale e lavoro organizzato che aveva garantito in Europa la prosperità e la democrazia nei decenni precedenti; e che si trattasse piuttosto di dimostrarsi più convincenti delle destre nel praticare la religione del mercato nel tempo della globalizzazione. Per questa via, i partiti socialisti e socialdemocratici conquistarono spesso il governo, ma smarrirono la loro stessa ragione sociale di esistenza, senza riuscire a individuarne un’altra che non fosse solo quella, pur meritoria, della difesa e dell’allargamento dei diritti civili e delle libertà individuali. Non passarono la nottata: la storia provvide rapidamente a fornire le sue dure repliche. In Europa e in tutto l’Occidente chi era nato indietro è stato ricacciato ancora più indietro, chi aveva avuto, o meglio si era guadagnato, la possibilità di fare dei sostanziosi passi in avanti è stato costretto a percorrere a ritroso il cammino; e questo non è valso, anzi, a garantire nuove chances di vita ai giovani. Sì, certo: la globalizzazione ha cambiato tutto. Ma non era scritto che alla filosofia dell’inclusione e dell’integrazione crescente dovesse subentrare quella dell’esclusione e della chiusura, con tutto ciò che essa comporta, a cominciare dalla crescita senza precedenti delle sperequazioni sociali: i ricchi (non pochi) sempre più ricchi, i poveri (moltissimi) sempre più poveri. Come riconobbe l’allora capo dello Stato Giorgio Napolitano già nel 2012, «dovremmo parlare non più di disagio … ma di una vera e propria questione sociale». Non sono stati i partiti socialisti a guidare questo processo. Ma non si sono nemmeno provati a contrastarlo. E non hanno neanche compreso che una simile, gigantesca trasformazione si porta appresso un cambiamento tellurico della morfologia sociale, culturale e politica; tanto più perché si accompagna a fenomeni (le grandi migrazioni, per cominciare) destinati, ci piaccia o no, a cambiare la vita nostra, e soprattutto quella dei nostri figli e dei figli dei nostri figli. A lungo si è ragionato come se lo sbocco pressoché obbligato di tutto ciò fosse il dilagare del populismo vetero-sovranista e xenofobo. Le cose non stanno necessariamente così, come testimoniano anche i successi di leader pure molto diversi, come Bernie Sanders, Jean-Luc Mélenchon e, da ultimo, Jeremy Corbyn. Non si tratta di copiarli, ma di prendere atto che l’ambizione antica di portare avanti quelli che sono nati, o sono stati ricacciati, indietro, ha ritrovato una sua legittimazione quando tutto sembrava parlare, da decenni, in senso contrario. La parola indicibile, socialismo, può di nuovo essere pronunciata e declinata. Apostoli che ci facciano tornare alla mente i socialisti delle origini in giro non se ne vedono. Ma nulla esclude che possa farsi pensiero politico, organizzazione, programma, e riprendere la sua lunga marcia.

giovedì 20 luglio 2017

Stefano Rolando: La nostra parte

Cantiere delle Ragioni La cultura liberalsocialista è destinata a costituire le nuove basi dell’Europa? La nostra parte Seminario programmatico – Roma, Hotel Valadier - 19 luglio 2017 Introduzione di Stefano Rolando 1. Aderisco all’invito dell’ambasciatore Antonio Armellini, nostro relatore, di mettere il punto di domanda al titolo del nostro convegno per stimolare di più dialogo e confronto. Non lo metto, certamente, sul claim “La nostra parte” perché almeno su questo non riteniamo di dover dubitare. 2. Ci incontriamo attorno a una proposta che mette al centro la prospettiva europea e che riapre per l’Italia la via maestra di un riformismo pragmatico misurato sulla sostenibilità di un rapporto possibile tra equità e crescita (Andrea Boitani e Pier Virgilio Dastoli ci aiuteranno a declinare meglio il tema). Sono tuttavia ancora vivi gli echi di una rappresentazione “per piazze” di due poli del centrosinistra forse ancora prigionieri delle divisioni personali, in questa fase entrambi piuttosto lontani dai contenuti, con la presa (per quel che si è sentito fin qui) staccata dall’Europa, con il rischio di un artificiale rottura del patto generazionale. 3. Tuttavia quel che è reale ha la sua spiegazione, ovviamente. Ma si può anche non essere festanti. Volere altro. Pensiamo che ci siano storie che servirebbero a orientare meglio alcune rotte. E a prevenire oggi - con più attenzione alle lezioni del passato – una delineata revanche della destra. Lascio volentieri agli autorevoli relatori - che ringrazio enormemente per essere qui - il diritto di puntualizzare meglio il contesto. E provo solo a fornire qualche spunto al tentativo che oggi campeggia nel titolo scelto – “La nostra parte” - di riprendere in mano una storia in parte interrotta, in parte emarginata che non ha tuttavia interrotto la sua missione: quella di coniugare la parola “sinistra” con la parola “altra”. Perché mettendo anche superficialmente mano alla storia d’Italia noi sappiamo che un’altra sinistra c’è. 4. Dall’inizio degli anni novanta – storia, questa, nota a tutti ma temo non ai millennials - la politica italiana, formatasi nel rinnovamento costituzionale post-bellico è entrata nella sindrome di cambiare pelle. “Pelle” vuol dire soprattutto forma esteriore, involucro, apparenza. Anche quel vento, che ha cominciato a soffiare in quegli anni, veniva da nord, in questo caso da Berlino. In cui, poco prima, la caduta incruenta ma fragorosa del muro che divideva comunismo e occidente aveva lanciato il tema del superamento delle ideologie. Tema sentito innanzi tutto dal ceto politico più legato alla forma ideologica della politica che, intendendo sopravvivere alla bufera, anche nelle forme personali e individuali, salvo qualche eccezione, trovò rapidamente idonea la via di non associare più l’indirizzo della politica a vincoli ideologici, cercando rappresentazioni del posizionamento delle idee e dei valori in termini magari più confusi, più allusivi, meno a ricalco dei profili in cui teoria e propaganda avevano incarnato lo storico passaggio di consegne tra ‘800 e ‘900. E in cui gli scontri radicali del ‘900 (due guerre mondiali) avevano scolpito nel marmo e nel bronzo le statue di un pensiero che pareva eterno. Una vicenda complessa, fatta anche di dolori e sofferenze. Ma anche di spregiudicatezze e certe dosi di cinismo. In particolare il comunismo, sotto accusa mondiale, sentiva in occidente (e beninteso nei paesi rivoltatisi finalmente al radicamento delle forme ormai peggiori di quella storia) il bisogno di promuovere e aderire alla cancellazione delle forme per salvare, ove possibile delle sostanze. 5. In Italia l’applicazione del maggioritario, in quegli anni, ha reso necessario il recupero senza remore di tutti i soggetti rappresentati parlamentarmente. Ciò ha agito anche sulla destra di tradizione fascista e neo-fascista che, restando legata ad un’altra ideologia sconfitta, rischiava l’evaporazione anagrafica o il riformarsi con caratteri giovanili virulenti poco indicati alla piega perbenista delle esigenze del nuovo marketing elettorale. Anche da questa parte, così, il camuffamento formale ha preso piede facilmente consegnandoci forme di moderato nazionalismo che dovevano bilanciare l’insorgente localismo leghista nel quadro di alleanze composite ma corrispondenti ad una umoralità conservatrice forte della società italiana e, per questo, elettoralmente competitiva. 6. Meno chiara appare ancora oggi la ragione per cui l’area politica diciamo riformista dello schieramento politico (liberali, democristiani, repubblicani, socialisti e socialdemocratici) avrebbero dovuto seguire questo schema trasformista. Non lo suggeriva l’Europa dove, anzi, in questi ambiti continuava ad esprimersi una parte importante dei consensi organizzati. Non lo suggeriva la storia in cui la connessione tra ‘800 e ‘900 aveva prodotto qui filiere di pensiero continuamente rigenerato connesso tutto 2 sommato a un quadro di azioni virtuose (dal Risorgimento alla Resistenza, dalla costruzione teorica e pratica del Welfare alle scelte di campo più coerenti con la sostanza dell’idea di libertà dell’occidente). 7. L’unico piccolo partito che, fermo nella sua storia e nei suoi valori, non cercò di trasfigurarsi formalisticamente fu il Partito Radicale, anche se ormai con un consenso elettorale diventato marginalissimo. Quando scrissi con Marco Pannella un intenso viaggio attorno alla sua vita di ottantenne era molto fiero di questa solitaria sopravvivenza, ma volle intitolare quel libro “Le nostre storie sono i nostri orti, ma anche i nostri ghetti”. 8. Si è scritto che, con pensiero corto, la stagione di crisi di una certa etica pubblica e quindi il coinvolgimento diffuso con un finanziamento illecito dei partiti aveva generato – attraverso il bull-dozer di Tangentopoli – una scossa distruttiva che appariva simile a quella della caduta del muro di Berlino. E che suggeriva ai gruppi dirigenti di questa area di seguire la moda del camuffamento, in questi casi per lo più nemmeno eseguita con successo, ma semplicemente capace di generare forme di auto-annullamento. La verifica a posteriori di questo suicidio viaggia con pari argomentazione del racconto del penoso tentativo (tutto italiano, più che europeo) di dare forme più emotive che teoriche, più antropologiche che sociali, più comunicative che elaborative, ai soggetti politici più importanti della seconda Repubblica: i dem e i berl. 9. Caduto, in generale, il vincolo ideologico (dato per scontato da quasi tutti come un “aquis” e mai discusso per paura di passare per passatisti, vetero-qualcosa, remotisti, eccetera), si sono viste storie di partiti emozionali (nei caratteri comunicativi) che però avevano il compito sostanziale di traghettare ceti politici di ben precise caratteristiche; in particolare nella sinistra, quelli legati al sogno incompiuto del compromesso storico nel difficile e anch’esso mai compiuto tentativo di tenere insieme le nomenclature berlingueriana e dossettiana). 10. E dall’altra parte, cioè a destra, si è profilato – a corrente alternata – un pressapochistico liberalismo che doveva amalgamare per convenienza una complessità ben maggiore: forza vendita di Mediaset, leghismo vecchio e nuovo, trasformismo post-fascista, CL e la parte di Compagnia delle Opere a favore comunque di chi governa, socialisti trasmigrati con posizioni politiche viscerali, il grosso del personale politico della DC del territorio interessato principalmente a poco cambiamento di regole e poteri. 11. Comunque gli inarrestabili processi descritti hanno schiacciato tutto l’orto. Operazione diventata assoluta con la formazione più recente di un terzo polo: reattivo, giovanilistico, giustificato ma anche molto demagogico, sollevatosi al suono di un pifferaio comunicativo e irriverente come rivolta generazionale a volte strampalata ma la cui sensibilità all’equità non va sottovalutata. Rivolta comunque contro un’offerta politica ormai ancora più strampalata. 12. Ugo Finetti dirige una rivista storica del socialismo italiano Critica Sociale e mantiene finezza di giudizio costruita in tanti anni di attività politica. Dice sinteticamente che l’attuale assetto tripolare della politica italiana leaderistica si fonda sulla cancellazione delle due leve della politica fondata sulla cultura politica: la dialettica (cioè discutere nel merito con tutti) e la storia (cioè tenere i piedi piantati nelle radici e nelle evoluzioni). Credo davvero che si abbia il dovere di testimoniare l’inevitabilità di questa prospettiva, anche se in condizioni minoritarie e anche non arrendendosi a chi asserisce che la politica – nel senso soprattutto elettorale - o è leaderistica o non è. 13. Malgrado il peso di questo scenario, i nuclei di cultura politica a cui facciamo riferimento – oggi affidati a poche fondazioni, qualche buona rivista e qualche circolo culturalmente vitale ma politicamente in condizioni annichilite – sono riusciti a rimettere in ordine un pensiero. Quello che parte dal fatto che le buone letture (quelle di gioventù e anche quelle più recenti) che riguardano queste storie non sono riconducibili alla muffa delle letture ideologiche alimentate dalle diverse forme di propagandismo sconfitte nella storia del ‘900, ma anzi contengono analisi del passato (e del loro presente) e soprattutto capacità di immaginare e progettare il futuro che tuttora esprimono reale lucidità e reale valore. Temo che molti di questi soggetti non vogliano andare al di là della difesa del “patrimonio ideale”. Anche nel nostro cantiere – l’avrebbe spiegato meglio Giovanni Vetritto nella discussione, ma è stato obbligato a trattenersi al lavoro al Ministero degli Affari Regionali per le improvvise dimissioni del ministro Costa – abbiamo rivisto antiche ritrosie. E tuttavia quel “patrimonio” quel “pensiero”, valgono soprattutto perché non hanno mai perso di vista anche “l’azione”. Connessione che in Italia, a fronte di un’Italia più disunita, con una riacutizzata “questione meridionale” (ne parlerà Luigi Mascilli Migliorini, valentissimo storico e presidente della Fondazione “Francesco De Martino”), vale come e più di prima. 14. Di Rivoluzione liberale di Piero Gobetti non si butta via nulla oggi. Lo stesso vale per il Manifesto di Ventotene di Spinelli, Rossi e Colorni. Vale per le profezie politiche e parlamentari di Filippo Turati (a 3 cominciare dal suo sogno di “Rifare l’Italia” mettendola in prevenzione idro-geologica) che sollevarono l’ironia, anzi lo scherno, di comunisti di ogni tempo, refrattari soprattutto alla parola “riformismo”. L’elenco delle fonti è molto vasto. Tiene conto, nella tradizione italiana, di un arco articolatissimo dell’amor di Patria, che comprende la lezione socialista-liberale che va dai fratelli Rosselli a Norberto Bobbio al pensiero cattolico-liberale giobertiano e rosminiano, va dalla religione della Patria di Mazzini alle innumerevoli “postille” di Salvemini, va dall’idea nittiana di democrazia alle “prediche inutili” di Einaudi. Non dimentica soprattutto il coraggio progettuale degli azionisti (da Calamandrei a La Malfa, da Lombardi a Lussu, da Rossi Doria a Parri) con i loro “sette punti” costitutivi ancora di quasi intatta vitalità e con alle spalle l’eroismo di Giustizia e Libertà nella guerra di liberazione dal nazi-fascismo. Vi è poi una più recente letteratura economica di matrice anglosassone che esprime quel “liberalismo radicale” che sta nutrendo un pensiero di convergenze tra istanze che, per semplificare, sono state siglate come “lib-lab” (mi riferisco a (Keynes, Beveridge, Sen, Stiglitz, Tony Judt, Michael Sandel, eccetera). 15. Restiamo convinti che le divisioni, l’antagonismo, le conflittualità di cui la storia di queste idee lasciano traccia, illanguidiscono rispetto all’esigenza di ricomporre riferimenti all’Italia migliore e all’esigenza di sollecitare chi oggi pensa di dare risposte politiche a crisi e opportunità in atto (soprattutto pensando ai giovani senza cui non ci sarebbe comunque vitalità politica) e di non aver paura a rimettere mano alla continuità di un rapporto tra azione e pensiero nella progettazione politica. Aderire a un pensiero già pensato – quando autorevole, verificato storicamente, in grado di raccordare fenomeni e soluzioni, non solo non è un delitto ma è anche la condizione per produrre nuovo pensiero e per mettere i problemi e non se stessi al centro dell’iniziativa politica. 16. Queste sono le annotazioni di cornice che ritengo giusto trasferire per spiegare il senso dell’iniziativa di oggi. Vi è chi è in cammino su questo progetto (non sto traducendo esattamente “En marche!”, anche se lì leggo un’ipotesi da discutere), vi è chi sta cercando di ricomporre iniziative, tensioni, potenzialità. Noi prima di compiere passi decisivi abbiamo ritenuto di far maturare alcune occasioni per dare una embrionale forma di proposta, grazie a figure in grado di ribaltare la diceria che le proposte le devono fare gli incompetenti che passano per caso per strada. 17. Non sarà sfuggito a chi ha solo dato una scorsa al programma di quest’incontro che abbiamo cercato di riportare l’intera questione dentro l’alveo della cornice europea. Per tre ragioni: - perché lì c’è un insieme di riferimenti identitari e di soglia delle condizioni competitive entro cui l’Italia o si allinea da protagonista o perde l’ultimo treno per mettere al riparo democrazia e possibile crescita; - perché - pur mettendo a confronto due sostanziali schieramenti pro o contro l’attuale carattere dell’Unione – lì stanno prendendo forma vecchie e nuove forme del “far politica” in un sistema tenuto insieme da valori civili omogenei; - perché – ora con segnali dalla Francia, ma non escludendo altre convergenze – lì si stanno per verificare scomposizioni e ricomposizioni delle aree politiche socialista e liberale che sono parte del nostro assunto, ovvero del rapido necessario interrogarsi (titolo di questo convegno) su quale sia la nostra parte in questo processo che può avere accelerazioni. 18. Circa la questione del metodo di far crescere proposta: - oggi ascoltiamo pareri competenti; rinviando la prevista tavola rotonda politica a settembre e ringraziando ancora l’on. Valdo Spini per la sua disponibilità a introdurla. - da oggi lavoriamo per avvicinare cittadini che hanno requisiti morali e culturali per aiutarci nel merito e nella collocazione delle priorità circa queste e altre proposte; - con questo metodo siamo pronti a discutere, dopo questo convegno, se un soggetto di iniziativa politica potrebbe mettere a obiettivo le aspettative che nei precedenti mesi di ascolto e dialogo promosso dal “Cantiere delle Ragioni” abbiamo provato ad intercettare; abbiamo trovato un’Italia che magari ha alimentato l’astensionismo ma che non ha alimentato né il qualunquismo né il rinunciatarismo; non è ancora del tutto evidente lo spirito di superamento della marginalità. 19. Il posizionamento di questo progetto non è un apriori. La collocazione progressista del nostro ragionamento è parte delle storie a cui ci onoriamo di appartenere. Ma la confusione di sistema resta abbastanza ampia per non avere pregiudiziali. Che con l’autunno e dunque con la partecipazione, soprattutto aperta al civismo territoriale e alle esperienze valoriali di chi ha tenuto duro negli anni attorno certi convincimenti, contiamo di mettere meglio a fuoco – come dice un’aspirazione che viene da lontano – il modo di “passare all’azione”. 20. La gratitudine a tutti coloro che hanno accettato il nostro invito per esporre spunti progettuali o per confrontare il punto nodale della questione che ci ha ispirato è grande e sincera

Difficoltà e prospettive della sinistra – Ragioni politiche

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How Do European Welfare States Perform?

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What It Means to Be on the Left

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Effetto Schulz. Di che colore è la sinistra tedesca? - Pandora Pandora

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Felice Besostri: Intervento all'assemblea del 19 luglio

20170719CAMERADELLAVOROMILANOASSEMBLEA CON MONTANARI INTERVENTO DI FELICE BESOSTRI Questa assemblea si annuncia interessante se il confronto tra diverse ipotesi di mi aggregazione della sinistra-e non solo- cominceranno ad affrontarsi sui progetti: la parola programmi è insufficiente e dopo il programma dell’Unione del 2006 mi irrita e penso che non sia di buon augurio. Per non ripetere esperienze negative bisogna trovare un accordo autentico su 10 max 15 elementi essenziali di natura sistemica e strutturale, piuttosto che trovare un’intesa su un coacervo di proposte in cui ciascuno abbia quella che gli piace di più per giustificare che ci si presenti uniti al corpo elettorale pur rimanendo divisi mentalmente. Il buon Ciu enlai diceva di Stati Uniti e Urss, che anche se si dorme nello stesso letto si possono fare sogni diversi. Noi dovremo cercare di stare svegli. I problemi sono complessi e le difficoltà molte, nma pensiamo positivo perché fino all’alba del 4 dicembre non esisteva neppure l’idea di costruire una lista unica, che fosse preludio della costruzione di una nuova formazione. Gli elettori ignoti che hanno vinto il referendum hanno creato l’occasione politica di poter scommettere su un impegno dei cittadini e delle cittadine italiani, ma non sarebbe bastato se la Corte Costituzionale alla fine gennaio di quest’anno non avesse colpito ak cuore l’Italikum annullando un premo di maggioranza di 340 seggi attribuito comunque ad una delle due liste più votate al primo turno senza alcun riguardo al numero di votanti e della percentuale singola o complessiva delle due liste. Non dimentichiamo che le opposizioni avrebbero dividersi quel che rimaneva detratti i 340 seggi, il 12 uninominali del trentino Alto Adige della val d’Aosta e i 12 della circoscrizione estero, che il f referendum ha mostrato quanto sia manipolabile: 364 seggi in totale: un 3% di 266 seggi sono 8 seggi, mentre idi 630 sono 19. Scusate la brutalità ma la legge elettorale condiziona la possibilità d essere rieletti, una motivazione molto forte per i gruppi parlamentari esistenti. Se ci fosse un premio di maggioranza alle coalizioni, se ne è parlato e se ne parlerà. Su questo dovrà esserci un’ accordo chiaro perchè ha implicazioni politiche: dobbiamo essere contrari non perché siamo contro le coalizioni, ma perché siamo contro i premi di maggioranza, che alterano la rappresentanza e dopo 20 anni di leggi maggioritarie a cominciare dal mattarellum fino a quelle iuper maggioritarie incostituzionali del Porcellum e dell’Italikum abbiamo bisogno di votare almeno una volta con una legge proporzionale, che avrà i suoi difetti ma èp un momento di trasparenza e di verità di cui il popolo italiano ha bisogno. Altro punto è l’eliminazione dell’art. 81 dalla Costituzione, pe come è stato approvato e per quel che significa di subordinazione ale politriche dettte dal capitalismo finanziario, ma guai a non tendere ad un equilibrio di bilancio e ridurre il deficit di parte corrente è necessario per fare investimenti ed aumentare la spesa sociali, perché uil diritto alla salute e all’istruzione, per fare un esempio sono iritti fondamentali non soggetti allaer disponbiòlità finanziarie del bilcio dello stato finchè non saranno progresivamente tassati tutti i redditi e i patrimoni colpendo l’evaione e l’elusione fisacle e l’economia sommersa e criminale. Questo richie de non si facciano elenchi di spese senza indicare la loro copertura come richiedeva il vecchio art. 81 Cost. Parafrasando madame Rolland unità quanti delitti in tuo nome, cominciando da querlle forzate nel secondo dopoguerra nei paesi dell’Europa orientale per arrivare a quelle burocratiche come l’Arcobaleno, tra l’altro rese possibili proprio dall’accettazione di fatto delle liste bloccate dichiarate poi incostituzionali. L’appello all’Unità non basta per conquistare consensi, per di più se l si limita all’unità della sinistra un termine generico, che al più indica una posizione ma non dove si voglia andare insieme, dobbiamo dare un contenuto che è il progetto di società di cui parlavo all’inizio. A questa sinistra occorre un aggettivo o forse più se la vogliamo larga e plurale , l’unico da esclude è l’aggettivo sinistra una sinistra sinistra qualunque sia l’ordine di sostantivo e aggettivo è inquietante. Una sinistra alternativa, anticapitalista, laica, democratica, civica vanno tutte bene, purché non ci si dimentichi dei filoni ideali stori e percò un sinistra socialista, comunista e libertaria. L’importante che l’attuazione della Costituzione e la lotta alle diseguaglianze siano gli impegni prioritari. Se il compito è attuare la Costituizione non si può partire solo dalle alleanze per diferderla allora bastava un NO per unire ora dobbiamo trovare un SI’ alla misure necessarie per la sua attuazione. Dobbiamo evitare di votare con queste soglie differenziate del 3% alla Camera e 8% al Senato, ma dobbiamo agire come se ci fossero al momento delle elezioni Per tanto è chiaro che non c’è spazio per due liste, che tra l’altro sarebbero la negazione dell’obiettivo di tentare di dar vita ad un’unica formazione nella prossima legislatura. Le ultime elezioni amministrative hanno dimostrato la crisi del sistem elettorale comunale finora tropo osannato. . Un annuncio i legali antiitalikum depositeranno a breve un ricorso per èp poirtare in Corte Costituzionale anche quella legge È vero un fatto che i comuni da culla e palestra di democrazia son diventati l’incubatrce dell’incubo dell’uomo solo al comando. Non è un caso che il nostro Renzi sia un prodotto di quel sistema da Presidente di Provicia e Sindaco di Firenze.

martedì 18 luglio 2017

A Milano l’ “occasione storica” degli Scali ferroviari è stata finalmente colta: da FS Sistemi urbani! - Eddyburg.it

A Milano l’ “occasione storica” degli Scali ferroviari è stata finalmente colta: da FS Sistemi urbani! - Eddyburg.it

La riqualificazione degli scali ferroviari milanesi - Pandora Pandora

La riqualificazione degli scali ferroviari milanesi - Pandora Pandora

Luciano Belli Paci: Odio verso Renzi

Per quelli che non leggono Repubblica, allego una mia letterina uscita oggi. Questo era il testo integrale: Caro Dott. Augias, il prof. Recalcati si lascia trascinare dalla deformazione professionale, utilizzando categorie psicanalitiche e morali per descrivere i motivi dell’ostilità a Renzi. Le cose sono assai più semplici. Su molti punti qualificanti - come lavoro, scuola, Imu, introduzione de facto di un “premierato forte” - Renzi non ha fatto altro che attuare, nella sostanza, il programma di Berlusconi (rivendicandolo pure: “ma lui non l’ha realizzato”). E non l’ha fatto perché costretto da uno stato di necessità, ma con esaltata dedizione emulativa. C’è mancato poco che rimettesse in cantiere anche il ponte sullo Stretto. Un elettore di sinistra non vuole queste cose, e soprattutto si irrita da morire quando vengono fatte anche con il suo voto ed in suo nome. Non c’è bisogno di essere veterocomunisti, come Recalcati insinua: anche i socialdemocratici come me, nel loro piccolo, si arrabbiano. Un caro saluto. Luciano Belli Paci Milano

Paolo Bagnoli: Fascismo perenne

Da "Non mollare" la biscondola fascismo perenne paolo bagnoli Il fascismo come regime è stato sconfitto il 25 aprile 1945; il fascismo come cultura e mentalità non ancora. Le sue radici non sono state estirpate dal ventre profondo della società italiana. Periodicamente esso si ripresenta, appunto, come cultura, mentalità e pure comportamenti, sulla scena politica. In una fase di sfarinamento e di fragilità politica quale quella in cui siamo immersi da molti, troppi, anni, il fenomeno è sempre più frequente. Infatti, tanto più debole è la politica democratica, tanto più gli spazi per la sua presenza si ampliano. Gli esempi, purtroppo, abbondano. Ciò fa ritenere che l’etica antifascista che sta alla base della Repubblica abbia, anch’essa, risentito degli scossoni politici e istituzionali del nostro scombinato sistema. Oggi sono soprattutto i 5Stelle il movimento che meglio, e più significativamente, incarna tale tendenza; la Lega fa opera di comparaggio nella speranza di condividervi il governo del Paese. Vengono i brividi al pensiero di un’Italia con il governo nelle loro mani. Tutto può, tuttavia, succedere visto l’insieme dello scenario politico oramai alle soglie delle elezioni legislative. L’arrivo alla Camera della legge Fiano – approfittiamo per dare la nostra convinta solidarietà al deputato democratico squadristicamente insultato dall’on.Corsaro, del gruppo fittiano, in quanto ebreo: un episodio che conferma quanto l’antisemitismo sia anch’esso all’opera; una realtà di cui si parla poco, troppo poco - ha scatenato la protesta dei leghisti e dei grillini che l’hanno definita addirittura liberticida. Dopo la legge Scelba del 1952 che attua la XII disposizione finale della Costituzione che vieta la riorganizzazione del partito fascista; dopo la legge Mancino del 1993 che punisce le azioni e gli slogan legati all’ideologia fascista e che hanno per scopo l’incitazione alla violenza e alla discriminazione per motivi razziali, etnici, religiosi o nazionali, è arrivata la proposta di legge Fiano che punisce la propaganda del regime fascista e nazifascista sia attraverso immagini o contenuti di cui vieta sia la produzione che la vendita. Inoltre, essa vieta espressamente il saluto romano come l’ostentazione pubblica di simboli, istituendo l’aggravante per la propaganda fatta su internet. Renato Brunetta, capogruppo berlusconiano alla Camera, non ha perso occasione di gettarsi nella mischia con una ragionamento modello Comitati Civici di Luigi Gedda: «A questo punto – ha detto –istituiamo il reato di apologia di comunismo». L’Italia, tra le tante cose di cui preoccuparsi, registra anche un tale livello di dibattito, se così si può dire, tanto per restare nei recinto della buona educazione. Il Movimento 5Stelle ha confermato di essere il soggetto della nuova destra, ben più insidiosa di quella tradizionale che conosciamo, poiché, secondo un canone oramai consolidato da molto, ma molto tempo, esso si presenta come post-ideologico, né di destra né di sinistra, rottamatore della democrazia costituzionale e di quanto resta e del suo stesso concetto. Quindi, anche dell’antifascismo, che costituisce l’impianto storico-valoriale della nostra Repubblica e della nostra democrazia. Ora si capisce bene come tra i “maggiori” del movimento si sia stato messo pure Giorgio Almirante la cui figura ha goduto di una riabilitazione a tutti gli effetti. Si capiscono i subitanei complimenti di Beppe Grillo. Ma ciò che fa notizia, sono i complimenti di Casa Pound. Eccola la notizia. Il baco che si annida nel grillismo è stato riportato, nell’occasione, alla luce. Il superamento del fascismo e dell’antifascismo era già,in un libro, teorizzato da Alessandro Di Battista; Luigi Di Maio aveva dichiarato che nel movimento ci sono coloro che si rifanno a Berlinguer, nonché quelli che si rifanno ad Almirante e pure alla DC traducendo, in confuso giudizio, quello che dovrebbe essere il dato ideologico postideologico del gruppo. Inoltre. La deputata romana Roberta Lombardi aveva tessuto le lodi del primo fascismo: «Prima che degenerasse aveva un altissimo senso dello Stato». Ogni commento è superfluo. Sarebbe tempo perso addentrarci in una qualche spiegazione sul da dove sia iniziata la degenerazione di una degenerazione e, quindi, lasciamo perdere. Ci viene, però, alla mente 5 nonmollare quindicinale post azionista | 003 | 17 luglio 2017 _______________________________________________________________________________________ Gaetano Salvemini. A quanti sostenevano che con il fascismo i treni arrivavano in orario, rispondeva che, anche in Svizzera, i treni erano puntuali, eppure quel Paese non aveva bisogno di una dittatore. Lo sbrandellato Partito democratico e il confuso campo alla sua sinistra sul quale sembra che, alla fine, Romano Prodi pianterà la sua tenda, dormono sogni agitati al solo pensiero che i 5Stelle vincano la prossima competizione elettorale. Ci domandiamo: ma se alla mitologia del centro-sinistra, alla vocazione maggioritaria, alle giurate lotte ac perinde cadavere, alle innumerevoli fole che hanno trasformato i cosiddetti leader in tanti piazzisti della politica, indipendentemente dal fatto che vadano o non vadano d’accordo, venisse rilanciata un’opa repubblicana sulla democrazia italiana, non sarebbe una cosa buona e giusta? Forse poniamo un problema semplicistico per un Paese che continua a dimostrare difficoltà praticamente insormontabili proprio nell’affrontare le questioni che, essendo semplici, non per questo sono di minore o temporanea importanza.

domenica 16 luglio 2017

In Castiglia il Psoe apre al governo con Podemos

In Castiglia il Psoe apre al governo con Podemos

Franco Astengo: un contributo alla riflessione

UN CONTRIBUTO ALLA RIFLESSIONE Il testo che segue, suddiviso in tre capitoli riguardanti il rapporto tra l’etica e l’estetica; l’autonomia del politico e la necessità di aggiornamento della teoria delle fratture rappresenta un contributo, assolutamente non all’altezza delle esigenze di riflessione teorica che si imporrebbero in questa fase, al rilancio di un dibattito di fondo sul tema della costruzione di una nuova soggettività della sinistra italiana. Dibattito che si impone abbandonando la pericolosissima strada dei discorsi sulle leadership vere o presunte, sulla “governabilità” e le liste elettorali: ci troviamo in una situazione molto più difficile, complicata, arretrata per permetterci di questa divagazioni soltanto apparentemente concrete. Grazie per la pazienza e l’attenzione Franco Astengo ETICA, ESTETICA: LO STRIDERE DELLE CONTRADDIZIONI Le vicende interne al magma che si sta agitando attorno alla varietà di progetti attraverso i quali si intende tentare di ricostruire la sinistra italiana appaiono, almeno dell’esterno, contrassegnate da una ricerca dell’estetica che prevale su quella – essenziale- riguardante i fattori etici che dovrebbero invece presiedere a questa ipotetica ricostruzione. In questo lavoro che appare tutto raccolto attorno al nodo: governabilità versus rappresentanza pare non si riesca a porre la domanda principale: se cioè, al centro del dibattito teorico non ci sia ormai il dilemma tra la “contraddizione post-moderna” dell’esaurimento dei margini del dominio del genere umano sulla natura oppure permanga la centralità di quella che è stata definita “contraddizione principale” riguardante lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo (quella contraddizione principale verso la quale alla fine è stata sempre stato assunto il limite della “compatibilità del sistema”). E come la risoluzione della prima (dando per scontato il superamento del “classico” schema elaborato da Stein Rokkan) non stesse dentro la risoluzione della seconda, con il superamento del capitalismo e la trasformazione del modo e delle finalità del produrre: da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni. Non si è ancora riusciti ad addentrare il dibattito nella ricerca dei meccanismi possibili d’intreccio tra le due contraddizioni da realizzarsi attraverso la “politica”. Fino a questo punto sono state analizzate tutte le distorsioni della politica fattasi potere e da potere a dominio nella sua forma più evidente: lo Stato. L’analisi ha così riguardato le varie forme di dominio fattesi Stato attraverso l’azione politica e con grande vigore, è stata criticata, giudicandone impossibile una qualche riedizione, l’inveramento statuale realizzato attraverso alcuni fraintendimenti novecenteschi dell’etica marxiana: quello che è stato, tanto per intenderci al meglio, il cosiddetto “socialismo reale”. Una critica molto più netta, è il caso di sottolineare, di quella che ha investito, nell’occasione, i cosiddetti regimi liberal-democratici, con le loro deviazioni colonialiste, razziste, totalitarie. Agli autori di quei “fraintendimenti dell’etica marxiana” che hanno dato origine agli inveramenti statuali del ‘900 forse il rimprovero più severo che, forse inconsciamente, (recuperando tra l’altro, termini ormai del tutto desueti come “capitalismo di stato”) possa essere rivolto è ancora del “tradimento dell’Utopia”. Dimenticando che U-topos significa “luogo che non c’è”. Se non c’è, però è soltanto perché non lo si è trovato e, dunque, bisognerebbe continuare a cercarlo, senza far sfoggio di ottimismo ma anche al di fuori dal ripiegamento da un pessimismo passivo. Se si riuscisse a fare sul serio questa discussione l’esito, preso atto delle grandi difficoltà di espressione delle grandi ideologie che hanno caratterizzato ‘800 e ‘900, potrebbe portarci a riflettere su alcune categorie probabilmente non analizzate a sufficienza, fin qui, esaminando – appunto – la materialità del crollo di molte parti dell’ “involucro politico” dentro al quale abbiamo vissuto le nostre esistenze di militanti. “L’agire politico”, ben oltre le regole dettate dalla politologia ufficiale, appare ancora stretto nel confronto tra l’etica e l’estetica. Da un lato il rapporto tra l’estetica e la politica, che appare oggi – almeno nell’Occidente capitalistico sviluppato – quello prevalente anche in relazione allo sviluppo di una certa innovazione tecnologica destinata a stravolgere l’utilizzo dei mezzi di comunicazione. L’estetica intesa come “visibilità” del fenomeno politico portato nella dimensione pubblica”. Meglio ancora, nell’esercizio di riti collettivi e consensuali portati alla mostra della scena pubblica. La prospettiva è quella della teatralità della scena politica e il ruolo di “attori” degli agenti politici. Si valorizza l’aspetto ludico del politico, nel senso del non utilitaristico, l’agire comunicativo in luogo di quello strategico. Una “forma del politico” armoniosa e composta nella cornice da un conflitto al più agonistico: laddove anche la più stridente contraddizione rimane “sovrastruttura” e il pubblico può essere oggetto soltanto di un processo di gigantesca “rivoluzione passiva” (altri più pratici scriverebbero: le pecore al pascolo). Un’estetica il cui obiettivo è quello dell’anestetizzazione del “dolore sociale”. Il confronto, però, a questo punto non può davvero che essere tra l’estetica e l’etica: l’etica intesa come il termine che designa le regole della condotta umana relativamente alla sfera del dovere, di ciò che è giusto/lecito fare, contrapposto a ciò che è ingiusto e/o illecito. E’ soltanto l’etica che può consentire di guardare alla politica attraverso un costante confronto critico. La nostra tradizione ci dice , però, che i rapporti tra etica e politica non sono necessariamente conflittuali, perché l’etica può ricevere una incarnazione teorica nello Stato (Hegel) o nella classe oggettivamente rivoluzionaria (Marx): nelle forme, cioè, che apparivano mature nel divenire storico. Come abbiamo visto, seguendo anche il dibattito tra quei militanti in quella lontana periferia dell’impero, l’esito del ‘900 ha dimostrato che il nodo teorico non è stato risolto. Un nodo che riguarda ancora la dimensione etica degli scopi del “governo”, poiché proprio l’esito del ‘900 ha posto il problema di verificare fin dove potesse spingersi l’azione di un governo che volesse salvaguardare non solo i diritti negativi (di non interferenza: si può fare tutto quello che non è vietato) dei cittadini, ma anche i diritti positivi, ossia l’estensione a fasce sempre più vaste della popolazione dei diritti di tutela sociale, salute, istruzione, assistenza, fino all’eguaglianza nell’accesso alle risorse disponibili (salvo il grande interrogativo orwelliano, sugli alcuni più eguali degli altri). L’interrogativo sarebbe questo: chi espande e tutela i diritti della natura, già così fortemente compromessi dall’antropizzazione esasperata? Come questi diritti della natura possono intrecciarsi, o restare irrimediabilmente conflittuali, con quelli della tensione all’eguaglianza e alla fine dello sfruttamento umano? Come può la politica trasformare questi interrogativi in una nuova “incarnazione storica”? Le risposte non possono star dentro al vecchio recinto della ricerca sulla priorità delle contraddizioni ma nella ripresa del confronto tra etica ed estetica. Ricostruire, perché è il caso di ricostruire, l’idea dell’etica pubblica, dell’idea portante che vi siano dei criteri morali cui l’azione pubblica, l’agire politico, che riguarda la conduzione della vita dei cittadini dovrebbe ispirarsi. Beninteso, ispirarsi non a ideali generici, ma ad un “progetto di società” che riguarda il rinnovato rivolgersi all’Utopia da ricercarsi attraverso il conflitto, inteso come solo veicolo per l’avanzamento delle idee sulle quali fondare l’identità dei soggetti destinati a tramutarli in azione. Una riconnessione in sostanza tra principi ispiratori e pratica corrente: ciò che oggi sembra proprio essere venuto a mancare anche nelle stesse proposizioni di una filosofia politica unicamente legata all’estetica di cui la “governabilità” è l’espressione più rassicurante per chi esercita “l’autonomia del politico”. LA QUESTIONE DELL’AUTONOMIA DEL POLITICO di Franco Astengo Risalta il ritorno del dibattito sul concetto di “autonomia del politico” in una fase apparentemente dominata dal prevalere della tecnica e dell’assunzione della funzione politica esclusivamente come fatto amministrativo di “gestione” del presente mediandone gli elementi oggettivi di funzione nella sopraffazione di massa con il ritorno alla democrazia diretta e al dialogo tra il Capo e la Masse. La semplificazione costituzionale tentata proprio per realizzare operativamente questo predominio appare come un vero e proprio punto d’arrivo di questa fase: l’ha invocata J.P. Morgan, l’ha tentata vanamente il PD italiano, sembrano essere riusciti nell’intento almeno provvisoriamente Macron e Trump. Come può essere contrastato questo disegno e quali sono gli elementi da mettere in campo come alternativi? Dal nostro punto di vista Il problema è pur sempre quello gramsciano della conquista dell’egemonia politica. Si tratta di riuscire ad esprimere, come a suo modo già sapeva Gramsci, l’antagonismo della classe dentro e contro il capitale, C’è bisogno, a questo punto, di uscire fuori dal rapporto di produzione capitalistico, di natura esclusivamente economica e quindi oggettivamente subalterno alla tecnica e quindi controllabile e gestibile dalla posizione dominante del capitale. Affinché ci sia politica, la classe deve andare contro se stessa, contro la sua stessa natura economica: «È propriamente la separazione della classe operaia da se stessa, dal lavoro, e quindi dal capitale. È la separazione della forza politica dalla categoria economica». E deve rendersi autonoma: «Una separata autonomia politica dei movimenti di classe delle due parti è tuttora il punto di partenza da imporre alla lotta: di qui, di nuovo, tutti i problemi di organizzazione della parte subalterna. Lo sforzo del capitale è di chiudere entro la relazione economica il momento dell’antagonismo, incorporando –come è già in larga parte accaduto - il rapporto di classe nel rapporto capitalistico, come suo oggetto sociale. Lo sforzo di parte operaia deve all’opposto tendere continuamente a spezzare proprio la forma economica dell’antagonismo». Il problema politico diventa discriminante per portare l’antagonismo nella società. L’autonomia del politico deve agire in modo da superare, nel concetto teorico e nella pratica di movimento e di organizzazione il rapporto economico che lega alle masse al capitale facendo s’ che esse non si trasformino immediatamente un soggetto politico. E’ questo il punto della corrispondenza di un’organizzazione politica dove possa aver luogo la soggettivazione dell’agire politico senza neutralizzarne – come popolo – la peculiarità dell’antagonismo. Qual è dunque il nodo che ci troviamo di fronte e che deve essere affrontato rinnovando l’intreccio autonomia / egemonia Quello dell’ “l’economics” al posto della “policy”. Ne risulta così completamente spiazzato il concetto di “autonomia del politico” che aveva egemonizzato, almeno a partire dagli anni’80 del XX secolo, qualsiasi prospettiva teorica riguardante l’azione politica e di governo della società, accompagnando – appunto – il ciclo liberista con il compito, anteposta la funzione di “governabilità” a quella di “rappresentanza”, di sfoltire la domanda sociale, riducendone al minimo il rapporto proprio con la politica, ridotta al ruolo dello Stato, sulla linea del funzionalismo strutturale di Luhmann. Una vittoria piena, all’apparenza, della riflessione di Heidegger sull’essenza della tecnica e di naturale conseguenza dell’economia. Una sconfitta, altrettanto piena, per chi pensava di costruire un’ipotesi diversa, attraverso una strategia di “contenimento” del prevalere dell’economia sulla politica, dimenticando la lezione di Hilferding sul prevalere del fenomeno della finanziarizzazione che è quello che sta alla base dello stato di cose in atto, come qui si è cercato di descrivere. Siamo di fronte sul piano politico alla creazione di una nuova oligarchia, indifferente alla realtà democratica e alle istanze sociali. Come può essere possibile contrastare questa egemonia, attraverso la quale sul piano concreto si sta cercando di porre quasi “al di fuori dalla storia” milioni di persone considerate semplicemente come oggetti da sfruttare esclusivamente in funzione della creazione e dell’appropriazione del plusvalore ? Non sarà sufficiente riproporre la realtà di un’organizzazione politica degli “sfruttati” posta al di fuori e “contro” la realtà dell’unificazione tra economia e politica: una realtà di organizzazione politica della quale, comunque, si sono smarrite le coordinate nel corso di questi anni. Riprendendo Claudio Napoleoni nel suo “Discorso sull’economia politica” (Bollati Boringhieri 1985) l’obiettivo dovrebbe essere quello di riguadagnare tutta intera la dimensione politica dell’economia rovesciando completamente l’impostazione oggi egemone. Per avviare, però, un processo di costruzione di una soggettività politica posta in grado di porsi, nel tempo, questo tipo di obiettivo è necessario tornare a introdurre, nel rapporto tra il contesto sociale e quello politico, il principio di “contraddizione sistemica”, in una visione di “distinzione – opposizione” che non riguardi soltanto le finalità, per così dire, “ultime” nella prospettiva di costruzione di una società diversa, ma nell’immediato la ricostruzione di un principio di dialettica politica. Una dialettica politica non annullata dall’egemonia dominante, ma che, anzi, pur nella scansione obiettiva di finalità limitate all’interno di successivi passaggi di transizione, si risulti in grado di proporre un diverso, alternativo, edificio sociale. In questi anni le forze della sinistra hanno finito con l’acconciarsi al ribadimento della catastrofe, senza riuscire in qualche modo ad allontanarla: se si pensa che sia ancora possibile, invece, un movimento di liberazione da quella stessa catastrofe che stiamo vivendo allora bisogna porsi, ancora, il tema del guardare in modo diverso al rapporto tra l’uomo e il mondo rispetto a quello stabilito, e apparentemente obbligato, dalla triade sfruttamento- appropriazione – dominazione. DAL CONFRONTO TRA L’ETICA E L’ESTETICA E LA CONQUISTATA PREVALENZA DELL’AUTONOMIA DEL POLITICO: TEORIA DELLA FRATTURE L’intervento conclusivo riguarda l’eventualità di fornire un contributo, sia pure limitato, alla riflessione generale partendo da almeno due considerazioni critiche: la prima riguarda il fatto che un partito da solo non possa bastare a rendere la complessità del rapporto tra movimenti, società, politica nell’ottica della trasformazione sociale. Pare ormai accantonato, sotto quest’aspetto, il concetto di egemonia dell’agire politico e quello del ruolo della struttura politica quale riferimento anche sociale, di vera e propria “espressione di comunità”: sembra proprio che ci si arresi alla reciproca autonomia, quella del “politico” e quella del “sociale. Con tutto quello che è accaduto di degenerativo sul terreno dell’autonomia del politico, a partire dall’esaltazione inconsulta del personalismo che, a sinistra, ha compiuto disastri facendo smarrire il senso dell’identità collettiva e della capacità di rappresentanza. L’altro punto riguarda la necessità, a mio giudizio almeno, rispetto al “caso italiano” (che esiste, sia pure in forma direttamente rovesciata rispetto a quello che era stato fino agli anni’80: siamo passati, insomma, da avanguardia a retroguardia, tanto per semplificare), di sciogliere i soggetti esistenti e di far ripartire un processo aggregativo nuovo e diverso basato su due punti fondamentali: quello dell’opposizione “sistematica” e quella di una forma della struttura politica che, a questo punto, per far presto definisco della “via consiliare”. E’ necessario richiamare la brutta vicenda della “Sinistra Arcobaleno” e della sudditanza alle logiche politiciste che ne sono derivate: soprattutto quella della marginalità e irrilevanza di tutti i soggetti che ne sono seguiti per via di diaspora, rispetto al cuore dello scontro e che tali rimarranno nel tempo. Non certo per un deficit di “estremismo oppositivo” sia ben chiaro ma perché entrambi non rispondono più a contribuire a risolvere l’interrogativo che, tempo fa, sulle colonne di “Sbilanciamoci” poneva Paolo Gerbaudo : “Unire la sinistra o costruire il popolo”. C’è , invece, da costruire la soggettività che unisca il popolo. Per questo motivo la mia proposta è quella di ripartire da un punto di riflessione teorica che appare necessario esplorare. Provo a procedere con ordine. La proposta che si sta tentando da tempo di avanzare per la formazione di una nuova soggettività politica della sinistra italiana ha necessità di essere motivata andando “oltre”, per quanto possibile, alle pur evidenti ragioni legate al fallimento dei soggetti esistenti, risultati incapaci di promuovere e realizzare quel livello di presenza politica che sarebbe risultata necessaria per fronteggiare l’emergenza della controffensiva dell’avversario e il mutamento complessivo di scenario verificatosi nell’insieme del sistema politico. Queste ragioni, però, non sono sufficienti: occorre, infatti, andare alle radici del meccanismo dell’aggregazione politica, recuperandone insieme significati ed effetti aggiornandoli ai cambiamenti culturali, sociali, tecnologici, di costume verificatisi nel tempo. Gli scienziati politici, al proposito, hanno sempre usato due prospettive definite l’una come primordiale e l’altra come strumentale. La prospettiva primordiale ha visto nei partiti i rappresentanti naturali di persone che hanno interessi comuni. Con il formarsi di gruppi intorno a queste fratture d’interesse i partiti politici sono emersi e si sono evoluti proprio per rappresentarle. La visione strumentale della formazione dei partiti li considera, invece, squadre di persone interessate a ottenere cariche pubbliche: questo tipo di visione è stato così focalizzato sul ruolo delle élite e dei cosiddetti “imprenditori politici”. Queste due prospettive della formazione dei partiti ricordano da vicino quelli che gli economisti chiamerebbero fattori della domanda e fattori dell’offerta. La prospettiva primordiale dà per scontata la domanda sociale di rappresentazione di determinati interessi e spiega l’esistenza dei partiti politici come risposta a queste istanze. Per contro, la prospettiva strumentale, sulla falsariga della “legge di Say” in economia, afferma che “l’offerta crea una sua domanda”. Così come il marketing e la pubblicità possono influenzare i gusti dei consumatori, gli imprenditori politici (come abbiamo ben visto, in particolare, nell’ultima fase storica) contribuiscono a creare la domanda di determinate politiche e di determinate ideologie. Come avviene per l’offerta e per la domanda, si scopre che capire le origini dei partiti politici significa riconoscere l’interazione tra le forze primordiali e delle forze strumentali. In larga misura sono state le domande sociali di rappresentazione a ispirare la formazione dei partiti politici. Queste domande, tuttavia, sono state incanalate con modalità efficaci e significative da istituzioni politiche che hanno strutturato l’ambiente degli aspiranti imprenditori politici e degli elettori. Si tratta quindi di analizzare com’è avvenuta, e come può avvenire nel futuro, l’interazione tra le forze sociali (primordiali) e le forze istituzionali (strumentali) per determinare le possibili identità delle formazioni politiche. Prestando attenzione a un punto fondamentale: la funzione principale del partito politico rimane quella di rappresentare, formulare e promuovere gli interessi e le cause dei suoi appartenenti. Con buona pace delle proclamazioni relative al “superamento dei concetti di destra e di sinistra” questi interessi e questa cause, al di là della retorica, sono sempre condivisi, per loro stessa natura, solo da una parte della popolazione complessiva. Per questo motivo la classificazione “classica” delle diversità tra i partiti politici si è sempre realizzata usando quella che è stata definita “teoria delle fratture”, via via attualizzata nel tempo con il mutare delle condizioni culturali, sociali, tecnologiche. Quella “teoria delle fratture” che si chiede oggi di aggiornare alla luce di quanto avvenuto negli ultimi tempi. E’ evidente, in questo, che il riferimento non è soltanto semplicisticamente al sistema politico italiano, ma è a questo che dal nostro punto di vista ci rivolgiamo per inserire la nostra proposta di nuova soggettività politica della sinistra d’alternativa e di opposizione: questo intervento è dunque rivolto a promuovere questa precisa eventualità. Il più importante aggiornamento nella “teoria delle fratture” è avvenuto nel 1967 per opera di Lipset e Rokkan, attraverso la divisione tra “fratture post-industriali” e la “frattura di classe” che aveva assunto assoluta rilevanza durante la rivoluzione industriale alla fine del XIX secolo. Con la “frattura di classe” gli attori sociali si contrappongono in base a interessi economici divergenti provocando un conflitto di tipo “verticale” tra attori che si guadagnano da vivere con il proprio lavoro e attori che si guadagnano da vivere attraverso lo sfruttamento della proprietà o del capitale. La definizione più netta e precisa della “frattura di classe” è sicuramente quella di Karl Marx contenuta nel testo “La povertà della filosofia” del 1847 “gli individui fanno parte di una classe in sé in virtù della relazione obiettiva che intrattengono con i mezzi di produzione”. Si può dire che per gran parte del XX secolo la “frattura di classe” abbia rappresentato un punto di riferimento stabile nelle dinamiche dei diversi sistemi politici, anche oltre le differenziazioni teoriche e ideologiche e del formarsi di “ceti politici” di tipo professionale che, alla fine, hanno potuto perseguire obiettivi distinti da quelli della classe che intendevano rappresentare, come ben descritto da Michels nella sua elaborazione circa “la legge ferrea dell’oligarchia” e nelle analisi sulla politica come professione elaborate da Max Weber. Era così emersa un’ipotesi di “congelamento” delle fratture esistenti anche per spiegare perché i partiti politici che dominavano le elezioni negli anni’60 del XX secolo erano gli stessi partiti che avevano dominato le elezioni decenni prima, negli anni’20 o ’30 ed egualmente per spiegare l’accumulo di consenso realizzato, comunque, dai partiti al potere nei regimi dell’Est europeo a cosiddetta “rivoluzione avvenuta” o di “socialismo reale”. L’ipotesi del “congelamento” viene messa in discussione a partire dalla fine degli anni’80 con l’emergere di nuovi fenomeni sociali quali quelli dell’ambientalismo, del femminismo, dell’immigrazione al punto che Inglehart nel 1997 afferma come si sia di fronte a un mutamento di valori all’interno delle società industriali avanzate, passando da valori “materialisti” a valori “post materialisti”. Da allora si è assistito ad un declino nella rilevanza delle fratture più tradizionali e all’emergere appunto di una non meglio definita frattura “post-materialista”, in quadro di generale richiesta di espansione della libertà umana. A questo punto è facile individuare, sotto questo profilo, le ragioni teoriche di ciò che è accaduto nell’ultimo decennio del secolo scorso rispetto allo sconvolgimento di sistemi politici consolidati, alla caduta dei regimi dell’Est europeo, al mutamento complessivo di paradigma nella natura dei partiti politici con il rovesciarsi del rapporto tra gli interessi dei ceti politici professionalizzati (governabilità, personalizzazione) e quelli dei rappresentati in nome delle “fratture sociali” persistenti. Nel frattempo si è realizzato un altro rovesciamento “storico” sul piano della comunicazione di massa e del rapporto tra questo e il consumo individuale: una novità fondamentale che ha dato vita al fenomeno della cosiddetta “globalizzazione”, esplosa in particolare nella prima parte di questo decennio del X XI secolo. Su questa base si sono verificati due fenomeni di portata assolutamente epocale: quello del passaggio da un’idea del collettivo sociale all’individualismo di massa (sulla base del quale la democrazia ha assunto le vesti della cosiddetta “democrazia del pubblico”) e dello smarrimento da parte dei partiti politici dell’idea della rappresentanza. Due fenomeni che hanno determinato il formarsi di nuove élite e di nuovi intrecci tra economia e politica al fine di determinare livelli diversi da quelli della governabilità democratica novecentesca. Si stanno così affermando nuovi modelli di governabilità autoritaria in economia come in politica e su questa base, è stato attuato, il tentativo della sola superpotenza rimasta in campo per un lungo periodo di “esportazione della democrazia” attraverso la guerra. All’interno di questo quadro, sommariamente descritto, l’opposizione è stata affidata, in generale e a prescindere dalla diversa qualità e composizione dei sistemi politici, alla protesta movimentista, all’idea che le “moltitudini” potessero provocare con i loro sommovimenti un mutamento di equilibri, spostando, sul piano teorico, la realtà della “frattura di classe” verso una ricerca di richiesta di restituzione di non meglio precisati “beni comuni”, intesi soprattutto come valori ambientali e di disponibilità essenziali per la vita umana. Mentre questo quadro sta mutando e la globalizzazione sembra essersi arrestata tornando d’imperio sulla scena del mondo il primato della geopolitica e la contrapposizione a livello planetario non si è riusciti ad invertire la tendenza proprio nel definire un aggiornamento teorico relativo proprio alla realtà delle “fratture” esistenti, sulla base del quale riaggregare primordialmente interessi specifici. Sembrano tre le grandi questioni sul tappeto:1) quello del rapporto tra consumo del pianeta in termini complessivi di suolo e di risorse e la prospettiva di vivibilità del genere umano ;2) quella della capacità cognitiva, in termini globali di formazione, informazione, capacità di trasmissione di notizie e cultura (e quindi di educazione globale) come sta accadendo sia nell’utilizzo delle nuove tecnologie, sia nel ritorno a pericolosissimi fondamentalismi posti non tanto e non solo sul piano bellico ma – addirittura – su quello “storico”, capaci ciò di informare un’intera epoca futura ottundendo la complessità delle contraddizioni 3) quella della contraddizione di genere nel senso della mancata risoluzione del dato di modernità caratterizzata dalla supremazia dell’ordine da produrre unico, certo, patriarcale, autoritario. I movimenti femministi sono i primi a denunciare la falsità di questo ordine precostituito. Il potere patriarcale ha fondato la pretesa di universalità sull’esclusione di tutti quei soggetti “altri” che non corrispondono all’ideale maschio –etero –borghese -bianco: ma questo tema è stato sollevato ma ancora non solo non è stato posto in via di risoluzione ma neppure collocato nell’ordine dei cleavages da affrontare. Sono questi i punti di riflessione sui quali soffermarsi: nel momento in cui appare necessario muoversi sul terreno di una nuova dimensione collettiva dell’agire politico da strutturare organizzativamente qui ed ora dove ci troviamo concretamente, come riuscire a far sì che il contesto di interessi che legano la classe che s’intende rappresentare a questo tipo di fenomeni appena descritti assuma una veste politica definita, sia sul piano teorico di riferimento sia rispetto ad un progetto di radicale trasformazione sociale e politica. A questo punto appare indispensabile lavorare su di un aggiornamento della “teoria delle fratture” del livello di quello che appunto fu elaborato al momento della comparsa dell’insostituibile e comunque fondamentale “frattura di classe”. “Frattura di classe” che, oggi, nell’esplicitarsi della ferocia della gestione del ciclo capitalistico, trova un suo rafforzamento e una sua capacità di inglobare l’insieme delle discriminazioni sociali (pensiamo al tema della differenza di genere) tale da renderla agente dell’insieme delle contraddizioni che “spaccano” la società moderna. Non possiamo però arrenderci a questa ineluttabilità: abbiamo bisogno di fare opposizione subito ma prefigurando la prospettiva di una società alternativa, di una trasformazione radicale dello stato di cose presenti. Per questo serve il nuovo soggetto: nuovo soggetto che non accetta la “filosofia della crisi” e il minoritarismo ma esprime, da subito, un nesso inscindibile tra autonomia ed egemonia. Questo lavoro, come posto in premessa, è stato compilato soltanto con l’intento di fornire un contributo all’ordine dei lavori individuando la necessità di procedere nella costruzione di una soggettività politica.

1997-2017. Da Treu al Jobs act, cronistoria del precipizio dei diritti - Eddyburg.it

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La parola "Sinistra" - Eddyburg.it

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venerdì 14 luglio 2017

Il nodo Pisapia divide la sinistra: «Non facciamo l’intendenza» - Eddyburg.it

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In Italia la povertà è raddoppiata in dieci anni di crisi - Eddyburg.it

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Referendum in Lombardia e Veneto: la fiera dell’inutilità | P. Balduzzi

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Veto o non veto? L’Italia di fronte al Fiscal compact* | M. Bordignon

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Claudio Bellavita: Per difendere i beni comuni: ripubblicizziamo! – MuMe

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sabato 8 luglio 2017

Franco Astengo: teoria e prassi

TEORIA E PRASSI: SI SENTE L’ASSENZA DI UNA CAPACITA’ DI RIFLESSIONE POLITICA di Franco Astengo La politica non può essere concepita soltanto come eterno scambio come è stata intesa, ad esempio, dal governo italiano allorquando con l’UE (oggi tanto vituperata) è stata barattata “l’esclusiva” italiana sugli sbarchi dei profughi nel Mediterraneo (governo Renzi 2014, missione Triton) per ottenere in cambio flessibilità sul deficit e sul debito pubblico nei successivi due anni. Adesso l’autore del pasticcio (sempre tal Matteo Renzi), sull’onda dei sondaggi, scopre addirittura il “ aiutiamoli a casa loro”, antico copyright leghista, e denuncia il fiscal compact allineandosi, anche in questo caso, alla Lega Nord che fu l’unico partito a votare contro il provvedimento in Parlamento. Siamo di fronte all’ennesimo esempio di instabilità nell’affermazione di proposizioni politiche che deriva, prima di tutta, dalla concezione esaustiva dell’acquisizione del potere e dalla totale assenza, nel sistema politico italiano, di una riflessione aggiornata sul tema del rapporto tra teoria e prassi. Si pensi a personaggi del genere alle prese con decisioni fondamentali nella storia del nostro Paese come quelle, ad esempio, che segnarono l’avvio della Resistenza e la lotta clandestina contro il nazifascismo: decisioni assunte da persone che magari avevano passato decenni nelle carceri o in esilio. La questione è comunque quella del retroterra culturale dell’agire politico. Esaminiamo allora alcuni passaggi a questo proposito. La profonda trasformazione avvenuta all'interno dei soggetti politici organizzati, sia dal punto di vista strutturale, sia sotto l'aspetto degli obiettivi dell' “agire politico” e il mutato rapporto con i movimenti sociali, propositivi di una sorta di “autorganizzazione” della rappresentanza delle nuove contraddizioni, ha lasciato un vuoto nella riflessione politica. Un vuoto, per ora non ancora riempito da nessuno, sul piano dell'analisi e della capacità di proposizione che intendiamo, ponendoci al livello dell'ispirazione teorica, di vera e propria “cultura politica”. Non riempie questo vuoto l'Università, laddove sia a livello di dibattito collettivo sia di espressione pubblicistica l'orientamento appare essere quello di seguire – piuttosto – una sorta di “modellistica” rivolta ai leader politici come da assumere secondo schema (pensiamo all'idea della “vocazione maggioritaria” che è nata, appunto, dall'adozione di uno schema non verificato assolutamente nel campo della complessa situazione politica italiana) senza riuscire a influenzare le coordinate di fondo dell'azione politica. Non riempiono questo vuoto le Fondazioni cosiddette “culturali” che, al di là della qualità della loro produzione (spesso di buon livello), si muovono sul terreno del “supporto” alle correnti interne ai partiti e, in particolare, di semplice supporto al “leader” nella dominante competizione personalistica. E' necessario riprendere, anche dal basso e in una situazione periferica, il filo di una caratteristica fondamentale che componeva (fra le altre) la realtà dei soggetti politici di massa (ricordando che non erano i numeri, pur molto diversi degli attuali, a definire una “realtà di massa”: bensì la logica che presiedeva l'organizzazione, la struttura, la capacità di svolgere una funzione effettivamente pedagogica, di forte acculturazione all'interno e all'esterno del partito): quella appunto di funzionare da “promotore di cultura politica” sotto i diversi aspetti della riflessione teorica, della conoscenza normativa, della capacità di analisi sui fatti e di costruzione dell'agenda (quest'ultimo il vero punto effettivo di potere da esercitare da parte dei soggetti organizzati, sicuramente più forte di quello, pur importante delle presenze istituzionali di rappresentanza e/o di governo). Nell’impossibilità di avanzare proposte di tipo organizzativo appare il caso però di verificare quali possono essere i campi di intervento posti proprio sul piano di una ripresa della capacità di interrogarsi su di un nuovo sistema di relazione tra la cultura e la politica. Se ne vedono almeno tre: Il primo riguarda una rivisitazione profonda dei temi della storia del pensiero politico (questa ci pare la lacuna più grave, il vuoto più grande lasciato dalla sparizione dei grandi partiti di massa e dalla loro sostituzione con gli attuali partiti – personali). Non si tratta di disporre steccati ma partendo da filoni della storia e della realtà politica della sinistra, sia internazionale, sia italiana sarà comunque necessario ridefinire una identità. Non è il caso di ricostruire qui un percorso ma sarà necessario recuperare le idee della prima modernità, il rapporto tra il soggetto e lo Stato, la “frustata” dell'illuminismo, la dialettica, il rapporto tra società e nazione. Si dovranno recuperare le domande inevase del ‘900 novecento tra il tramonto dell’inveramento delle ideologie e la trasformazione della politica, giù, giù fino alle novità rappresentate dalle contraddizioni post-materialiste, la crisi dello Stato-Nazione, il processo di globalizzazione, lo spostamento nell'asse di fondo del rapporto tra rappresentanza e governabilità, l'imporsi – a tutti i livelli – della personalizzazione. Nello stesso tempo dovranno essere recuperati i temi della scienza politica e del diritto costituzionale: le ragioni della necessità dello studio scientifico della politica, il ruolo dei parlamenti, dei governi, i partiti, i sistemi elettorali, la partecipazione politica. Tutti temi che non possono essere considerati “d’antan”, eliminati perché risolti dalla semplificazione mediatica e dalla velocizzazione delle scelte. Egualmente non si potranno trascurare gli spunti offerti dall'evolversi dell’agenda politica, non tanto e non solo dal punto di vista dell'attualità corrente, ma anche dell'analisi approfondita attorno ai temi delle nuove fratture sociali, della logica che presiede le nuove idee aggregative,all'esame delle diverse realtà associative che, come si accennava all'inizio, tendono all'autorganizzazione attorno ad un’inedita dislocazione del potere. Un’operazione tanto più importante e urgente proprio in questo momento dominato, sul piano internazionale, da quella che è stata denominato “l’età del caos” e dai pericoli di all’allargamento dei fronti di conflitto, mentre impallidisce quello che per molti fu il “riferimento europeo” e si stanno ristabilendo gerarchie planetarie sulla base di una forte spinta di ritorno conservatore com’è stato nel caso dell’elezione del nuovo Presidente degli Stati Uniti. Sul piano interno è necessario fare i conti con la fase aperta dall’esito referendario del 4 Dicembre che ha sbarrato la strada alla costruzione di un regime all’interno del quale si stava cercando di realizzare un ulteriore passaggio di svolta autoritaria attraverso il combinato disposto tra riforme costituzionali e legge elettorale. L'obiettivo di fondo dovrebbe essere quello della politica che recupera i criteri della legittimazione sociale, nell'idea di una rappresentanza quale fattore fondamentale dei processi di inclusione. Un programma, così elencato che ci fa immediatamente pensare alle nostre inadeguatezza: un programma, però, che indica un cammino. Un cammino che siamo convinti valga la pena di percorrere, non certo in forma isolata, ma costruendo interesse collettivo, capacità di dibattito, costanza di un’iniziativa tale da produrre effettivi momenti di crescita nella conoscenza, nella consapevolezza, nella realtà di una proposta rivolta verso il futuro. Soltanto così sarà possibile sviluppare la forza di una visione realistica delle contraddizioni e dei possibili sbocchi. L’auspicio dovrebbe essere quello di promuovere una “criticità diffusa” quale espressione di una visione del cambiamento non ridotta nell’ambito della profezia ma sviluppata nell’ambito concreto dell’abolizione dello stato di cose presenti. La base di pensiero da ricercare, dunque, per muovere l’azione di una soggettività politica operante tutti i giorni dentro e in riferimento con le fatiche quotidiane dell’esistenza.

Chi ha paura del protezionismo?

Chi ha paura del protezionismo?

Il "non voto"

Il "non voto"

mercoledì 5 luglio 2017

La riforma della cittadinanza in Italia: gli effetti dell'introduzione dello Ius soli temperato e dello Ius culturae sulle seconde generazioni dell'immigrazione - Menabò di Etica ed Economia

La riforma della cittadinanza in Italia: gli effetti dell'introduzione dello Ius soli temperato e dello Ius culturae sulle seconde generazioni dell'immigrazione - Menabò di Etica ed Economia

Dalle elezioni dell’8 giugno alla Brexit. Tempi difficili per la strategia governativa britannica - Menabò di Etica ed Economia

Dalle elezioni dell’8 giugno alla Brexit. Tempi difficili per la strategia governativa britannica - Menabò di Etica ed Economia

Franco Astengo: Dal PD al PD(R)

DAL PD AL PD (R) : TRACCE DI MUTAZIONE GENETICA di Franco Astengo In molte occasioni l’uso di affermazioni riguardanti lo spostamento nel sistema di valori e di posizione politiche all’interno di partiti e movimenti non appare suffragato da concreti elementi di analisi e di riferimenti valoriali. Questo fatto è sicuramente accaduto anche nelle frequenti denunce di “spostamento a destra” del PD, in coincidenza con l’assunzione della segreteria da parte di Matteo Renzi da parte di una molteplicità di osservatori e commentatori politici appartenenti all’area della sinistra: affermazioni infittitesi in particolare durante la campagna elettorale referendaria dello scorso 4 Dicembre e giustificate, prima ancora di un’analisi riferita alla composizione interna del partito, da una valutazione riguardante il merito di quelle che sono state definite “deforme costituzionali” che si accompagnava, è bene ricordarlo, a un progetto di legge elettorale di stampo maggioritario smantellato poi, in buona parte, da una sentenza della Corte Costituzionale. Disponiamo oggi, invece, come probante pezza d’appoggio di una ricerca eseguita sul campo da due ricercatori, Luciano M. Fasano dell’Università di Milano e Nicola Martocchia Diodati della Normale, e pubblicata nel n.1 dei “Quaderni di scienza politica” Aprile 2017 (Erga edizioni) che affronta il tema: “Dal PD nascente di Veltroni al PD secondo Matteo Renzi, trasformazione di un partito politico (2007 – 2015). Si tratta di un’indagine condotta tra i partecipanti alle primarie e ai membri dell’Assemblea Nazionale del PD compiute quando ancora la “scissione” di Articolo 1- MDP non era stata compiuta e quindi, per semplificare, i sostenitori di Bersani e D’Alema erano ancora interni al Partito Democratico (un particolare questo non secondario: i dati espressi nella ricerca risulterebbero sicuramente alterati in una direzione univoca nel caso di ripetizione nell’attualità). Il primo dato da analizzare riguarda il cambiamento avvenuto nella dichiarazione dei partiti di provenienza da parte dei delegati all’Assemblea Nazionale tra il 2007, 2009, 2013 (fase di consolidamento di un nuovo gruppo dirigente del quale oggi assistiamo alla presa in carico di esponenti legati – appunto – al loro ingresso nell’organismo nazionale proprio in questo periodo). Sotto quest’aspetto i dati indicano come nel 2007 i membri dell’Assemblea Nazionale provenienti dalla Margherita rappresentassero il 26,2% del totale, quelli provenienti dai DS il 43,4% e quelli senza provenienza partitica (o da altre formazioni rispetto a quelle di origine “storica”, PSI, Radicali, centrodestra, SeL) il 30,4%. Nel periodo tra il 2007 e il 2009 (primarie che registrarono l’elezione di Bersani a segretario sopravanzando Franceschini e Marino) i provenienti dalla Margherita salirono al 33,4% e quelli provenienti dai DS al 44,8% (evidentemente le correnti di origine avevano lavorato sodo) mentre quelli privi di provenienza storica scendevano nettamente al 21,8%. Netta inversione di tendenza nel 2013 (elezione di Renzi su Cuperlo e Civati): i delegati provenienti dalla Margherita scendono al 21,4% (- 12% tra il 2007 e il 2013), quelli provenienti dai DS al 34,7% (- 10,1% tra il 2007 e il 2013) mentre salgono in percentuale i “senza provenienza” (con prevalenza al loro interno dei “nativi democratici” fino al 43,9% (un incremento nei sei anni di intervallo del 22,1%). Gli estensori della ricerca definiscono questo fenomeno, coincidente con la crisi del post – elezioni 2013 con relativo mancato “smacchia mento del giaguaro”, come un vero e proprio “assalto alla diligenza” di stile duvergeriano (che prese spunto dal famoso telegramma di Giolitti a De Bellis): e non si può non concordare con questa affermazione. Fin qui però siamo nel campo dello spostamento di truppe e del quadro ufficiali con relativi fenomeni opportunistico – trasformistici. Molto più interessante al fine del giudizio complessivo che è necessario formulare sulla collocazione effettiva del PD (nel frattempo diventato PDR secondo la definizione di Ilvo Diamanti) è l’analisi delle priorità valoriali espresse dai delegati appartenenti alle diverse correnti. A questo punto, infatti, si registra una netta cesura tra l’espressione di valori collettivi e di valori di tipo individualistico. Nelle due tornate di elezione del segretario e dei membri dell’Assemblea Nazionale prese in esame mentre il valore “eguaglianza” supera il 60% tra i delegati delle correnti Bersani, Civati, Cuperlo (rispettivamente 64,41%, 71,74%, 64,29%) il valore “merito” (di assoluto stampo individualistico) raggiunge il 45,81% tra i sostenitori di Renzi e il 36,36% in quelli di Franceschini. Quindi con un innalzamento secco nel passaggio di consegne tra i due candidati provenienti dalla Margherita (Renzi a questo punto era anche già reduce dal famoso “colloquio di Arcore” nella sua veste di sindaco di Firenze). Uno spostamento secco che ha il suo effetto anche sul complesso dell’espressione di collocazione valoriale delle mozioni nel periodo 2009 - 2013: nella mozione Renzi i valori individuali salgono a 8/1 mentre quelli collettivi in quelle di Cuperlo e Civati si collocano attorno ai 9/10. I ricercatori concludono quindi con un’affermazione complessiva che ricalca, per sommi capi, quella espressa da molti commentatori in occasione della campagna referendaria 2016:”l’ispirazione complessiva degli eletti nella lista Renzi mostra una più marcata tendenza liberale collocandosi in una visione estrema sia sui valori individuali, in positivo, sia sui valori collettivi in negativo (da parte di chi ha redatto queste note d’interpretazione della ricerca c’è da aggiungere anche una certa confusione, nell’area di sostegno di Matteo Renzi, tra il concetto di “merito” e l’espressione di “arroganza”). Per il PD, sempre a giudizio degli estensori della ricerca, si è aperta – almeno dal 2014 – una nuova stagione: una fase politica assolutamente singolare e del tutto inedita che potrebbe, già nel medio termine. Contribuire significativamente al definitivo distacco del PD dagli orientamenti valoriali, culturali e politici delle due tradizioni da cui ha avuto origine, quella social – democratica e quella cattolico – democratica. Mentre diminuiscono le ragioni dello stare insieme delle diverse componenti che non siano quelle del puro e semplice potere da spartire appare evidente, a questo punto, come si allarghino gli spazi di riferimento al di fuori del PD(R) proprio per via di questo evidente spostamento di carattere politico – culturale. Non mancano però le contraddizioni da parte di chi – appartenente alle tradizioni storiche d’origine – si colloca ormai fuori o “a lato” del partito. In politica, non dimentichiamolo, non esistono vie “piane come la prospettiva Nijevski”. Probabilmente l’occupazione dello spazio lasciato libero (fenomeno fisiologico nella dinamica politica) potrà essere produttivamente occupato da soggetti capaci di rinnovare le proprie opzioni strategiche esprimendo coerenti sistemi di tipo valoriale. La riflessione da aprire è sull’intreccio tra l’espressione di valori collettivi e le nuove contraddizioni che si esprimono nel tumulto della modernità: un’operazione non facile, anzi assai ardua soprattutto nella capacità di espressione di un pensiero alternativo e di profonda trasformazione sistemica. La ricerca però presenta due limiti importanti: non richiede, una volta espressa la “tavola dei valori” alcuna indicazione sul sistema di alleanze e non propone una visione delle relazioni internazionali del partito. Evidentemente il clima politico nel quale è stata svolta risentiva dell’idea dell’autosufficienza di stampo renziano (fattore ben diverso dalla conclamata “vocazione maggioritaria) del resto ben espressosi nel fallito tentativo dell’Italikum e del provincialismo che attanaglia il quadro politico europeo in particolare alla sinistra ,nonostante l’altrettanto proclamato europeismo. Europeismo che, naturalmente svanisce, come sta accadendo in questi giorni attorno alla drammatica vicenda dei migranti, al riguardo della quale la sinistra europea nelle sue varie articolazioni si sta squagliando come accadde al tempo dei “crediti di guerra” oltre un secolo fa.