sabato 7 ottobre 2017

Marco Marzano: La crisi del socialismo europeo

Dall'Eco di Bergamo, 30 settembre 2017 La pesante sconfitta dell’SPD in Germania rappresenta l’ennesima conferma della crisi profonda del riformismo socialista europeo. Quello che si sta chiudendo è un lungo ciclo storico iniziato negli anni Cinquanta del secolo scorso e contraddistinto dalla capacità del movimento socialista di governare a lungo e con successo le società occidentali capitaliste. I fattori che, soprattutto in Germania, indussero il movimento socialista ad imboccare questa via furono essenzialmente due: la strabiliante crescita delle economie capitalistiche nei decenni seguiti alla fine del secondo conflitto mondiale e l’universale popolarità della cultura della programmazione e dello statalismo, la simpatia diffusa verso la robusta redistribuzione egalitaria della ricchezza che solo la mano pubblica avrebbe potuto garantire. Rimanere legati al marxismo e alla sua vena apocalittica e catastrofistica in quel contesto sarebbe equivalso, questo pensarono i dirigenti socialdemocratici tedeschi alla fine degli anni Cinquanta, ad un autentico suicidio politico, alla rinuncia perpetua ad assumere ruoli di governo. Quando, alla fine degli anni Settanta, la situazione è cambiata e la cultura della regolazione politica dell’economia ha iniziato a cadere in disgrazia, i partiti socialisti europei si sono ovunque riciclati, dopo un periodo di opposizione più o meno lungo, in una versione completamente post-ideologica basata su una diagnosi che potremmo riassumere così: le società occidentali ad economia di mercato, se ben governate, sono destinate ad una crescita senza limiti, nel corso della quale spariranno tutte le antiche distinzioni di classe e si formerà un immenso ceto medio, composto da persone mediamente colte e mediamente abbienti. Questo grande blocco sociale sarà relativamente compatto dal punto di vista degli interessi materiali e quindi chiederà sostanzialmente una sola politica economica e sociale, quella garantita dall’espansione e dalla libertà dei commerci, dallo sviluppo dei sistemi di istruzione e delle opportunità di mobilità sociale. Le uniche divisioni che persisteranno saranno quelle relative ad alcune opzioni culturali, soprattutto quelle che riguardano l’espansione o la contrazione dei diritti civili delle minoranze, l’accoglienza dei migranti, l’apertura al multiculturalismo, etc. In questo quadro, i socialisti rappresentavano se stessi come i migliori rappresentanti delle componenti più avanzate, progressiste e “riflessive” del grande ceto medio europeo. Di qui, le battaglie sul matrimonio degli omosessuali, sul fine vita, sulle droghe leggere, eccetera. Il dominio che insomma veniva messo ai margini in questa rassicurante e ottimistica visione dello sviluppo delle nostre società era quello che un tempo fu centralissimo e prioritario: ovvero quello dell’economia. In questo campo, le scelte non potevano essere divisive, dal momento che gli interessi di classe di tutte le componenti del grande ceto medio unificato erano sostanzialmente identici. Questa diagnosi, che in Italia abbiamo conosciuto già dai tempi del PSI di Bettino Craxi, ha esaurito oggi la sua validità. Per effetto non solo della crisi, ma anche del mostruoso ampliamento delle diseguaglianze sociali, il ceto medio si è ridotto di dimensioni e riempito di paure, di angosce relative al futuro. L’insicurezza sociale derivata dalla violenta americanizzazione dei nostri sistemi sociali è dilagata al punto da affliggere anche l’elettorato del grande Paese più ricco e sviluppato del continente, appunto la Germania. Siamo lontani dall’immiserimento di massa delle profezie marxiane, ma siamo dentro una situazione sociale nella quale la botola verso il precipizio pare sempre aperta e il vertice, la zona della sicurezza esistenziale, sembra completamente irraggiungibile, appannaggio di un élite sempre più ridotta e invisibile. Il rinascimento socialista, se mai avverrà, deve fare i conti con questa nuova realtà. Forse il tempo non è ancora scaduto.

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