giovedì 30 novembre 2017

Franco Astengo: Gramsci e Matteotti

UNA PROPOSTA DA FELICE BESOSTRI: GRAMSCI, MATTEOTTI, L’ATTUALITA’ DELLA LOTTA AL FASCISMO, LA MIGLIORE TRADIZIONE DELLA SINISTRA ITALIANA di Franco Astengo Scrive Felice Besostri: “Ho in mente un convegno da organizzare a Livorno alla fine gennaio 2018: Livorno 1921 aveva ragione Turati o Bordiga? Hanno avuto ragione, a prezzo della loro vita, Matteotti e Gramsci. Raccogliere la loro eredità spirituale e valoriale portandola a sintesi è l'unico modo per far rinascere una sinistra in Italia. Quando si comincerà a capire che il pluralismo è una ricchezza per avere una nuova società di liberi ed eguali?” Riprendo immediatamente rilanciandola la proposta del compagno Besostri. Non basterà un convegno, sarà necessario mettere in moto un processo di effettivo confronto e aggregazione con l’obiettivo di ricostruire una presenza politica nel segno della migliore tradizione della sinistra italiana, superando di slancio la frenesia dell’opportunismo elettorali sta che i generali di tutte le sconfitte stanno mettendo in mostra proprio in questi giorni. Il punto centrale di questa iniziativa dovrà essere rappresentato dalla rinnovata attualità della lotta contro il fascismo: un fascismo proteiforme quello che si sta presentando pericolosamente sulla scena ma che sempre più sta assumendo le vecchie vestigia dello squadrismo sopraffattore, ma non soltanto beninteso nella dimensione dei nazi – skin o di Casa Pound o di Forza Nuova, che pure non vanno sottovalutati perché rappresentano un pericolo reale. Il neo – fascismo da combattere è quello che paga i libici per fermare con le armi i migranti; è quello che attenta alla Costituzione Repubblicana nonostante il voto del 4 dicembre; che intensifica lo sfruttamento del lavoro; che annulla lo stato sociale rilanciando proprio miti perduti dell’antico ventennio. E’ il fascismo di un regime che si sta consolidando e che attraverso una legge elettorale votata ancora una volta al di fuori dai termini costituzionali si appresta a far svolgere una pericolosa funzione di “coalizione dominante” ai soggetti politici strettamente legati tra loro da interessi economici e di pura sopravvivenza di un ceto. Gramsci e Matteotti scrive, dunque, Felice Besostri. Cerco di indicare a questo punto perché, a mio giudizio, Gramsci e Matteotti: “Gramsci in un’analisi molto approfondita perché delineata in una prospettiva storica molto ampia (cfr. “Le origini del fascismo” V edizione Editori Riuniti 1971) rintracciava le radici della reazione in questo modo : “il terrorismo vuol passare dal campo privato a quello pubblico, non si accontenta dell’immunità concessagli dallo Stato. Vuole diventare lo Stato. La reazione è diventata forte al punto che non ritiene più utile ai suoi fini la maschera di uno Stato legale ma intende servirsi di tutti i mezzi dello Stato”. Così stando le cose si comprende come si dovesse proprio a Giolitti la decisione di quelle elezioni anticipate del 1921 nell’occasione delle quali si realizzò quell’alleanza tra liberali e fascisti che doveva aprire a Mussolini e ai suoi (35 eletti) non solo e non tanto le porte del Parlamento, quanto soprattutto la collaborazione attiva e passiva sempre più accentuata da parte dei più importanti esponenti di tutti i gangli dell’alta burocrazia statale (esercito, polizia, magistratura, prefetti) e della vecchia classe dirigente che le elezioni del 1919, svoltesi con la formula proporzionale, avevano spodestato dalla tradizionale posizione egemonica. Se già nel gennaio del 1921 (tre anni prima del suo ultimo fatale discorso) Matteotti poteva denunciare, in un suo intervento alla Camera, una così impressionante serie di sopraffazioni e di violenze fasciste perpetrate con la connivenza degli organi che avrebbero dovuto essere preposti all’ordine pubblico, tanto più ciò doveva avvenire dopo che lo stesso presidente del consiglio Giolitti e con lui l’intero governo, avevano dato il segno dell’orientamento politico filofascista attraverso quell’alleanza elettorale. Da allora lo squadrismo fascista non trovò più ostacolo consistente da parte delle cosiddette “forze dell’ordine”; da allora i capi del liberalismo e della democrazia “statutaria” non ebbero più né la forza né l’intenzione di opporre al fascismo una resistenza valida ed efficace. Di fatto, attraverso tali complicità e appoggi la via del potere fu aperta al fascismo, mentre da parte delle organizzazioni proletarie si tentava, esaurita la spinta rivoluzionaria, una difesa disperata. Le ragioni di tali complicità e appoggi risiedevano proprio nei motivi di classe che erano alla base della lotta tra fascisti e socialisti e che non sfuggivano fin dal 1920 – 21 né a Gramsci né a Matteotti. E’ questo un punto fermo nella storia del fascismo e dell’antifascismo che non bisogna perdere di vista, perché costituisce ancor oggi una bussola di orientamento non soltanto sul piano storico. Queste le parole di Matteotti ben prima della Marcia su Roma “ La classe che detiene il privilegio politico, la classe che detiene il privilegio economico, la classe che ha con sé la magistratura, la polizia, il governo, l’esercito, ritiene sia giunto il momento in cui essa, per difendere il suo privilegio, esca dalla legalità e si arma contro il proletariato”. Gramsci,a quel punto, poteva a buon diritto sostenere che “solo la classe operaia non è responsabile all’interno delle condizioni in cui è stata piombata la nazione in seguito alle gravi sanguinanti ferite prodotte dalla guerra nel suo patrimonio umano e nel suo potenziale economico” e Togliatti poteva sottolineare gli “sviluppi inesorabili del fascismo mettendo in rilievo che solo il proletariato avrebbe avuto la volontà di condurre la lotta. In quella fase, precedente alla Marcia su Roma, emergono così le contraddizioni e le debolezze della parte liberale e democratica “statutaria” che risaltano anche nelle prese di posizioni di suoi esponenti antifascisti come Missiroli.” (da un mio testo “Antifascismo e marcia su Roma del 28 ottobre 2017) In comune, essenzialmente, Gramsci e Matteotti in quel decisivo frangente storico ebbero la grande, inascoltata, intuizione della capacità della reazione di farsi egemone. La stessa intuizione e capacità politica di cui abbiamo bisogno oggi a livello di base teorica per sviluppare una proposta complessiva di progetto, programma, organizzazione: di vera e propria ricostruzione politica della sinistra italiana, pur nelle sue differenti e articolate espressioni. Senza mediazioni preventive, ma ricercando – come si sta cercando di fare –i tratti concreti dell’intreccio comune. Come risposta possibile , che ancora non si è avuta, a quei larghi settori sociali che il 4 dicembre 2016 respinsero la proposta di deformazione costituzionale in nome dell’affermazione, invece, della democrazia costituzionale. In questo senso, a mio avviso, va ripresa, discussa, portata avanti la proposta avanzata dal compagno Felice Besostri.

lunedì 27 novembre 2017

Franco Astengo: Astensionismo

ASTENSIONISMO: UNA SCELTA POLITICA di Franco Astengo Dopo decenni nel corso dei quali opinionisti e politologi avevano snobbato il fenomeno, definendolo al massimo come “fattore fisiologico di allineamento al funzionamento delle democrazie occidentali” adesso tutti, all’improvviso, scoprono l’astensionismo come fattore determinante negli equilibri politici. In questo senso si nota un’operazione ardita di analisi politica compiuta da Ernesto Galli della Loggia sulle colonne del Corriere della Sera nell’editoriale apparso il 26 Novembre. In quel testo, infatti, si cerca di assommare la percentuale di voti prevista dai sondaggi per il M5S (circa il 30%) a una quota di “non voto” (astenuti, bianche, nulle) calcolata al 28%, affermando che questo 58% dell’elettorato sarebbe, in sostanza, accomunato dall’idea di quella che è stata definita “antipolitica” (in realtà nel corso dell’articolo Galli della Loggia si sofferma parecchio sulla presunta “eversività” del voto rivolto al M5S.) Insomma, ci si comincia ad occupare dell’astensionismo ma la sommatoria con il voto del M5S appare del tutto arbitraria così come sembra del tutto forzata l’assegnazione del fenomeno della diserzione dal voto alla categoria dell’antipolitica. Prima di tutto emerge una questione di quantificazione e le previsioni ampliano l’area dell’astensionismo rispetto a quanto indicato da Galli della Loggia. Un’astensione, in varie forme (non partecipazione al voto, scheda bianca, annullamento della scheda) che assommerebbe, infatti, quasi al 40% dell’elettorato: più o meno 18 milioni di elettrici ed elettori. Una disaffezione in crescita verticale, se si pensa che l’Italia è sempre stata all’avanguardia nella partecipazione al voto: tra il 1948 e il 1987 le elezioni politiche fecero registrare percentuali superiori al 90%, con un calo (molto contenuto, in verità rispetto alle percentuali odierne) nelle occasioni riguardanti il Parlamento Europeo. Dopo aver resistito su quote raccolte attorno ancora al 75% con punte dell’80% nel corso del primo decennio del nuovo secolo, a partire dalle europee 2014 si è registrata una brusca discesa nella partecipazione al voto e nelle ultime occasioni riguardanti elezioni amministrati e regionali si è fatto grande fatica a superiore il 50% (con il record negativo delle elezioni regionali dell’Emilia Romagna al 37%). Unica eccezione in controtendenza quella del referendum del 4 dicembre 2016 sulle deformazioni costituzionali proposte dal governo Renzi: si tornò nell’occasione a quote attorno al 70% e il 60% dei voti validi espressero un secco NO. Un risultato che non ha scosso però la tendenza complessiva all’autoconservazione autoritaria del regime di governo, tanto è vero che ci troviamo di fronte (per la terza volta in dodici anni) a una legge elettorale che presenta evidenti profili di incostituzionalità (liste bloccate, violazione del concetto di voto personale) quale testimonianza di un disprezzo complessivo della volontà di elettrici ed elettori che si erano pronunciati con chiarezza per un ripristino della centralità del Parlamento: concetto ancora una volta ignorato. Un serio ragionamento sul tema dell’astensionismo ci dice, prima di tutto, che va rifiutata la tesi semplicistica, sostenuta anche da autorevoli politologi dell’allineamento al “trend” delle grandi democrazie occidentali: quando si arriva al punto che il partito del “non voto” appare essere in grado di costituire la maggioranza relativa significa che la democrazia attraverso un periodo di difficoltà vera. In queste condizioni appare singolare che le principali analisi sulle prospettive di voto apparse sui principali quotidiani non prendano in considerazione il fenomeno dell’astensionismo, limitandosi a registrare le percentuali delle liste in competizione, tralasciando le valutazioni, che pure sarebbero necessarie, sulla realtà sociale, economica, culturale di questo dilagante fenomeno. Soprattutto, ed è questa la tesi che s’intende sostenere in quest’occasione, l’astensionismo deve essere considerato come una vera e propria “scelta politica” per milioni di elettrici ed elettori, e tale deve essere considerata senza che alcuno possa essere autorizzato ad annetterselo: come aveva tentato, invece, i radicali negli anni’80 e ’90 quando presentavano la lista e, contemporaneamente (e paradossalmente) invitavano alla crescita del “non voto” per cercare, nel dopo elezioni, di considerarne la crescita come un loro esclusivo successo. In realtà l’analisi del “ non voto” ha cambiato di segno nel corso degli ultimi anni. Nel “caso italiano” quest’analisi è da sviluppare collegandosi a quella della trasformazione del sistema dei partiti, con il passaggio dal partito di massa a quello “pigliatutti”, poi a quello “elettorale personale” se non, addirittura, al partito –azienda, fino ai casi più direttamente riconducibili a un’esasperata personalizzazione della politica. Personalizzazione arrivata al punto di inserire il nome del leader nello stesso simbolo elettorale. In questo modo è avvenuta una sorta di “scongelamento” nel rapporto diretto tra i partiti e le fratture sociali individuate, a suo tempo, da Lipset e Rokkan, con un indebolimento della fedeltà ai partiti e una crescita della cosiddetta “volatilità elettorale” al punto che, in questa modificazione di rapporto con la partecipazione elettorale, settori importanti di “elettorato razionale” hanno accusato un vuoto di rappresentanza che ha condotto, alla fine, alla diserzione del voto. Un “elettorato razionale” che era stato, in passato, portato a scegliere soltanto in relazione alla possibilità di massimizzazione dei propri desideri (non solo materiali, ma anche ideali e culturali) quindi esprimendo un voto che teneva assieme il senso d’appartenenza e l’opinione specifica. I fattori in campo, dunque, nella costruzione di questo processo di crescita dell’astensionismo appaiono essere almeno tre: 1) Quello derivante dall’analisi della vecchia scuola statunitense dell’astensione come sorta di volontà d’espressione di un mantenimento dello “status quo” (le cose vanno bene così, perché dovrei disturbarmi per andare a votare?); 2) L’altro, di origine più recente e più propriamente europea, dell’espressione inversa a quella precedente di una protesta indiscriminata rivolta al “sistema”. Una protesta che oltrepassa, nell’insoddisfazione, il pur rutilante populismo imperante in tutta Europa e che trova sue significative espressioni in Italia, sia al governo, sia all’opposizione; 3) L’ultimo fattore, derivante dallo specifico della situazione italiana, dell’assenza di rappresentatività politica sul piano complessivo da parte di soggetti tendenti a un’interpretazione complessiva dei fenomeni politici e sociali anche in forma ideale e di proposta di mediazione politica. Fattore determinante per quell’“elettorato razionale” che non trova più soggetti organizzati capaci di esprimere interesse generale e, di conseguenza, abbandona l’idea di sentirsi rappresentato da un sistema composto di elementi troppo distanti dalla propria visione della politica. E’ la sinistra, proprio per fornire una valutazione più ravvicinata del fenomeno e a soffrirne maggiormente in ragione di una assenza di “identità” che – appunto – per i soggetti della “gauche” aveva rappresentato un elemento decisivo per l’appartenenza politica e per la conseguente espressione di voto. Mancano all’appello insomma una buona quota di quello che in passato era stato indicato come “ voto di appartenenza” e anche una fetta importante del voto d’opinione. Così come non è possibile sommare l’astensione con il voto del M5S per stabilire l’ampiezza dell’area dell’antipolitica, neppure si può pensare di raccogliere nuovamente consensi nella disaffezione soltanto pretendendo di interpretare semplicisticamente attraverso slogan le espressioni più facili dell’insoddisfazione dei bisogni di massa. Sottolineando ancora come nessuno possa pretendere (al di là dei facili propagandismi) di proporsi come “argine” alla crescita della disaffezione politica ed elettorale, essendo ormai questa un fenomeno assolutamente strutturato al sistema. Neppure colmerà il vuoto l’ossessivo uso dei social network e, più in generale, del web come si prevede per la prossima campagna elettorale: si tratta, infatti, di strumenti dedicati agli ultrà, ai già super convinti, ai tifosi che li useranno per insultarsi e screditare i diversi candidati avversari, non di più. La complessità sociale richiede l’elaborazione di una articolazione di ideazione politica riservata insieme al progetto come al programma. Un discorso quello sull’astensionismo e la cosiddetta antipolitica da riprendere in profondità anche da parte di quanti pensano di cimentarsi in chiave coerentemente alternativa con l’arena elettorale: fondamentale sarebbe recuperare in pieno l’identità costituzionale come base di principio per una presenza istituzionale efficacemente collegata con il quadro attivo di lotte sociali.

EUROPP – Why the left loses: Explaining the decline of centre-left parties

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Crisi dell’eurozona e della sinistra europea | Insight

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mercoledì 22 novembre 2017

Contro la disuguaglianza non basta la leva fiscale - Eddyburg.it

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Right, Left, and Macron by Zaki Laïdi - Project Syndicate

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Franco Astengo: Finanza globale, stato nazionale, dimensione di classe

FINANZA GLOBALE, STATO NAZIONE, DIMENSIONE DI CLASSE di Franco Astengo “Le sinistre non hanno ancora capito che il capitalismo industriale che permetteva reti sociali, assistenziali e che dava , attraverso il confronto sindacale e politico, delle sicurezze anche alle classi sociali più deboli è finito. Il capitalismo finanziario globalizzato, che ha inglobato sovrastandolo quello industriale, ha rotto questo equilibrio e la sinistra non ha ancora capito quali strumenti di analisi utilizzare, che dovranno considerare un campo più ampio di quello nazionale, per trovare risposte politiche ispirate ad un riformismo radicale ma praticabile nella continuità del confronto democratico. Se non si capisce per esempio che migrazione, disoccupazione giovanile e disparità di condizioni di impiego nel mondo produttivo delle donne, sono le due facce della stessa medaglia sarà impossibile dare risposte credibili e tangibili nel tempo breve a tutte quelle fasce di popolazione oggi escluse, espulse o sottoutilizzate. Anche la sinistra, come la finanza, deve globalizzarsi e ritenere i confini nazionali e le politiche da fare in ciascun paese un tassello di un unico mosaico. Sarà dura ma ce la possiamo fare” Traggo queste argomentazioni da un post di Paolo De Zen inviato alla mailing list del Circolo Rosselli di Milano. Un testo che prendo per esempio di sintetizzazione da parte di quanti ritengono la sinistra ormai in ritardo nella “modernità” e propongono un nuovo riformismo “globalizzato”. Personalmente ritengo analisi di questo tipo assolutamente arretrate rispetto allo stato di cose presenti proprio perché siamo di fronte a fenomeni di arretramento nel processo di globalizzazione (anche dal punto di vista finanziario) che possono sfociare in due diversi modi: quello dell’emergere delle “piccole patrie” o quello del rilancio dello “Stato –Nazione”. In ogni caso, come dimostrano sia l’evidenziarsi di nuovi equilibri economici e militari tra le grandi Potenze, sia il fallimento di progetti sovranazionali (come l’Unione Europea o i grandi trattati commerciali), è necessario pensare ad una vera e propria riattrezzatura teorica e politica della sinistra in modo da recuperare prima di tutto la dimensione del terreno concreto nel quale svolgere la propria funzione primaria di riferimento politico rivolto alla lotta sociale. Riprendo il tema partendo dalle valutazioni che, a metà degli anni ’90 , Arjun Appadurai esprimeva nel suo “Modernità e Polvere” predicendo la fine dello Stato Nazionale. In quel testo era ipotizzato appunto il tramonto dello Stato Nazionale, considerato ormai come un’istituzione al limite repressiva nei riguardi dello sviluppo dei fenomeni d’innovazione nell’utilizzo dei mass media e dei flussi migratori. Oggi ci troviamo a una revisione radicale di quel concetto, nell’espressione di un convincimento opposto : “Lo stato nazionale rimarrà in piedi, ma sarà circondato da altre forme di sovranità alcune transnazionali altre locali (in questo senso l’autore fa gli esempi dei curdi, palestinesi, Tibet, Kashmir, Catalogna, Hong Kong e di molte zone dell’Africa”.). Dal punto di vista dell’Europa oggi si potrebbe aggiungere il caso della Catalogna. Il fenomeno della globalizzazione assumerà forme diverse rispetto al passato , anche se non si potrà parlare direttamente di de-globalizzazione (almeno nei termini che il fenomeno ha assunto dal almeno due decenni a questa parte) : “Le forme del fenomeno saranno sempre più locali, peculiari ed eterogenee, perché nessun Paese o gruppi di nazione sarà capace di imporre i suoi valori agli altri”. Il rapporto che viene analizzato è quello tra lo Stato, sempre più in difficoltà a controllare la propria economia che cerca rilegittimazione attraverso la lingua, l’identità, il dominio della diversità culturale. Paura, frustrazione, disperazione sono alla base di questa mobilitazione dello Stato, di fronte a quella che ormai si può definire come “banalità del terrore”. L’Europa impostata su di una logica strettamente monetarista è ancora in una situazione di deficit (che appare a prima vista incolmabile) sui rispettivi piani nazionali e subisce, forse più di altre parti del mondo, l’impatto di questo stato di cose e si trova di fronte alla contesa tra identità e globalismo. Intanto, mentre si verificano questi imponenti spostamenti di capitale, la condizione materiale dei lavoratori peggiora e la situazione economica complessiva dell’Unione Europea appare in una situazione di arretramento complessivo sicuramente non certificata dalle percentuali di crescita o di decrescita del PIL dei rispettivi Paesi L’Italia si trova in una situazione d’incapacità di difesa del proprio residuo patrimonio economico soprattutto perché si trova di fronte ad uno specifico intreccio perverso tra politica ed economia che finisce con il paralizzare scelte di fondo che sarebbero necessarie, soprattutto dal punto di vista dell’intervento del pubblico sia sul piano degli investimenti che della gestione in un quadro complessivo d’insufficienza grave anche dal punto di vista della realtà finanziaria(pensiamo alle difficoltà del sistema bancario, stretto anche dalla “questione morale”) e delle infrastrutture. Un tempo si discuteva sulla natura del capitalismo italiano dividendoci, a sinistra, tra chi lo considerava un “capitalismo straccione” e chi invece lo riteneva capace di una “forte innovazione” al riguardo della quale andava presentato un progetto di alternativa radicale e complessiva. Erano tempi però nei quali le prospettive di sviluppo erano ben diverse da quelle di adesso e soprattutto era molto diverso il sistema politico. Lo squassamento del sistema politico che stiamo verificando ai nostri oggi, la sua assoluta subalternità alle istanze più bieche della finanziarizzazione a livello europeo e mondiale, la stessa natura “speculativa” dell’agire politico e dell’autoreferenzialità dei suoi esponenti reclamerebbero un’immediata inversione di tendenza di cui non s’intravvedono le linee di prospettiva e i soggetti portanti. L’Italia vive un deficit forte di qualità democratica che si riflette pesantemente anche sul piano dei rapporti internazionali a tutti i livelli, tralasciando anche per ragioni di economia del discorso l’analisi sui dati di instabilità del quadro internazionali dovuti al riemergere di tensioni belliche di carattere bipolare e della vera e propria esplosione in corso nell’area che va dall’Afghanistan al Nord Africa e nel cuore dell’Africa stessa: laddove la ripresa della politica coloniale e la lotta per l’egemonia in campo energetico stanno producendo danni gravissimi all’economia mondiale facendo crescere anche mostri nati e alimentati dallo stesso Occidente, in particolare nel periodo in cui gli USA hanno esercitato le funzioni di “potenza globale”. L’establishment USA pare aver compreso appieno queste importanti novità nelle dinamiche del ciclo e stanno approntando una campagna elettorale comunque ripiegata su logiche nazionali e sub-continentali, mentre crescono ambizioni imperiali da parte della Russia ed emerge una crisi profonda di quelle che erano considerate potenze emergenti oggi ripiegate in una dimensione di tipo meramente economicista. Svaniscono così le ambizioni globaliste e, di conseguenza, la stessa dimensione d’opposizione al fenomeno che per i primi 10 anni del secolo era apparso inarrestabile: commentatori autorevoli fanno presente che, all’interno dei democratici USA, sarà difficile per Sanders tenere tutto assieme con la “vecchia colla no – global” dopo aver offerto l’illusione di una svolta e aver ripiegato alla fine sul consueto opportunismo governista. L’Europa appare così abbandonata alla deriva, ed è questo il limite vero dell’operazione UE prima ancora dell’asservimento monetarista. Un quadro di declino complessivo del pensiero e dell’agire politico al riguardo del quale la sinistra non appare in grado di proporre un’alternativa, neppure nella più debole accezione riformista. Il messaggio conclusivo è di pessimismo, essendo anche assente la capacità di esprimere una rappresentanza adeguata dei ceti sociali più deboli, dell’impostare una battaglia di fondo contro la crescita delle diseguaglianze, di collegamento a livello internazionale proprio sui temi della politica industriale, del ruolo del movimento dei lavoratori, dell’essenza stessa di ripensare il rapporto tra politica ed economia. La sinistra è chiamata a ripensare definitivamente se stessa partendo da alcune considerazioni di fondo: esiste un punto di evidente crisi del sistema deve essere rimarcato con forza. Fin qui il liberismo, accettato da tutti, aveva garantito una capacità unificante attraverso lo sviluppo, comunque, delle forze produttive. Il fenomeno di quella che abbiamo definito, fin dalle soglie del millennio, come “globalizzazione” e la richiesta di cessione di sovranità dello “stato nazionale” con la crescita trasversale del potere delle multinazionali, non realizza più questo elemento, neanche attraverso, come abbiamo potuto osservare nei tempi più recenti, rilanciando pesantemente l'industria bellica. L'incertezza nel controllo dell'uso delle risorse naturali e la difficoltà nel controllo totale dello sviluppo tecnico – scientifico oltre ad una lunga fase di dominio delle “lobby” tecno-teocratiche al vertice della superpotenza, stanno portando il sistema a un rischio concreto, di implosione. La sinistra in Italia e altrove può così disporre di nuove ragioni fondative per ricostruire, in questo difficile frangente, una propria capacità prefiguratrice fornendo, attraverso l'identità e l'autonomia della propria struttura politica, forma, coscienza, realtà sociale, analisi delle contraddizioni. Questo è vero perché il carattere di classe, il meccanismo dello sfruttamento, non solo perdura ma giunge, alfine, nella loro pienezza esprimendosi in forme nuove, come stiamo costatando proprio attraverso l’analisi degli episodi fin qui descritti. Un insieme di questioni quelle appena elencate che necessitano di un’analisi adeguata perché da essa dipenda il livello di costruzione di quegli assetti politico – istituzionali, soprattutto sul piano della dimensione geo – politica, decisivi al fine di affrontare il quadro complesso di contraddizioni materialiste e post – materialiste in atto a partire dal tema della guerra, dei rapporti interstatali e sovranazionali dai quali discendono problematiche come quelle delle migrazioni e del terrorismo ma anche dell’antropizzazione del territorio, del consumo del suolo, dell’utilizzo delle risorse fondamentali da quelle energetiche all’acqua, al conflitto di genere, ai temi della convivenza civile e della “diversità”. L’assenza di una di futuro fa scivolare l’essenza del tempo dentro la logica dello “scontro di civiltà” che a parole tutti rifiutano ma che appare la sola salvaguardia per i dominatori di mantenere la loro posizione di predominio sotto qualsiasi latitudine, ponendosi al riparo sotto la protezione di bandiere inventate, fasulle, simboli mistificanti della realtà. Il recupero di una visione critica dei processi in atto, prima di tutto sul piano culturale, opportunamente spostata nella rielaborazione progettuale in una dimensione seriamente sovranazionale, potrebbe rappresentare un primo passo per una ripresa di funzione e di ruolo per una nuova sinistra posta all’altezza delle contraddizioni dell’oggi comprendendo come risulti decisiva l’elaborazione di un compiuto progetto sub- culturale che fornisce un’identità alla proposta di utilizzo coerente delle novità scientifiche e tecnologiche, in una dimensione d’interscambio egualitario non asservito a un indistinto dominio del globalismo conservatore.

Pensioni, cosa prevede il pacchetto del governo - Lettera43.it

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La divisione tra buoni e cattivi, tesi putrefatta da Prima Repubblica - Lettera43.it

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martedì 21 novembre 2017

Franco Astengo: Due notizie dal Cile

DUE NOTIZIE DAL CILE di Franco Astengo Riflettori puntati sull’esito del primo turno delle elezioni presidenziali cilene svoltesi domenica scorsa 19 novembre. Analisi parziale sui dati relativi al primo turno riguardante i soli candidati alla Presidenza (si sono svolte anche le elezioni legislative, ma per l’analisi dei dati in questo caso occorrerà più tempo). Analisi comunque interessante anche per via delle similitudini che da sempre si sono evidenziate tra il sistema politico cileno e quello italiano, nonostante la diversità nella forma di governo che – appunto – nel caso cileno è di tipo presidenzialista. Il primo dato che si rileva dal risultato del 19 novembre è l’aumento dell’astensionismo ancorché molto contenuto. I voti validi, infatti, il 17 novembre 2013 (sempre con riferimento ai suffragi ottenuti dai candidati alla Presidenza) erano stati 6.585.808 mentre quattro anni dopo sono scesi a 6.462.754: una flessione di 123.054 unità, in percentuale circa il 3%. Il secondo dato è quello del secco spostamento a destra. Il ritorno in scena di Pinera, già presidente tra il 2010 e il 2014, ha significato un netto incremento per il centrodestra cileno: Matthei nel 2013 aveva ottenuto, infatti, 1.648.481 voti (25,03% sul totale dei voti validi), Pinera nel 2017 è salito a 2.400.915 voti (36,64% sul totale dei voti validi), di conseguenza un più 752.434 in cifra assoluta. Un risultato che ha comunque deluso le sue aspettative che, secondo i sondaggi, avrebbero dovuto vederlo traguardare circa il 40%. L’incremento di suffragi per la candidatura di Pinera si è inoltre verificato senza alcuna significativa flessione rispetto all’altra candidatura di destra: nel 2013, infatti, si presentò su quel versante il giornalista televisivo Fernandez (uomo del neo – liberismo) ottenendo 666.015 voti (10,11%) mentre nel 2017 si è presentata la candidatura Kast ancor più caratterizzata verso destra rispetto a quella di Fernandez. Kast ha ottenuto 519.325 voti (7,93%). Una flessione tutto sommato contenuta, su questo versante, che indica come i voti del centro destra rivolti al proprio candidato presidente abbiano realizzato un incremento reale, a dispetto della minore partecipazione al voto. Dalla parte del centro sinistra, ovverosia tra chi si è disputato l’eredità della presidente uscente Bachelet, il dato più rilevante è stato proprio quello della disputa. Non si è realizzata, infatti, la possibilità di una candidatura unica e la doppia presentazione ha mostrato la realtà di una spaccatura in parti quasi eguali dell’elettorato che, nel 2013, aveva consentito la vittoria della stessa Bachelet. Guiller, che potremmo definire l’erede diretto della presidente uscente, ha ottenuto, infatti, 1.486. 539 voti pari al 22,69% è andrà al ballottaggio mentre Barbara Sanchez, rappresentante del “Frente Amplio” espressione di movimenti di sinistra, ecologisti, espressione di una volontà di rinnovamento di una sinistra radicale, ha avuto un vero e proprio exploit con 1.328.280 suffragi pari al 20,27% rappresentando così il vero e proprio “ago della bilancia” in vista del secondo turno per mantenere in vita una qualche speranza di successo per il centro sinistra cileno. La candidatura della Sanchez era stata molto snobbata dai sondaggi che avevano pronosticato al massimo un 9%: come si vede i sondaggisti non sbagliano soltanto in Italia. Lo schieramento che nel 2013 aveva sostenuto la candidatura Bachelet aveva, nel frattempo, perso un altro tassello in direzione centro, con la candidatura della democristiana Goic: alla fine la rinnovata DC cilena ha ottenuto 340.000 voti pari al 5,88%. A sinistra, ancora, secca flessione dell’altro conduttore televisivo Ominami (fondatore del partito progressista) che nel 2013 aveva ottenuto 732.542 voti pari al 10,99% e oggi sceso a meno della metà: 332.070 suffragi, 5,71%. Questi quindi i dati del primo turno delle presidenziali cilene che ci indicano prima di tutto un limitato incremento dell’astensionismo e, in secondo luogo, pongono in vista del ballottaggio diversi tipi di problematiche: la necessità per il candidato del centro destra di appoggiarsi sui voti ottenuti da quello della destra estrema con un netto spostamento d’asse; per il centrosinistra la questione rimane quella del recupero “unitario”. Il dato più interessante da valutare resterà comunque quello della partecipazione al voto tra un turno e l’altro: nel 2013 i voti validi scesero da 6.585.808 a 5.582.270, circa un milione in meno.

NO, NON è STATA LA MONETINA: COSA INSEGNA A MILANO E ROMA L'EMA PERDUTA - GLI STATI GENERALI

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lunedì 20 novembre 2017

Cile, il cambiamento è arrivato con il Frente Amplio | Avanti!

Cile, il cambiamento è arrivato con il Frente Amplio | Avanti!

“Noi siamo la sinistra”. L’intervento di Enrico Rossi all’assemblea di MDP – L'Argine

“Noi siamo la sinistra”. L’intervento di Enrico Rossi all’assemblea di MDP – L'Argine

Franco Astengo: Astensionismo

ASTENSIONISMO E ALLEANZE di Franco Astengo Ostia rappresenterà sicuramente un microcosmo e l’esito elettorale di domenica 19 novembre riguardante il X municipio di Roma non risulterà particolarmente significativo. L’esposizione mediatica cui è stata sottoposta la situazione relativa a questa elezione può però rendere significativo il dato anche sul piano generale, come esempio probante della crisi che sta pesantemente attraversando l’intero sistema politico. Per chi crede di aver vinto c’è molto poco da festeggiare considerato che l’istituzione che si intende governare non conserva sicuramente un dato sufficiente di credibilità e di consenso tale da renderla credibile.di conseguenza, da rendere credibili le istanze che via via saranno adottate dalla Presidente e della sua maggioranza. Cifre in breve: le cittadine e cittadini del X municipio di Roma chiamati a esprimere il loro voto assommavano a 185.661. Il 5 Novembre i voti validi furono 65.472 pari al 35,26% (dato già depurato dalle schede nulle, bianche e contestate). Il 19 novembre i voti validi sono scesi a 59.887 pari al 32, 25% con una flessione del 3,01% pari a 5.585 voti. La candidata del M5S che ha prevalso nel ballottaggio ha ottenuto 35.691 voti pari al 19,22% sul totale degli aventi diritto. La sua competitor dello schieramento di centro destra ne ha avuti 24.196 pari al 13,03%. Fatta salva la particolarità del caso questi dati ci indicano almeno due problematiche: 1) La prima quella di una sconfitta generale di tipo sistemico. Ci troviamo, infatti, a quote di disaffezione tali per cui non vale l’antico richiamo all’astensionismo fisiologico (quindi chi sta a casa considera che tutto sommato la baracca vada bene così, come sostenevano autorevoli esponenti della sociologia politica statunitense fino a quale anno fa) ma non vale neppure la versione “crescita del voto di protesta” che aveva preso piede nel campo dell’analisi politologica in tempi più recenti. Ci troviamo probabilmente proprio all’interno di quel fenomeno “dell’impolitica”, così felicemente denominato recentissimamente da Gustavo Zagrebelsky. 2) La seconda problematica riguarda i produttori di sondaggi utilizzati strumentalmente in funzione dell’orientamento preventivo dell’elettorato: sarebbe bene, infatti, che la questione dell’astensionismo fosse ben considerata e tarata in modo da non trovarsi, al momento delle urne, di fronte a clamorose sorprese. In queste condizioni, infatti, il peso delle tre componenti del voto (appartenenza, opinione, scambio) potrebbe risultare assolutamente alterato in una dimensione ben più significativa rispetto al passato con eventuali infiltrazioni di diverso tipo fortemente facilitate nella fragilità del sistema. Nella stessa giornata dello svolgimento del ballottaggio al X municipio di Roma si sono svolte, proprio in vista delle prossime elezioni legislative generali delle quali si ignora comunque ancora la data, tre importanti assemblee nazionali: quella di MdP, di SI, e di settori intenzionati a promuovere una lista “popolare” (abbiamo avuto in passato anche una “Lista di Lotta” organizzata paradossalmente da un ex – generale della NATO politicamente collocato su posizioni più o meno marxiste – leniniste) con la partecipazione di aree sociali che hanno ritenuto non ancora esaurito il cosiddetto movimento del Brancaccio. L’analisi dell’andamento di queste assemblee, collegato con l’esito del ballottaggio di Ostia assunto come punto paradigmatico della situazione, suggerisce alcune considerazioni parziali, ma significative. La riduzione dell’agire politico all’elettoralismo e all’individualismo competitivo intesi come soli elementi nei quali si esaurisce la proposta politica appare sempre più evidente, ad esempio nel desolante agitarsi attorno al PD di improbabili candidature e di ancor più improbabili alleanze. La stagione della “vocazione maggioritaria”, della “rottamazione”, dell’autosufficienza è finita in coda di pesce facendo grandi danni all’intero sistema politico italiano dopo la fase della forzatura di un bipolarismo inventato sulla base di artificiosi sistemi elettorali. Adesso siamo di fronte soltanto all’esigenza di sopravvivere da parte dei presunti protagonisti di quella stagione nel corso della quale si era tentato addirittura di ridurre il sistema da forzatamente bipolare e forzamento bipartitico e che era stata inaugurata (è bene ricordarlo) con la clamorosa sconfitta del PD alle elezioni del 2008. E’ poi evaporato anche il famoso 40% delle Europee 2014 (che ricordiamolo: altro non era che il 22% dell’intero corpo elettorale rappresentando una cifra in voti assoluti inferiore a quella ottenuta nell’occasione della già ricordata débacle del 2008). Quella parte di esponenti politici che si ostinano a definire il loro schieramento come “centro – sinistra” in realtà imperniano la loro narrazione su di un partito, il PD, a vocazione di destra. Non c’è da esagerare sulla vocazione di destra del PD: prima di tutto perché “personalistico” poi avendo tentato questo partito di manomettere la Costituzione (operazione impedita dal voto popolare), promosso una strategia di guerra per bande in Africa al fine di fermare il flusso delle migrazioni, precarizzato ulteriormente il mondo del lavoro attraverso il job act, privatizzata la scuola, completamente fatto sparire il welfare, attaccate nuovamente le pensioni. Ebbene questa porzione di sistema politico oggi sembra ritornato ai bei tempi dell’Unione Prodiana: il PD cerca liste a destra e a sinistra e, alla fine, il suo schieramento elettorale potrebbe essere composto almeno da sette o otto soggetti auto- definentisi europeisti, centristi, socialisti, riformisti. Il tutto senza alcuna sottolineatura di merito da parte dei grandi mezzi di comunicazione di massa che, indifferenti, si occupano soltanto di star dietro alla posizione personale di questo o di quello. Invece molto ci sarebbe da analizzare dal punto di vista della riflessione politica e non certo per una sorta di accanimento nel voler mostrare le incongruenze e le difficoltà della parte raccolta attorno al PD. In realtà come si è già provato ad accennare, le difficoltà sono “sistemiche” e riguardano anche gli altri due poli, centro – destra e M5S. Torniamo allora alla costante dimostrazione calo di partecipazione al voto. Il fenomeno del calo della partecipazione al voto che si accompagna alla caduta di ruolo dei cosiddetti corpi intermedi (comprese sindacati e associazioni di categoria) è necessario sia inteso come cartina di tornasole di una debolezza intrinseca. Una debolezza intrinseca che finisce con il rendere quanto mai effimero sul piano della concretezza quel dato di ricerca della “governabilità” che si è accompagnato – appunto – alla personalizzazione e all’idea balzana della “vocazione maggioritaria” nel provocare il vero e proprio disastro politico che stiamo vivendo in questa fase. Il M5S si troverà probabilmente di fronte a questo tipo di questione non risolvibile, nella dimensione data, con la democrazia diretta sul web e con il cinismo dell’autonomia del politico. Soprattutto si rileva un elemento da approfondire nel tentativo di sviluppare un minimo di ragionamento su questi temi. L’elemento è quello della totale assenza di ricerca nel collegamento (che pure sarebbe necessario) tra la rappresentatività di tipo generale e la realtà delle contraddizioni sociali emergenti cui fornire interpretazione, voce, riconoscimento di soggettività. La questione, infatti, nella modernità indotta dalla velocizzazione e dalla personalizzazione del messaggio comunicativo è quella di come realizzare una rappresentatività politica come espressione di identità che tenga assieme cioè una visione del futuro come prospettiva di trasformazione sociale e la quotidianità dell’agire politico a livello generale, ma anche locale. Come si realizza, oggi, un dato di rappresentatività politica attorno ad un progetto che insieme traguardi il medio periodo con una visione strategica e il corto respiro di una legislatura: questo manca completamente a livello di espressione della soggettività politica. Una problematica di decisivo interesse perché si pone in una società dove ormai la frequenza sui social network è diventata per molti esaustiva della partecipazione pubblica individuale, sostituendo (attraverso l’espressione della ridda di opinioni su Facebook, Twitter e quant’altro) non soltanto la vecchia militanza ma addirittura la stessa espressione di voto (“Ho già detto la mia su tutto”: che bisogno c’è di andare a votare?). Un fenomeno quest’ultimo ormai molto diffuso che spiazza anche la stessa “democrazia del pubblico”, lasciando il tutto in mano alle espressioni di un individualismo facilmente condizionabile dal complesso sistema della pubblicità, beninteso non solo politica. A questo punto diventa una questione di vero e proprio “modello sociale”. Tutto questo in un quadro generale di affastellamento di temi senza ordine, priorità, merito. Così si sta consumando un fenomeno di totale regressione nel rapporto tra sistema politico e realtà sociale. Siccome la politica non ammette vuoti la colmatura di questa regressione avviene o rispolverando vecchi miti oppure con la facilità delle proposte e degli slogan più facilmente identificabili dalla complessità dei bisogni di massa: da quello, cioè, che viene nemmeno troppo propriamente definito come “populismo”. Rimane il vuoto di visione e di progettualità che un tempo la sinistra sapeva riempire con il richiamo alla logica ferrea della distinzione di classe e con l’espressione delle sue opzioni classiche della socialdemocrazia e della rivoluzione. Rivoluzione declinata, in Italia in particolare, attraverso un meccanismo specifico: quello della “doppiezza” integrata dalla strategia gramsciana delle “casematte”. Su questo punto Lucio Magri aveva centrato, nel suo ultimo lavoro “Il Sarto di Ulm” il tema del “genoma Gramsci” come decisivo per l’assetto e l’identità della sinistra nel nostro paese. Assetto e identità ancora validi, a mio giudizio, in tempi di confusa sovranazionalità e pericolosa regressione delle istanze globaliste. E’ questo, pur esposto sommariamente, il quadro che si sta presentando in vista delle elezioni legislative 2018 e soprattutto nell’insieme della vicenda politica ben oltre le scadenze canoniche: toccherebbe alla sinistra ancora organizzata e posta fuori dal recinto del “personalismo velleitariamente governativista” e non ammaliata dal mito della democrazia diretta o del Tribuno che si rivolge direttamente alle masse, svolgere prima di tutto un’opera di vera e propria “controcultura” cercando anche di tirare una qualche somma in una dimensione di proposta rivolta non solo in termini di lista elettorale.

martedì 14 novembre 2017

The fatal flaw of neoliberalism: it's bad economics - Sbilanciamoci.info

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Il bilancio 2018: un quiz senza risposte - Sbilanciamoci.info

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Il ritorno della crescita europea | F. Daveri

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Invest in education and fight the Brexit "fundamentalists", Corbyn tells chancellor | LabourList

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Reshaping Sovereignty In Catalonia And Spain: A Task For The Left

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Franco Astengo: Politica, governo, elezioni

POLITICA, GOVERNO ED ELEZIONI: APPUNTO IN VISTA DELLA PROSSIMA ATTUALITA’ ELETTORALE di Franco Astengo L’impalpabilità dell’egemonia che la forma attuale del capitalismo ha attributo ai grandi “brani” (ne scrive Naomi Klein nel suo ultimo “Shock Politics”) ha reso il tema del Governo questione esclusiva della sovrastruttura. Una sovrastruttura che si impone nel prevalere della torsione politicista su economia e tecnica, in funzione esclusiva del dominio del marchio di fuoco del capitalismo autoproclamatosi omnicomprensivo della realtà e del futuro. Una questione apparentemente inafferrabile che fa del “governo” un’entità invisibile collocata nell’empireo delle grandi concentrazioni multinazionali. Nell’impossibilità del riformismo (punto vero della crisi della socialdemocrazia) mai come in questa fase vale l’antico motto marxiano: “Il governo qualunque esso sia, è sempre il comitato d’affari della borghesia”. Per affrontare questo fenomeno, a livello della dimensione dello “Stato – Nazione” serva una un’azione politica fondata sulle concrete contraddizioni reali. Dimensione dello “Stato – Nazione” che per adesso risulta insuperabile perché dalla sua crisi sorgono soltanto ipotesi di spezzoni vieppiù etnicamente identitari, in conflitto con il crescente multipolarismo culturale. E’ questo il punto di rottura al quale è giunto il sistema mentre si stanno appesantendo e intensificando le forme di sfruttamento dell’uomo, della natura, dell’essenza stessa della condizione umana da parte – appunto – di questi inafferrabili marchi all’interno dei quali occultamente si annidano i protagonisti del potere reale. Non c’è nessun “complottiamo” nello sviluppare questa affermazione ma soltanto una realistica constatazione nel concreto dell’attualità. In questo contesto davvero le elezioni possono essere considerate una sorta di “rito”, di celebrazione del potere, di soddisfazione delle ambizioni di singoli che concorrono profondendo ricchezze enormi accumulate – appunto – con l’esercizio sfrenato dello sfruttamento. L’unica possibilità che abbiamo è quella di muoverci sul terreno del recupero d’identità della rappresentanza politica, ed è a questo tema che si cerca di dedicare un avvio di riflessione. Quali le condizioni materiali che si presentano davanti a chi intende muoversi idealmente, progettualmente, programmaticamente sul terreno delle contraddizioni sociali, non esistendo più la possibilità di competere per il Governo reale nemmeno in una accezione moderatamente riformistica, ma soltanto per la rappresentanza di quelle contraddizioni generate dallo sfruttamento cui si è già accennato? I barbari non stanno soltanto sulla piazza di Varsavia a testimoniare un’Europa inesistente nelle sue presunte fondamenta culturali ma attiva soltanto nei salotti dei banchieri di Bruxelles e Francoforte. I barbari sono già dentro il nostro recinto e per combatterli non serve neppure l’illusione della democrazia diretta e/o quella del “pubblico”, le nuove leadership e i “partiti personali”. Non c’è nessun baratro e nessun “salto nel vuoto”, come sostengono autorevoli politologi, non c’è nessun “Annibale alle Porte” rappresentato da più o meno identificati populisti contro i quali tirare la cinghia e fare barriera, non vale alcuna “union sacrèè”: esiste soltanto un’omologazione complessiva di una “politica” che si autodefinisce da sé stessa come entità separata e una società allo stremo delle forze e della ragione. Un’omologazione al verbo unico del consumatore seriale e al mondo delle illusioni diffuse seminate attraverso i social network. Orwell nel suo celebre 1984 era stato ancora ottimista, siamo ben oltre il “Grande Fratello” ma addirittura “all’immaterialità pervadente” del potere e del controllo sociale. L’opposizione rivolta a contrastare tutto quanto agisca come fattore di omologazione all’individualismo consumistico e competitivo sul quale si base questa egemonia regressiva, deve rivolgersi verso l’“arretramento storico” in atto individuandone il senso. E’ necessario quindi porsi “diversi” e “contro” rifiutando questa egemonia soffocante: ancor più soffocante di quel “pensiero unico” che era emerso dalla globalizzazione e di cui si scriveva tempo addietro. La situazione da allora è sensibilmente peggiorata, almeno dal nostro punto di vista di sfruttati. Restringo il campo di osservazione alle prossime elezioni italiane. Chi intende promuovere e presentare una lista che possa essere percepita come “ di sinistra” a livello di massa ha il dovere, prima di tutto, di verificare la possibilità di riuscire a rappresentare istituzionalmente chi subisce questo vero e proprio “soffocamento”culturale, sociale, economico. Non c’è nessuna unità da ricercare forzatamente “contro”: bensì c’è bisogno di misurarsi con il “per”. Non basta la presentazione di un programma elettorale. Serve un progetto d’ampio respiro di vera e propria riunificazione tra la “Democrazia costituzionale” e la “Democrazia sociale”. Su questo punto si può realizzare la costruzione di un’identità, nei cui tratti peculiari trovino posto anche gli elementi portanti della tradizione culturale, morale, etica, politica della sinistra italiana, in uno sforzo prima di tutto di aggiornamento e di sintesi al riguardo della nostra storia accanto ad una seria valutazione dei fenomeni emergenti. La “Democrazia sociale” da intendersi come proiezione e applicazione della “Democrazia Costituzionale”. L’idea dovrebbe essere quella di conseguire un’adeguata rappresentanza istituzionale, da considerare come uno dei punti di appoggio nella costruzione dell’identità e insieme momento di partenza per un progetto politico di lungo respiro. Ogni ambizione diversa: di contribuire al Governo, di ricostruire il centro – sinistra o di uno schieramento d’altro tipo. rappresenterà soltanto una velleità presto frustrata che, alla fine, lascerà il campo ad altre macerie dopo le tante già lasciate sul campo della sinistra italiana nel corso degli ultimi vent’anni. Il massimo fattibile (sempre restando dentro il ristretto orizzonte delle prossime elezioni italiane) sarà soltanto, in questa fase, una lista da considerare come simbolo di una proposta di aggregazione di massa critica che si evidenzi anche sul piano politico – istituzionale collegandosi alle istanze di lotta quotidiana sul terreno sociale ed evitando la negativa logica dei “due tempi” e il ritorno al predominio dell’autonomia del politico. Questa proiezione tra terreno politico – istituzionale e campo di lotta sociale può essere considerata, anzi sarebbe bene fosse considerata, come fatto propedeutico alla costruzione di un’organizzazione politica. Un’organizzazione politica al riguardo della quale i suoi proponenti dovranno essere bravi da subito a definire ambito e possibilità. L’ambito non potrà che essere quello della rappresentanza politica e istituzionale raggiunta in nome proprio di un progetto di Resistenza fondato sul raccordo tra costituzionalismo democratico e capacità di lotta sociale nel concreto della quotidianità e delle asprezze che in essa si presentano. Un tema fondamentale questo che mi sono permesso di analizzare in questa occasione, in una maniera sicuramente inadeguata, ma che ritengo dovrebbe essere spunto di attenta riflessione almeno in quei settori della sinistra più determinati nello scegliere con coerenza il terreno dell’alternativa di sistema e di società.

CHI OGGI CONDANNA BOLDRINI E GRASSO COSA DICEVA DI FINI CINQUE ANNI FA? - GLI STATI GENERALI

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domenica 12 novembre 2017

Il documento originale per la lista unica a sinistra del Pd - Vitale! - nuovAtlantide.org

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Sinistra, è urgente cambiare gioco - nuovAtlantide.org

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La democrazia e l'identità della sinistra - Eddyburg.it

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Legge di stabilità senza sviluppo L’Italia è ancora in bilico con il rischio di una nuova crisi – Strisciarossa

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Le vittorie della sinistra americana a un anno dall’elezione di Trump – L'Argine

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Paul Mason: Il neoliberismo è finito. Appunti per una sinistra radicale e di governo – L'Argine

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venerdì 10 novembre 2017

Mezzogiorno tra buone notizie e nuovi affanni | G. Viesti

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Bonus 80 euro, i nodi al pettine con il rinnovo dei contratti | F. Di Nicola e S. Pellegrino

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Industria 4.0: incentivi sì, ma solo all’innovazione | F. Schivardi

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Tra Banca d'Italia e Consob perde la trasparenza | A. Baglioni

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Jobs Act, un primo bilancio nella ricerca ISIGrowth - Sbilanciamoci.info

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Tutte le ambiguità del caso Banca d'Italia - Sbilanciamoci.info

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mercoledì 8 novembre 2017

Franco Astengo: Riepilogo dei dati elettorali 2015-2017

MEMENTO MORI: UN RIEPILOGO DEI DATI ELETTORALI (2015 – 2017) Si è appena spento l’eco dei commenti riguardanti il risultato delle elezioni siciliane di domenica scorsa (mentre si è già messa in moto la magistratura) e adesso l’attesa è tutta per le prossime, inevitabili, elezioni legislative generali. Ricordando che la legislatura scade l’11 marzo 2018 e che eventuali proroghe rappresenterebbero l’ennesima forzatura costituzionale verificatasi in questa legislatura (un’altra legge elettorale bocciata dalla Consulta; due governi venuti fuori da un trama di palazzo e non dal’esito del voto) e che sono ancora da delineare i collegi per la parte uninominale (di conseguenza tutte le simulazioni dei vari istituti di ricerca sono da considerare fasulle) è il caso di fare il punto circa quello che è stato l’effettivo andamento dei risultati elettorali parziali che abbiamo riscontrato dal 2015 al 2017. In questo lasso di tempo abbiamo avuto 5 appuntamenti al voto di rilievo nazionale (da questo computo quindi sono escluse le appena celebrate elezioni siciliane) ed esattamente: le elezioni regionali 2015; il referendum sulle trivelle del 17 aprile 2016; le elezioni amministrative del 5 giugno 2016 ( nella nostra analisi saranno presi in considerazione soltanto i dati riguardanti i 25 capoluoghi), il referendum del 4 dicembre 2016 sulle deformazioni costituzionali, le elezioni amministrative dell’11 giugno 2017 (anche in questo caso presi in esame i dati dei 25 capoluoghi chiamati al voto). E’ evidente che per quel che riguarda i due referendum saranno presi in esame soltanto i dati riguardanti la partecipazione al voto. Andiamo dunque per ordine elencando elezione per elezione il votale dei voti validi (quindi escluse schede bianche e nulle) turno elettorale per turno elettorale: Elezioni regionali 31 maggio 2015 ( 7 regioni): iscritti nelle liste : 18.849.077 voti validi: 9.293.140 ( 49, 30%) Referendum trivelle 17 aprile 2016 Iscritti nelle liste 50.675.406 Voti validi 15.533.569 (30,65%) Elezioni amministrative 5 giugno 2016 ( 25 capoluoghi) Iscritti nelle liste: 6.644.135 Voti validi 3.696.557 (55,63%) Referendum costituzionale 4 dicembre 2016 Iscritti nelle liste 50.773.284 Voti validi 32.852.112 (64,70%) Elezioni amministrative 11 giugno 2017 (25 capoluoghi) Iscritti nelle liste 2.854.057 Voti validi 1.469.936 (51,50%) Appare evidente come ormai la percentuale dei voti validi si aggiri sul 50% degli aventi diritto. In questo quadro fa davvero spicco la percentuale raggiunta nel referendum costituzionale del 64,70%, una percentuale davvero rilevante rispetto ai trend attuali. Passiamo allora all’analisi riguardante i diversi blocchi politici raggruppati in 5 parti: PD, Centro – destra, M5S, Sinistra (il riferimento è quello relativo alla conformazione della Lista Tsipras presentata alle europee 2014 e comprendente PRC, PdCI, SeL e altri soggetti) e Centristi (tentando di seguire al meglio possibile le diverse evoluzione dell’area). Verifichiamo allora nel merito: PD Regionali 2015 ( il dato comprende le liste d’appoggio ai candidati presidenti) 2.691.159 28,95% Amministrative 2016 (numeri sempre comprensivi delle liste d’appoggio ai candidati Sindaci) 1.062.767 31,50% Amministrative 2017 ( sempre comprese le liste d’appoggio) 418.791 30,33% L’andamento del PD può essere considerato lineare nel trend di calo dopo il presunto exploit delle elezioni europee 2014 (ricordiamo ancora una volta la valutazione fasulla di quel 40% ch, in realtà, dal punto di vista dei voti raccolti valeva meno del 33% del 2008). Adesso, ovviamente, pesa l’incognita della scissione di MdP. CENTRO – DESTRA I dati dei 3 partiti che compongono questo fronte (FI, FdI, Lega) sono esaminati separatamente e nel loro complesso considerato il sistema di alleanze tra loro che pare, sul piano politico, consolidarsi Regionali 2015: Forza Italia 955. 704 10,28% Fratelli d’Italia 334.663 3,60% Lega Nord 807.053 8,68% Liste d’appoggio 257.172 2,76% Alla Lega Nord sono stati assegnati anche i voti ottenuti dalla Lista Zaia in Veneto. Totale centro destra 2.354.592 25,32% Amministrative 2016: Forza Italia 275.052 8,15% Fratelli d’Italia 195.119 5,78% Lega Nord 180.306 5,34% Liste d’appoggio 358.730 10,63% Totale centro destra : 1.009. 207 29,92% Amministrative 2017 Forza Italia 107.166 7,29% Fratelli d’Italia 40.714 2,76% Lega Nord 90.505 6,15% Liste d’appoggio 225.656 15,35% Totale centro destra 489.744 31,55% Inutile rimarcare il dato di crescita costante nel triennio anche se va ricordato come il dato nazionale complessivo più probante rimanga comunque il 25% delle regionali. MOVIMENTO 5 STELLE Regionali 2015: 1.324.292 14,25% Amministrative 2016: 700.456 20,76% Amministrative 2017: 138.279 10,01% ( da ricordare per quanto riguarda questa tornata i 26.255 voti pari al 2,62% raccolti da liste cinque stelle dissidenti a Parma e Genova) SINISTRA (Prc, Pdci, Sel poi SI, dal 2017 Mdp) Regionali 2015 390.973 4,20% Amministrative 2016 295.547 8,76% (dato comprensivo dei voti ottenuti dalla Lista De Magistris a Napoli) Amministrative 2017 75.830 5,49% Una lista unica, non alleata dal PD, dovrebbe risultare abbastanza al riparo dal quorum del 3% ma l’impressione è che servirebbe l’apporto di tutti al gran completo. CENTRISTI Regionali 2015 529.992 5,70% Amministrative 2016 67.231 1,99% Amministrative 2017: 39.664 2,78% L’area cosiddetta “centrista” (riferimenti UDC e Lista Monti del 2013, poi Scelta Europea e Scelta Civica) appare complessivamente davvero sulla via dell’estinzione . Non è stato possibile prendere in considerazione l’andamento dell’estrema destra risultando, nel periodo esaminato, troppo sporadico il dato delle presentazione elettorali di quest’area politica.

martedì 7 novembre 2017

Il petrolio e la guerra civile araba | Aspenia online

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Non solo Catalogna: il risorgere dei nazionalismi regionali | Aspenia online

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Dopo l’URSS: il “potere ibrido” e la forza di Putin | ISPI

Dopo l’URSS: il “potere ibrido” e la forza di Putin | ISPI

Livio Ghersi: La Sicilia che non ti aspetti

La Sicilia che non ti aspetti. Le elezioni regionali del 5 novembre 2017 hanno rappresentato un momento di svolta per la Regione siciliana: infatti, con una significativa novità rispetto a quanto avvenuto nei precedenti settant'anni (a partire dal 1947), il numero dei deputati dell'Assemblea regionale si è ridotto, passando da 90 a 70. Poiché la composizione dell'Assemblea regionale è stabilita direttamente dallo Statuto speciale della Regione, per realizzare questo cambiamento si è reso necessario approvare una legge costituzionale, la legge 7 febbraio 2013, n. 2. Com'è noto, per approvare una legge costituzionale, la Costituzione richiede una doppia lettura da parte di ciascuna delle due Camere del Parlamento e, in seconda lettura, l'approvazione di un testo conforme a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera. É importante evidenziare che la procedura per l'approvazione della predetta legge costituzionale è stata avviata con un'iniziativa dell'Assemblea regionale siciliana, una cosiddetta "legge-voto". La Regione, quindi, è stata protagonista della volontà della propria auto-riforma istituzionale. Si è così dimostrato che non è vero che le Istituzioni non si possano riformare; occorre soltanto la volontà politica. La predetta legge-voto è stata approvata durante la quindicesima Legislatura dell'ARS; quando, per la cronaca, nessun deputato del Movimento Cinque Stelle sedeva fra i banchi di Sala d'Ercole. L'iniziativa fu presentata al Senato il 21 dicembre 2011. Una classe politica regionale meno superficiale avrebbe messo in rilievo questo fatto durante la recente campagna elettorale; tanto per dimostrare ai Cinque Stelle che il mondo non è iniziato con loro e che qualcosa di buono è stata realizzata anche in passato. Venti deputati regionali in meno si traducono in un bel risparmio per il pubblico erario e questo è un dato oggettivo, incontestabile. La legge elettorale con cui si è votato è la legge regionale 20 marzo 1951, n. 29, come modificata dalla legge 3 giugno 2005, n. 7. Quest'ultima ha disciplinato l'elezione popolare diretta del Presidente della Regione e razionalizzato il metodo di riparto proporzionale dei seggi nei nove collegi provinciali, escludendo dall'attribuzione di seggi le liste che non raggiungano, nella sommatoria regionale dei loro suffragi, il cinque per cento del totale regionale dei voti validi espressi. Anche se molti non lo ricordano, la legge regionale n. 7/2005 fu confermata da un referendum popolare tenutosi il 15 maggio 2005. L'esito delle elezioni regionali del 5 novembre 2017 dovrebbe essere studiato nei testi che trattano in modo specialistico di legislazione elettorale. Si è, infatti, realizzato il caso, davvero straordinario, che, in costanza di uno sbarramento così alto (cinque per cento), ben nove liste abbiano ottenuto rappresentanza. In particolare, bisognerebbe complimentarsi con i responsabili della campagna elettorale di ciascuna delle liste coalizzate per l'elezione del Presidente della Regione Sebastiano (Nello) Musumeci. Queste liste erano cinque. Hanno ottenuto, complessivamente, il 42,04 % del totale dei voti validi e tutte e cinque hanno superato lo sbarramento. Chapeau! Bisognerebbe togliersi il cappello, perché qui siamo di fronte non a dei professionisti, ma a dei professori universitari in fatto di pratica politica. Alla quarta esperienza con la medesima legge elettorale, le forze politiche siciliane hanno dimostrato di essere diventate espertissime nel suo uso. Nei collegi provinciali, le cinque liste che sostenevano il Presidente Musumeci hanno conquistato, complessivamente 29 seggi dei 62 disponibili. Poiché non hanno raggiunto quota 42 (ossia, il 60 % del totale dei deputati dell'Assemblea regionale), hanno ottenuto, in aggiunta, tutti i sette seggi della lista regionale collegata. Il seggio del neo-eletto Presidente della Regione più quelli di sei deputati, in ordine alternato fra uomini e donne. La legge elettorale prevede che questa limitata quota di seggi assegnati con sistema maggioritario serva ad incentivare la costituzione di una maggioranza parlamentare. Invece, nel caso in cui la coalizione più votata avesse già eletto più del 60 % dei deputati nei collegi provinciali, i sei ulteriori seggi sarebbero stati assegnati alle liste di minoranza, in proporzione alle loro cifre elettorali, per un riequilibrio della composizione dell'Assemblea. Quella del Movimento Cinque Stelle è risultata la lista più votata in assoluto. Ha ottenuto 513.359 voti (26,74 %), conquistando 4 seggi nei collegi di Palermo e Catania, 2 seggi in quelli di Agrigento, Messina, Siracusa e Trapani, un seggio nei restanti tre collegi. Per complessivi 19 deputati, ai quali si aggiunge il seggio attribuito a Cancelleri, quale candidato alla carica di Presidente della Regione arrivato secondo. I Cinque Stelle hanno dimostrato di aver appreso come si usano le preferenze: buon per loro che fanno un passo avanti nella strada del realismo e bene per tutti noi perché così la selezione del loro ceto politico, ad opera degli elettori, diventa una cosa più seria. I deputati eterodiretti non ci piacciono. L'infausto esito della candidatura di Micari è sotto gli occhi di tutti. Il Rettore dell'Università di Palermo ha ottenuto oltre centomila voti in meno rispetto a quelli delle liste che sostenevano la sua candidatura. Viceversa, Cancelleri è stato il più beneficiato dal voto disgiunto, ottenendo 209.196 voti in più rispetto a quelli andati alla lista del Movimento Cinque Stelle. Commettono un errore, tuttavia, quanti danno per defunto il Partito democratico. Il PD non soltanto conterà 11 deputati in seno all'Assemblea, ma ha eletto deputati in tutti i collegi, 2 in quelli di Palermo e Catania. Il presidente Musumeci è persona perbene e, nell'interesse della Sicilia, gli auguriamo sinceramente ogni successo. Abbiamo molto apprezzato il riferimento che, nel primo discorso successivo alla sua elezione, ha fatto all'unità d'Italia come valore; musica per le orecchie degli estimatori della tradizione risorgimentale, quali noi siamo. É molto difficile, però, governare con 36 voti su 70. Sussiste la maggioranza assoluta (metà più uno) dei deputati; ma è giusta giusta. Tanto risicata che ogni singolo deputato di maggioranza potrebbe domani esercitare un potere di veto, o di interdizione, sui provvedimenti in discussione. Il fatto è che non si possono chiedere miracoli alle leggi elettorali. In una condizione di incertezza e di frantumazione delle forze politiche, le maggioranze autosufficienti diventano sempre più improbabili. La simpatica onorevole Giorgia Meloni, Segretaria di Fratelli d'Italia, deve rassegnarsi al fatto che, nell'interesse del bene comune, non solo è lecito, ma necessario, che i parlamentari dialoghino fra loro sul merito dei provvedimenti, senza irrigidirsi in logiche di schieramento. Per concludere il discorso sulle elezioni del 5 novembre, la Sinistra, tradizionalmente penalizzata nelle tornate elettorali regionali, ha superato la soglia di sbarramento. L'unico seggio va a Claudio Fava. Questa volta la vittima più illustre della regola del 5 % è la lista di Alternativa popolare. Frutto dell'alleanza del partito del Ministro degli Esteri Alfano e degli ex UDC che hanno scelto il centro-sinistra, come il senatore Casini ed il deputato nazionale D'Alia. 80.366 voti, presi nell'intera Sicilia, non sono bastati. Ne occorrevano almeno centomila. Così, tra gli altri, ha perso il seggio il presidente dell'Assemblea regionale uscente, Giovanni Ardizzone. Invece l'UDC di Cesa, rimasta nel centro-destra, ha avuto il 6,96 % dei suffragi e ottenuto 5 seggi nei collegi. Palermo, 7 novembre 1017 Livio Ghersi

Gli errori a ripetizione dei Dem « gianfrancopasquino

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“Chi ci guida non deve essere calato dall’alto” - Eddyburg.it

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Paradise Papers show we need action on tax evasion – Corbyn speech to business | LabourList

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Paolo Bagnoli: Un travaglio lacerante

Da Non Mollare la biscondola un travaglio lacerante paolo bagnoli I risultati delle elezioni regionali siciliane non sappiamo se anticipano la radiografia di quelle politiche. Di sicuro confermano le previsioni degli osservatori che davano per sicura la vittoria della destra e la sconfitta del partito democratico con in mezzo i 5Stelle che hanno cercato di vendere la pelle dell’orso prima di averlo preso. Il voto disgiunto ci dice che, almeno in Sicilia, la contestazione di tipo solipsistico al sistema che vogliono rappresentare, è in fase calante. Il voto siciliano è indicativo, ma non è detto preannunci l’esito nazionale. Ogni elezione fa storia a sé. Ciò che, da elezione in elezione, resta permanente è il trend negativo del Partito democratico. La batosta ricevuta, tuttavia, ci porta a dire che il renzismo, quale “filosofia” del fare politica è in fase di superamento. Il resto è patetica sceneggiata in un Paese che, circa a un quarto di secolo dall’inizio della crisi della politica democratica, quasi un drammatico girotondo, si trova al punto di partenza; ossia a Berlusconi il quale, benché non eleggibile, torna al centro del panorama nazionale come catalizzatore che batte i 5Stelle. Il populismo di ieri sconfigge la demagogia di oggi in un sistema che, se andiamo a guardare i voti reali, è una democrazia senza popolo; senza la gente che era il nerbo della democrazia italiana tramite i soggetti rappresentati dai partiti politici di un tempo. Ripetiamo che il voto siciliano potrebbe essere benissimo diverso da quello che, tra qualche mese, sarà quello nazionale. Oggi rimaniamo a questo che ci dice quanto non abbia pagato quello che appariva come uno degli aspetti principali della campagna elettorale: ossia l’assenza del Pd. Esso, infatti, sarebbe stato esercito solo ed esclusivamente dal suo segretario da giorni in viaggio su un treno per portare il verbo democratico al Paese; un messaggio che ha al proprio centro lui stesso in uno schema che lo vede in solitaria contro tutti. Tale canone non ha pagato. La Sicilia, ove Renzi si è appena affacciato, gli ha riservato, comunque la si voglia mettere, un cannolo duro da digerire.. Inizierà dalla Sicilia il processo di rottamazione del rottamatore? Al momento nessuno lo può dire; certo che non si è mai visto il massimo responsabile di una formazione politica muoversi in campagna elettorale in modo del tutto indipendente da essa. Confessiamo che siamo rimaniamo stupiti dal ragionamento che regge il comportamento di Renzi le cui radici affondano nella suggestione veltroniana del partito a vocazione maggioritaria che, in un passaggio importante quale quello delle elezioni europee quando il Pd raccolse il 40% dei suffragi, apparve essere confermata dai fatti. Ma fu un passaggio, appunto, che come apparve subito dopo scomparve e anche se Renzi mette in coppiola quel risultato con quello del referendum che fu, peraltro, leggermente più basso, solo un’allucinazione può ritenere i due risultati omologabili: che, quindi, ci sia uno zoccolo duro del Paese pari al 40% o vicinissimo a tale percentuale a favore del Pd ossia di Matteo Renzi. Evidentemente egli è più che convinto che sia così e su tale convincimento fonda la sua sfida rivolta a tutti, compreso il proprio partito. Forse, dopo l’indebolimento dovuto al responso dell’isola, ci potrebbero anche essere dei cambiamenti. Ora, al di là di ogni valutazione di ordine psicologico sull’uomo, il ragionamento evidenzia una solida mancanza di lucidità politica che ci dice, da un lato, quanto egli abbia sofferto la sberla dell’esito referendario e, dall’altro, come non abbia fatto i conti seriamente con quel risultato e sulla sua portata, ma l’abbia considerato alla stregua, né più né meno, di un mero incidente di percorso. Un inciampo da cui lo avrebbero riscattato le primarie, che cita a ogni piè sospinto, per dare ragione dei propri comportamenti. Va anche detto che, in una democrazia senza popolo, ma solo delegata a gruppi di comando, quanti lo hanno votato alle primarie, sono una fetta di popolo. Equiparare il voto europeo con quello referendario è come sommare le pere alle mele: fin dalle elementari, ci hanno insegnato che è impossibile. Infatti, mentre i suffragi europei hanno la caratteristica di conformità politica essendo stati raccolti da una lista partitica, quelli referendari ne hanno un’altra poiché ai referendum i voti sono trasversali e nessuno sa cosa c’è dentro quel voto come nessuno sa cosa c’è dentro il 60% che ha respinto la proposta di riforma costituzionale. Secondo Renzi, però, chi ha votato alle europee il Pd sono gli stessi elettori che hanno 4 nonmollare quindicinale post azionista | 008 | 06 novembre 2017 _______________________________________________________________________________________ poi espresso voto favorevole al referendum. Il ragionamento non sta in piedi politicamente poiché le pere non sono le mele. Quella di Renzi è una vera e propria sfida che lancia alle forze politiche, al Paese, a tutti insomma con un’ostinazione della quale gli va dato atto, ma in politica le sfide di solito non si vincono da soli. Gli esempi abbondano. Un atteggiamento, tra l’altro, in contraddizione con la realtà considerato che, senza Denis Verdini, la legge elettorale non sarebbe passata e di Verdini, tutto lascia capire, ci sarà ancora bisogno per la legge di stabilità. E mentre Verdini ha assicurato che non solo lui ci sarà, ma che c’è sempre stato, Pietro Grasso e Antonio Bassolino se ne sono andati con toni aspri verso il partito e il suo segretario. I due abbandoni sono il sintomo di un malessere più che profondo e il Pd dovrebbe ringraziare Grasso – a cui, come Presidente del Senato, non c’è proprio niente da rimproverare - per aver deciso di uscire dopo l’approvazione della legge elettorale. Pensiamo cosa sarebbe successo se avesse abbandonato la carica per rivendicare il diritto della Camera che presiede di dibattere la legge elettorale come sarebbe stato giusto? La legge sarebbe sicuramente decaduta, ma il gesto sarebbe stato sicuramente più significativo al fine di recuperare quella autorevolezza delle istituzioni continuamente calpestata. Forse l’intenzione di Grasso era veramente questa, ma forti freni lo devano aver trattenuto. Il Paese si trova di fronte a uno scenario del tutto nuovo i cui sviluppi non sono prevedibili; certa è la continuazione di un travaglio lacerante la tramatura di un sistema che imporrebbe di essere ricostruito, nello spirito della democrazia repubblicana, politicamente e nel significato morale di cosa significa l’ordinamento democratico in un Paese costituzionalmente motivato.

Franco Astengo: Sicilia

ELEZIONI SICILIANE: DAI PRIMI NUMERI, UN APPUNTO PER LA SINISTRA di Franco Astengo La crescita dell’astensionismo, rilevatasi ancora una volta fattore costante anche nell’occasione delle elezioni siciliane, ci permette ancora di affermare come primo punto di questo avvio di analisi che nessuna forza politica può accreditarsi come punto di ostacolo verso la diffidenza di buona parte dell’elettorato al riguardo dei soggetti politici esistenti. Non esiste alcun soggetto che possa vantarsi di interpretare il disagio di fondo che percorre la società italiana nei confronti dell’arrogante espressione di “autonomia del politico” che sembra proprio andare per la maggiore trasversalmente agli schieramenti. Diffidenza (e ostilità) che non si traduce soltanto nell’assenza al voto, ma rende assolutamente fragile la capacità del sistema di interpretare ed esprimere le grandi contraddizioni sociali. Guardiamo alla Sicilia (da tutti unanimemente considerata, per varie ragioni, un vero e proprio “laboratorio”. Nel 2012, infatti, i voti validi per le liste furono complessivamente 1.915.530; alle politiche del 2013 2.511.785, europee 2014 1.704.959: quindi un percorso in saliscendi, anche perché al referendum 2016 si risale a 2.262.808 quindi circa 500.000 voti in più rispetto alle europee 2014. Un recupero oggi vanificato essendosi il numero dei voti validi si è fermato a 1.924.632 per le liste. Di conseguenza rispetto al referendum 2016 registriamo un calo nei voti validi pari a 338.176 unità (la quota più bassa nei voti validi rimane comunque quella riscontrata alle europee 2014, quelle dell’illusorio 40% di Renzi, con – appunto – 1.704.959 voti espressi). Rimane al di sotto del totale dei voti validi fatto registrare al Referendum anche il totale dei voti validi espressi, in questa occasione, per i candidati – Presidente che assomma a 2.085.075. Si ricorda che il numero delle elettrici/elettori iscritte nelle liste era, per questa volta, di 4.611.111 unità. All’interno di questo quadro di debolezza sistemica derivante dall’astensionismo, si presenta una questione specifica riguardante la sinistra, presentatasi in questa occasione in forma unitaria attorno alla candidatura di Claudio Fava e alla lista “Cento passi”. Candidatura unitaria (federazione della Sinistra, SeL e Verdi) che si era già realizzata nel 2012 attorno alla figura della sindacalista Giovanna Marano (che aveva sostituito in corsa Fava, incappato in un disguido burocratico). La candidatura della Marano aveva ottenuto 122.633 voti pari al 6,10 con l’Italia dei Valori a quota 67.738 ( 3,50%) e una lista della Federazione della Sinistra (PRC e PdCI) con Sel e Verdi a 58.873 (3,10%). In questa occasione, aggiuntosi anche l’MdP e scomparsi IDV e Verdi la candidatura di Fava ha ottenuto 128.157 voti, meno di 6.000 in più rispetto al 2012. La sola lista (“I cento passi”) che appoggiava la sua candidatura ha ottenuto 100.383 voti (nessun problema, quindi, rispetto al richiamo del”voto utile” in presenza della possibilità del suffragio disgiunto). Nel 2012 le liste d’appoggio alla candidatura Marano avevano riportato 126.491 suffragi. Dal punto di vista del voto alle liste ci troviamo quindi in una situazione di flessione tra il 2012 e il 2017 per circa 26.000 unità. Nel frattempo si è rovesciato anche il rapporto tra voti alle liste e voti al candidato/a Presidente in quanto il voto personale di Fava ha superato quello delle liste, mentre per la candidatura Marano nel 2012 era avvenuto esattamente il contrario, anche se soltanto per 4.000 voti circa di differenza. A questo punto vale la pena, per quel che riguarda la sinistra, sviluppare un ulteriore punto di riflessione. Considerato che, nel 2016, in Sicilia il “NO” nel referendum staccò il “SI” di circa 1.000.000 voti è facilmente intuibile come all’interno di quel voto a favore del “NO complessivamente pari a 1.620.095 suffragi si trovassero un numero non indifferente di voti espressi da elettrici ed elettori orientati a sinistra che, nel frattempo, delusi fossero rifluiti nell’astensionismo tornando al voto su di una questione chiara, precisa come quella riguardante il giudizio sulle modifiche costituzionali volute da Renzi. E’ valutabile, a questo punto, che la candidatura Fava e la presenza della lista “Cento Passi” non abbiano funzionato per richiamare nuovamente al voto questa fetta di elettorato che dopo essersi espressa al referendum è, con ogni probabilità, nuovamente rifluita nel non – voto. Il PD dal canto suo è tornato ai livelli del 2012 dove ottenne 257.274 suffragi (quindi oggi si registra una flessione di circa 7.000 voti) ma soprattutto dimostra di aver completamente smarrito il patrimonio accumulato con il risultato del 2014, allorquando raccolse 573.134 voti. Accanto al PD si registra il disastro della lista di Scelta Popolare ferma a 80.366 voti: la sola UDC nel 2012 aveva ottenuto 207.827 voti ( la parte “alfaniana” dell’attuale Scelta Popolare nel 2012 faceva parte del PdL). Soprattutto il PD registra la debolezza della candidatura Micari, questa sì sottoposta al bombardamento del voto disgiunto a favore sia del candidato del M5S sia di quello del centro – destra, poi eletto presidente. Infatti, il divario tra il voto al candidato – presidente del PD e i voti delle liste che lo sostenevano appare fortissimo: Micari raccoglie 388.886 voti, mentre le liste assommano 488.939 suffragi. Mancano all’appello all’incirca 100.000 voti. Non è esaltante neppure il voto di lista per il M5S, che sicuramente ha usufruito in misura maggiore del voto disgiunto: il candidato – presidente ha ottenuto 722.555 voti mentre la lista si è fermata a 513.359, con un incremento limitato rispetto al 2014 ( 448.539) e una seria flessione rispetto alle politiche 2013 (843.557). Un viatico non positivo in vista delle prossime elezioni politiche che indica la possibilità che il risultato complessivo del M5S sul piano nazionale si collochi in una frangia di suffragi intermedia tra il risultato del 2013 e quello del 2014. Per concludere due punti di riflessione riservati alla sinistra, premesso appunto che non ha sofferto del richiamo al “voto utile”, piuttosto ha patito il mancato ritorno al voto degli astensionisti (classificati “ideologici” da una recente analisi comparsa anche su settimanali e quotidiani) dopo che una parte di questi si era espressa nel referendum del 4 dicembre 2016. Tutto questo dimostra tre punti: 1) A sinistra la sensibilità dell’elettorato “deluso” si rivolge certamente alla tensione unitaria, ma diventa concreta quando questa tensione unitaria, come nel caso del Referendum 2016, si esprime attorno ad obiettivi di grande respiro come è sicuramente rappresentato dal tema della Costituzione, della sua difesa e della sua affermazione. Quindi: alto livello e chiarezza negli obiettivi programmatici. L’interesse per trasformismi, traccheggiamenti, conservazioni di posizione, assegnazione a tavolini di improbabili leadership, appare invece molto limitato; 2) Questa chiarezza, che nell’occasione del referendum si era tradotta in un voto di grande rilievo è stata rivolta ad avversare i fondamenti della politica portata avanti dal PD (R) nel corso di questi anni. Ed è questo un dato da tenere ben presente rispetto alle stesse prospettive di alleanza in vista delle elezioni politiche. 3) Il tema di fondo sul quale realizzare una possibile unità a sinistra è quello della Costituzione e la faglia creatasi con il referendum presenta ancora il punto di riferimento sul quale costruire programmi, schieramenti e posizioni anche nell’arena elettorale. La gravità dell’attacco portato soprattutto dal PD alla Costituzione costituisce un vero e proprio punto di rottura che non potrà essere sanato neppure nel medio periodo e che richiede ancora un vero confronto politico. Naturalmente resta in piedi la questione del soggetto politico ma, con ogni probabilità, i tempi risulteranno troppo stretti da qui alle elezioni per poterlo affrontare produttivamente.

venerdì 3 novembre 2017

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mercoledì 1 novembre 2017

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